RIUNIONI O INVASIONI – PARLIAMO BENE DEL “DECRETO RAVE”

Qualche tempo dopo l’emanazione del c.d. “Decreto Rave”, a mente fredda, abbiamo provato a fare una riflessione un po’ più ampia sulla disposizione e sulle sue implicazioni.

Come noto, in occasione del primo Consiglio dei Ministri, il nuovo Governo ha approvato il Decreto Legge n.162 contenente “Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre 2022.

In particolare, l’art. 5 del decreto introduce norme in materia di occupazioni abusive e raduni illegali, modificando la fattispecie di cui all’art.434-bis del codice penale, anche se solo in senso formale.

La norma dispone che: “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita.”

L’occasione per l’utilizzo (proprio necessario?) della decretazione d’urgenza è sorta da un rave party organizzato, svoltosi e poi interrotto a Modena. La disciplina pertanto sembrerebbe collocarsi in un determinato ambito, almeno per quanto riguarda la finalità esplicitamente dichiarata dal Governo. Tuttavia, la portata estensiva e arbitraria della norma, di fatto non tipizza in modo tassativo e determinato la condotta di invasione penalmente rilevante e dunque, potrebbe essere applicata a molti altri casi concreti in cui sono presenti analogie. Ma su questo l’art.17 della Costituzione è molto chiaro: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.”

Di contro, i rave sono contesti liberi e gratuiti, che rappresentano una società pluralista e inclusiva; nascono alla fine degli anni ‘80 come atti di dissidenza politica e diventano un vero e proprio stile di vita, contro il proibizionismo e la repressione, costituendo oggi un fenomeno culturale esistente in tutto il mondo. Ad oggi, a latere di una sempre maggiore repressione giudiziaria, si nota il crescente utilizzo di strumenti “di polizia” quale l’ampio utilizzo di misure di prevenzione e, nello specifico, di fogli di via obbligatori adottati nei confronti di partecipanti ai rave parties. Sul punto, StraLi ha già avuto modo di contestare tale utilizzo dinnanzi alle autorità giudiziarie competenti, ottenendo importanti risultati, ai quali si rimanda (https://www.strali.org/ilcasomisurediprevenzione).

La norma in analisi, costituisce un reato di pericolo, privo di logica giuridica perché collegato a due elementi: la partecipazione di un numero superiore a cinquanta persone e lo scopo di invasione legato all’organizzazione di un raduno. La condotta di organizzazione deve quindi essere dolosa e posta in essere prima dell’invasione di un “un numero di persone superiore a cinquanta”, sicché non basterà individuare trenta persone occupanti arbitrariamente un edificio o un terreno per procedere all’applicazione della legge.

Inoltre, le pene edittali sono molto elevate, sia per chi organizza che per chi partecipa, e questo impedirebbe la messa alla prova di cui all’art.168-bis c.p. che consente di ottenere l’estinzione del reato, a seguito di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Poi, non è chiaro come si possa identificare il pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità̀ pubblica o la salute pubblica – previsto come elemento necessario della norma – e come lo si possa riferire ad un’occupazione arbitraria, con un’incriminazione piuttosto severa che si presta ad applicazioni poliziesche di repressione del dissenso: tale pericolo da dove dovrebbe nascere? Il raduno sarebbe meno pericoloso se si verificasse in accordo col proprietario di un terreno che mette a disposizione il proprio immobile? Non si rischia in tal modo di inserire in una prescrizione penale un elemento eccessivamente discrezionale, tipico di misure di polizia o comunque di organi quali la Questura o la Prefettura?

L’ultimo comma della norma, sulla “confisca obbligatoria estesa alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione”, sembra rappresentare una scelta di politica legislativa contraria al principio di ragionevolezza e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti. In questo caso, potranno essere applicate misure ablatorie e di prevenzione, quali la sorveglianza speciale o la confisca obbligatoria, al pari di quanto previsto per i sospettati di reati di mafia, i cui fatti potenzialmente interferiscono con i diritti costituzionali, quali in particolare il diritto di riunione, di manifestazione del pensiero, di associazione e di sciopero.

La vaghezza della norma potrebbe non costituire un difetto per chi legifera, ma un modo per consentire ampi spazi di intervento delle forze dell’ordine, che potranno intervenire in via anticipata, anche solo qualora il pericolo fosse presunto, senza dover troppo dimostrare, in termini di giudizio, la pericolosità effettiva del raduno. Ma aldilà dello specifico fenomeno di rave party, la portata applicativa della norma travalica le motivazioni di questa scelta politica, collocandosi in uno Stato democratico, basata sul pubblico confronto, sulle riunioni e sui raduni, in qualsivoglia contesto sociale.

Pur con molte perplessità, dunque, attendiamo la conversione in legge del decreto – è attualmente in corso di esame in commissione al Senato https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/55935.htm – per valutare le modifiche apportate sulla disciplina, rimanendo comunque vigili e pronti ad individuarne eventuali profili di incostituzionalità.

A cura di Sara Bruno

LA LUNGA STRADA VERSO IL (E LONTANO DAL) 25 NOVEMBRE

Il 25 novembre ricorre ogni anno a ricordarci i connotati violenti della discriminazione nei confronti delle donne. Nella giornata eletta dall’Assemblea Generale dell’ONU quale memento annuale della lotta alla violenza di genere, sorge spontaneo soffermarsi a riflettere sull’evoluzione che tale fenomeno attraversa e le oscillazioni che lo riguardano. Di anno in anno, siamo portati a chiederci quale sia il bilancio rispetto all’anno precedente, se vi sia stata una variazione nei dati, se possa dirsi che questi dati riflettano il diffondersi di una cultura che fa del rifiuto della violenza la propria imprescindibile premessa. Nell’accostarsi a tali valutazioni, appare di particolare rilievo inserirle nella cornice legislativa del panorama internazionale: mentre gli strumenti messi a disposizione dal panorama nazionale tendono ad essere più noti e fruibili, si tende spesso a trascurare il contesto più ampio offerto dal diritto internazionale.

Al contrario, è proprio in tale contesto che, sulla scia delle istanze femministe degli anni Settanta, i diritti delle donne hanno acquisito rilievo autonomo e precipuo anche da un punto di vista legislativo. Divenuti consapevoli delle discriminazioni che colpiscono le donne in maniera sproporzionata, gli Stati hanno formalmente preso l’impegno di assicurare la parità sostanziale, oltre che formale, di ogni essere umano dinanzi alla legge e, a tal fine, rimuovere attivamente gli ostacoli che lo impediscano.

Era il 18 dicembre 1979 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), tutt’oggi il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne. La cifra distintiva della Convenzione, nonché il suo maggior pregio, è quella di aver offerto per la prima volta una definizione di “discriminazione nei confronti delle donne” condivisa da tutti gli Stati parte, che abbraccia “ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, quello di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, e su una base di uguaglianza tra l’uomo e la donna, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in ogni altro campo” (art. 1 CEDAW). Attraverso questo strumento, gli Stati firmatari della Convenzione hanno condannato “la discriminazione nei confronti delle donne in tutte le sue forme”, convenendo di impegnarsi a garantire l’applicazione effettiva del principio di uguaglianza tra uomo e donna attraverso l’introduzione, o la modifica, di strumenti legislativi adeguati, che assicurassero la piena adesione e la conformità a tale obbligo da parte di autorità, enti pubblici e istituzioni (art. 2).

Il Comitato CEDAW è stato introdotto con l’intento di assicurare l’interpretazione e l’applicazione uniforme della Convenzione a livello globale. A tal fine si è dotato dello strumento delle Raccomandazioni Generali, delle quali si è servito per chiarire e definire la portata della Convenzione, colmando talune lacune lasciate nel testo dall’acerbità del dibattito in tema di diritti umani delle donne sul finire degli anni Settanta. Le Raccomandazioni Generali, tra le altre cose, descrivono le forme che può assumere la discriminazione nei diversi ambiti della vita sociale, lavorativa e politica, indicando misure concrete che gli Stati sono incoraggiati a intraprendere per contrastare questo fenomeno. Queste comprendono la conduzione di indagini e la raccolta di dati statistici, la promozione di programmi di formazione per i membri dell’apparato giudiziario e di polizia, la promozione di campagne di sensibilizzazione, l’istituzione di programmi di riabilitazione per gli autori di violenza, programmi di informazione e di educazione, servizi di supporto alle famiglie delle vittime (para. 24 Raccomandazione Generale n. 19).

Altrettanto significative, tra le mansioni affidate al Comitato, sono le Comunicazioni. A seguito dell’adozione del Protocollo Facoltativo alla CEDAW nel 2000, le cittadine degli Stati firmatari che lamentino una mancata protezione dei propri diritti da parte delle autorità statali possono sottoporre la questione al Comitato, ricevendo da quest’ultimo un parere non vincolante. Anche attraverso questo strumento, il Comitato non ha mancato di evidenziare che, alla luce delle disposizioni della Convenzione, si richiede agli Stati non solo che assicurino alla donna una risposta istituzionale adeguata e tempestiva, ma anche che assumano l’adeguata diligenza nell’impedire la commissione di tali atti da parte di privati, nel condurre le relative indagini, e nell’assicurare pieno risarcimento quando dovuto.

Gli obiettivi prefissati dalla CEDAW sono stati ripresi da una serie di strumenti legislativi successivi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è riunita nuovamente nel 1993 per adottare la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne e istituire la figura della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Violenza contro le Donne, le sue Cause e le sue Conseguenze. Il Consiglio d’Europa ha adottato ad Istanbul nel 2011 la Convenzione sulla Prevenzione e la Lotta contro la Violenza nei confronti delle Donne e la Violenza Domestica (la c.d. Convenzione di Istanbul).

Quest’ultima ha mutuato il gergo usato dalla CEDAW, e si è dotata a sua volta di un meccanismo di controllo, il GREVIO, che valuta in maniera indipendente il rispetto da parte degli Stati degli obblighi da essa derivanti. Le valutazioni svolte periodicamente da questo Gruppo di Esperti mettono in luce diversi aspetti di criticità, tra cui spicca il permanere di zavorre culturali che impediscono il pieno esercizio dei propri diritti da parte delle donne.

A fronte di tale panorama legislativo, sorge spontaneo chiedersi quale impatto effettivo abbiano tali strumenti nella vita quotidiana delle donne. In tal senso è abbastanza significativo che, come notato dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, in base alle indagini effettuate dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), nessun Paese dell’Unione Europea abbia ancora conseguito pienamente la parità di genere. Peraltro, abbastanza tristemente, oltre dieci anni dopo la sua approvazione, ancora non tutti gli Stati membri dell’Unione Europea hanno aderito alla Convenzione di Istanbul.

Questa arretratezza è particolarmente vera per l’Italia che, pur a fronte di una attività legislativa all’apparenza adeguata, si scontra con il permanere di barriere tangibili ed invalicabili che ostacolano le donne nel pieno esercizio dei loro diritti. Nonostante l’esistenza di spinte contrarie che puntano all’evoluzione della situazione, i dati parlano chiaro: resta difficile per le donne essere credute (o non ri-vittimizzate) quando denunciano violenza sessuale o maltrattamenti, resta difficile ottenere provvedimenti cautelari effettivi che le tutelino dai loro aggressori, e ancor più confidare in un giudizio equo dinanzi all’organo giudicante e vedere riflesso anche in ambito civile, nelle cause relative all’affidamento della prole, l’esito dei giudizi che condannano i loro partner violenti in ambito penale. Sebbene la Cassazione aderisca ormai in maniera granitica all’orientamento che include il consenso quale elemento caratterizzante il reato di violenza sessuale, la nostra legislazione lo ritiene tanto marginale da non averlo ancora incluso nella definizione della fattispecie di reato (art. 609-bis c.p.). Per quanto riguarda il femminicidio, parossismo di questa mancata tutela, i dati restano allarmanti e, la prima metà di 2021, si parla di circa uno ogni quattro giorni.

Per la sua visione antiquata e stereotipata della violenza di genere in ambito giudiziario, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo più volte, a partire dalla storica sentenza Talpis v Italia. L’anno scorso, in particolare, la Corte EDU ha censurato il “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante” adottato dalla Corte d’Appello di Firenze nella decisione di un caso di violenza sessuale di gruppo che assolveva gli imputati per mancanza di credibilità della persona offesa.

Nonostante l’emanazione della l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, con il precipuo intento di introdurre nel nostro ordinamento un regime di particolare tutela, di carattere sostanziale e processuale, nei confronti delle donne vittime di violenza, permangono radicati gli stereotipi di genere, i quali esplicano la loro brutalità non soltanto nella commissione dei reati, ma anche, e più gravemente, nella risposta istituzionale dei soggetti che, a fronte di tali reati, dovrebbero assicurare protezione e tutela alle persone offese.

Mentre gli strumenti predisposti a livello internazionale abbisognano di un intervento attivo da parte dei legislatori nazionali, affinché sia dato corso agli obblighi assunti, è altresì vero che senza tali strumenti la strada da percorrere sarebbe ancor più lunga e tortuosa. Essi, infatti, definiscono il contenuto minimo che tutti gli Stati parte sono tenuti ad assicurare alle donne di tutto il mondo, impongono lo standard al di sotto del quale non può propriamente parlarsi di tutela.

Tuttavia, da sole, le fonti di diritto non bastano: serve un ripensamento sistemico circa la capacità del sistema giudiziario di comprendere il fenomeno della violenza di genere e predisporre adeguati strumenti di tutela in tal senso, tanto successiva quanto preventiva. Ciò non può che avvenire, necessariamente, nella fase dell’educazione e della sensibilizzazione, a tutti i livelli e in tutti gli aspetti della vita. Secondo il meccanismo che è proprio dei diritti umani, l’individuazione di ciò che “ci si augura sia” è necessario ad individuare il punto di arrivo, e di nuova ripartenza, ovvero il raggiungimento di un ideale in cui nessuna convenzione e nessuna carta saranno più necessarie.

Il 25 novembre commemora la lotta alla violenza di genere di carattere fisico. Tutti gli altri giorni dell’anno continuano a combatterla su tutti i fronti.

A cura di Sarah Lupi

LAWS CAN’T HIDE NO MORE

Wars have always constituted a momentum of significant technological advancement. It was so then: it is so today, including in the war in Ukraine. Even though in this specific case only two are the parties confronting themselves on the ground, many more States contribute indirectly to supporting one party or the other as the conflict unfolds.


In this respect, weapons are largely provided on both sides. Notably, it has been since the beginning of the conflict that Ukraine purchases autonomous weapons from several countries – Turkey in the first place. So has Russia allegedly done with North Korea.

More recently US has reportedly planned to sell to Ukraine very peculiar and highly technological weapons: the MQ-1C Gray Eagles. In the same wake, Turkey has been a large supplier of Bayraktar-TB in Ukraine and in Nagorno Karabakh before.

These are drones that can be armed with specific missiles for battlefield use. They carry out armed attacks and show a great capacity in terms of outreach, precisions, and weight (rectius: number of weapons) they may carry.

In fact, both these weapons subscribe to the category of lethal autonomous weapon systems (LAWS), i.e., systems that are, to a different extent, unmanned. In other terms, they operate without human input, or quite so.

This article provides some little guidance to get us some bearings in the universe of lethal autonomous weapons and shed a light on relating major legal debates – as the notion of autonomy in the context of weaponry is still under dilemma and shows a certain degree of controversies, on both political and legal levels.

To begin with, the concept of autonomy calls for some clarification. The ICRC defines LAWS as ‘weapon systems that can learn and adapt [their] functioning in response to changing circumstances in the environment in which [their] are deployed’. However, there is no general agreement on the definition and parties have come up with alternatives focusing, at times, on technical elements, at others, on human control. In this respect, a comprehensive overview is provided by UNIDIR (United Nations Institution for Disarmament Research).

At any rate, those systems rely on artificial intelligence (AI), which generally refers to the capacity of machines to emulate human thought and replicate human action in real-world environment. A specific set of AI is what is called machine learning. Machine learning systems are endowed with algorithms allowing them to elaborate data and come up with patterns through which they adjust their own behavior. All happens without human intervention. Experts distinguish AI from machine learning by referring to narrow AI and general AI. In the former case, machine will be provided with data (and guidance) they will act upon: they are designed for specific tasks. In the latter case, instead, general artificial intelligence (GAI) acts upon some input and little (or no) oversight: machines of this kind elaborate preliminary data, make relations between them, and come up with ultimate results that are far stretched from the initial data provided. Possibly, they may cover a far-fetched range of tasks.

For instance, a narrow AI system will need a specific identity to target someone. On the contrary, GAI can be given with general information (such as, general physical features), which will be processed and it will act accordingly. Machine learning refers to this latter category. This technology informs the level of autonomy machines used in warfare have. In this respect, for classification’s sake, experts do not tend to refer to the quality of AI implied only, but, most importantly, to the level of human control that rests upon those systems. In this wake, LAWS are subdivided into three categories:

  1. Human in the loop. Humans play a role in all steps of their implementation and activation, from programming, to planning an attack until controlling it and eventually deactivating it. In other words, those weapons perform tasks independently but only when delegated by their (human) operator.
  2. Human on the loop. Those systems that carry out attacks independently, but constantly supervised by human control. Humans can eventually override any decisions.
  3. Human out the loop or fully autonomous weapons. Except for programming part, those weapons are able to carry out all steps of military attacks (from searching, identifying and launching) independently of any human input.

Technology has made gigantic steps in this field. This holds true in the battlefield: the weapons mentioned at the beginning of the article prove it. Similarly, progresses are visible in security and law enforcement operations (for instance, see here).

Yet, answering the question “are fully autonomous weapons among us already?” is not an easy task.

In fact, for a State to make the capacity to build machine learning systems public constitutes an asset to a certain extent only. Of course, showing off the ability to develop certain technologies allow States to gain a major role in the playing field (in other words, a way to flex their muscles against competitors).

Yet, in warfare, showing too much can easily backfire. In fact, for strategic reasons, the military is not prone to share methods of lawfare or the way they assess proportionality (a fundamental rule of the conduct of hostilities). By doing so, they risk hampering the effectiveness of their operations and attacks on the ground. This is also a good way to shield from liabilities or find a way out to that. This is true for the generality of operations.

Today, the fact that States having the capacity to develop such technologies are not directly involved in armed conflicts render the political dilemma a less impingent one. As a result, evidence of implementation of machine learning systems pops up every now and then. First, a UN Report (S/2021/229), published in March 2021 by the UN Panel of Experts on Libya (Res 1973/2011) confirmed the use of a drone, the Kargo 2, powered by artificial intelligence. More recently, evidence of AI used in warfare come from several frontlines: from Iraq, Nagorno-Karabakh, Ethiopia and ultimately Ukraine.

Yet, when it comes to LAWS, there is an additional element to consider: the suitability of the existing legal framework.

International humanitarian law (IHL), i.e., the body of norms governing the rules of armed conflicts as encapsuled in the four 1949 Geneva Conventions and their Additional Protocols (APs) as well as relating customary norms, have been created in a moment in history where autonomy was far from being associated to weapons.

Therefore, a wide range of concerns loom around the feasibility of existing IHL norms to LAWS. Notably, LAWS constitute a major stress-test for the rules of conduct of hostilities. Those are: use of means and methods of warfare which are not prohibited (Art 35 AP I), targeting military objectives (Art 52 AP I – and customary for both international and non-international armed conflicts), carry out attacks that are proportionate (Art 51 and 57 AP I which have customary status and apply to both international armed conflicts and non-international armed conflicts) and endowed with feasible precautions (Art 57 and 58 AP I having customary status as well).

To begin with, legitimate targets comprise military personnel and objectives. There is no big issue when it comes to stable armed forces (those generally wear uniforms and are clearly distinguishable from civilian population). This is possibly compatible with a machine learning system provided with the right information (such as the color the uniform).

And yet, what happens when it comes to non-state armed groups where members are not identifiable by uniforms?

Even providing alternative insights, such as specific physical features, is highly dangerous, given the likelihood to confuse fighters and civilians. Programming LAWS to target individuals with specific attributes may lead to broadening too far the range of potential targets, in denial of any protective aim towards the civilian population.

To add to that, last-minute surrender is another very controversial case-scenario. IHL states that people become an unlawful target as soon as and for such time as they are hors de combat (i.e., they desist from taking part to active hostilities). Is an autonomous weapon able to recalibrate an attack in such a scenario at any given moment without any human input?

Implications on the rule of proportionality walk down the same path and goes even further. Proportionality requires parties to consistently assess conditions and modulate military actions (and reactions) accordingly. That targetability of prima facie civilian objects (think of a bridge, or a school), and in general conducting hostilities in urban areas is possible only where attacks reduce civilian harm to its minimum extent. This all depends on very factual and punctual conditions. Are there alternatives? Has the attack programmed at a moment where civilians are not expected to be around? Are alternatives available in case the proportionality assessment changes due to a major presence of civilians than initially expected? Proportionality truly is contingent based. Can LAWS deal with unpredictable factors in this respect?

As things stand, it seems that LAWS encompass a margin of mistake that can never be foreseen and forestalled by humans. Against this framework, all fundamental rules (or quite so) of the conduct of hostilities are grounded upon a subjective, henceforth human, element which can never be replaced by technologies.

For these reasons, some argue for a total ban on LAWS.

On a different note, some experts are confident in the capacity of existing rules to adapt to autonomous weapon systems. Besides highlighting the obvious advantages (to mention some: accuracy, higher chances to spare human lives – from both military and civilian sides, reducing the margin of human error), the argument on the inherent subjective nature of the rules of the conduct of hostilities is rebuked. Or, at least, largely reduced. Take the proportionality rule, for instance. As mentioned earlier, the military is very reluctant to share criteria by which they assess proportionality. They largely remain an uncharted territory. For the military, playing the subjective card (i.e., criteria are assessed according to the sense of experts in a given scenario) can be an easy way out to avoid sharing information. Hence, we assume proportionality is fundamentally subjective, but the contrary has never been excluded. Perhaps, entangling the rules on proportionality more objectively is possible more than thought. In the end, what these experts suggest is to shift the perspective on existing rules. By conceiving them under a new, objective-oriented glow can dissipate false concerns on LAWS.

Lastly, it is worth mentioning the general tendency to anthropomorphize LAWS. As many experts have highlighted (see here and here, for instance), it is misleading to think of weapon autonomy as interchangeable with human control. In fact, machine learning is established upon directives (in the form of algorithms) that are programmed by humans, and it only could be so. Therefore, even when addressing fully autonomous weapons, a ‘least path of resistance’ of human control remains. Hence, a persistent use of anthropormorphized language when referring to LAWS muddies the waters even more and enlarges the ‘unmissable subjective element’ precautionary tale.

At any rate, despite attempts, the international community struggles to set regulatory benchmarks for the moment being (for an overview, see here).

Clearly, not only concerns are multifold under this topic. There are implications on the use of these technologies in peacetime and daily situations as well. Given the unlikely scenario where LAWS are banned out, it is rather more reasonable pushing the international community and State to converge on shared basic rules to their use in warfare and elsewhere.

A cura di Silvia Tassotti

QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DELLE LISTE DI ATTESA REMS

L’Italia, si sa, è il paese delle code: code per le poste, code per la banca, code per accedere al pronto soccorso. Ed è per questo che – purtroppo– non ci stupisce che anche coloro che hanno diritto a non essere reclusi, ma ad essere curati, siano posti in una lista d’attesa. Peccato che qui aspettare non significhi passare ore in piedi sbuffando finché non viene chiamato il proprio numero… ma essere rinchiusi in una cella nel carcere di Rebibbia.


La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) il 24 gennaio 2022 ha accertato che questa prassi tutta italiana è contraria alla CEDU. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno attestato che lo Stato italiano ha violato gli articoli 3 (trattamento inumano e degradante); 5 § 1 (diritto ad essere privati della libertà personale solo se detenuti regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente); 5 § 5 (mancanza di mezzi per ottenere una riparazione con un sufficiente grado di certezza); 6 § 1 (diritto ad un equo processo), e 34 (diritto ad un ricorso individuale) della CEDU.

Stiamo parlando della sentenza Sy contro Italia. È il 2017 e il sig. Sy è accusato di una serie di reati (molestie, resistenza a pubblico ufficiale, percosse). Il 4 settembre 2017 viene sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal giudice per le indagini preliminari (GIP) di Roma. Soffre di disturbi della personalità (“caratteristiche miste di personalità antisociale e borderline”, si legge) e di disturbo bipolare, aggravati dall’uso di sostanze stupefacenti. È per questo che il GIP richiede di accertare – tramite una procedura particolare di produzione di prove denominata incidente probatorio – lo stato psicologico di Sy al momento della commissione del fatto, nonché la sua pericolosità sociale.

Facciamo una piccola digressione (da giuristi). L’art. 206 del nostro Codice penale prevede che durante la fase delle indagini preliminari e del giudizio il giudice possa disporre che l’infermo di mente sia provvisoriamente ricoverato in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) finché non cessa di essere socialmente pericoloso. Il ricovero (anche preventivo) in REMS è una delle misure di sicurezza detentive che ai sensi dell’articolo 215 c.p. possono essere comminate a soggetti ritenuti pericolosi socialmente. Le REMS sono il risultato del travagliato percorso che ha portato alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), strutture dalle condizioni igienico sanitarie, organizzative e clinico-psichiatriche assolutamente inaccettabili. A differenza degli OPG, le REMS nascono come strutture a completa gestione sanitaria, dove viene data priorità al percorso terapeutico dei soggetti che non possono essere riabilitati tramite la detenzione in un carcere ordinario o altri strumenti alternativi (come l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale). Ciò non toglie che le REMS abbiano comunque lo scopo di controllare la pericolosità del soggetto affetto da patologia mentale che ha commesso un reato. La pericolosità sociale è un concetto fumoso, il cui accertamento spesso fatica ad incastrarsi fra sapere scientifico e sapere giuridico. Ha a che fare con il futuro: ci si chiede se vi è la possibilità che una persona, che ha già commesso reati, ne commetta altri.

Torniamo al nostro caso: il 3 ottobre 2017 il perito deposita la relazione, dove si legge che il Sy, al momento della commissione dei reati si trovava in una condizione di infermità tale da escludere la sua responsabilità. Lo stesso perito dichiara che il sig. Sy dovrebbe essere considerato socialmente pericoloso e che pertanto necessita di trattamento e riabilitazione terapeutica (e non di detenzione). Di conseguenza, il GIP sostituisce la custodia cautelare in carcere con la misura di sicurezza personale provvisoria del ricovero in una REMS per un anno, da attuare al più presto. La misura però non viene eseguita in concreto, in quanto non c’era spazio in alcuna struttura. Il sig. Sy, dunque, rimane in carcere, anche se lì non ci dovrebbe stare.

Il 22 novembre 2017 il sig. Sy viene poi assolto tramite giudizio immediato sulla base della perizia psichiatrica e anche qui gli viene applicata la misura di sicurezza REMS – questa volta in via definitiva – per un periodo di sei mesi. Il 23 dicembre 2017, però, il sig. Sy viene rilasciato in quanto non c’era alcuna struttura specializzata che si potesse prendere cura di lui.

Tra il 2018 e il 2019 si ripetono dinamiche simili: il ricorrente commette reati ulteriori, viene arrestato e portato in carcere, viene più volte sottolineato il suo bisogno acuto di cure psichiatriche, fino a quando nel gennaio 2019, dopo un tentativo di suicidio, lo psichiatra del carcere di Rebibbia dichiara che il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione ordinaria e che è necessario il trasferimento in un reparto psichiatrico del carcere o in una struttura psichiatrica esterna al carcere. Trasferimento che non è mai avvenuto: la storia si ripete.

A partire dal febbraio 2019, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) inizia la ricerca di REMS disponibili ad accogliere il sig. Sy, sia nella regione Lazio che fuori regione. Nessuna struttura, però, ha posto. Nel frattempo, il sig. Sy è ancora in una cella del carcere di Rebibbia, struttura gravemente sovraffollata e con serie difficoltà nel gestire persone affette da patologie psichiatriche (come affermato nel rapporto di Antigone e nella relazione del Garante Nazionale dei Detenuti).

Il sig. Sy, tramite i suoi legali, adisce la Corte EDU tramite ricorso urgente: il 7 aprile 2020 la Corte EDU ordina al governo italiano di assicurare il trasferimento del ricorrente in una REMS o in una struttura che fosse in grado di garantire le cure terapeutiche necessarie per le patologie sofferte del ricorrente. Il governo riferisce alla Corte EDU di aver informato il giudice dell’esecuzione, unico soggetto competente ai sensi del diritto penale italiano a dar esecuzione al comando della Corte EDU. Riferisce inoltre di aver fatto più richieste alle strutture REMS presenti sul territorio, senza alcun successo.

Il 4 maggio 2020 arriva l’ennesima perizia psichiatrica: il sig. Sy è ancora pericoloso per la società ed ha bisogno di un trattamento terapeutico adatto. L’8 giugno il giudice dell’esecuzione ordina nuovamente l’applicazione della misura di sicurezza del collocamento in una REMS per almeno un anno. Finalmente, il 27 luglio 2020, il sig. Sy viene trasferito nella REMS Castore di Subiaco (Roma).

Si arriva così ad un nuovo ricorso alla Corte EDU da parte del sig. Sy, questa volta con procedimento ordinario. I legali di Sy paventano la violazione degli articoli 3, 5 § 1, 5 §5, 6, 13 e 34 della CEDU.

L’articolo 3 CEDU, in particolare, impone agli stati parte della convenzione di assicurare che ogni persona ristretta sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Ciò comporta che anche la sua salute e il suo benessere debbano essere garantiti tramite le cure mediche necessarie. Nel caso di detenzione di una persona affetta da una patologia psichiatrica, più vulnerabile rispetto alla popolazione detenuta generale, vi deve essere ancora più attenzione da parte dello stato. Non basta che il detenuto riceva assistenza medica nel corso della detenzione: questa deve essere adeguata. In più, l’assenza di una strategia terapeutica globale nel caso di un detenuto affetto da patologie psicologiche o psichiatriche può equivalere ad un abbandono terapeutico contrario all’essenza dell’articolo 3 CEDU.

Nel caso del sig. Sy, la Corte ha dichiarato che, nonostante le indicazioni chiare e inequivocabili sull’incompatibilità dello stato di salute mentale del ricorrente con la detenzione in un carcere ordinario, il sig. Sy è stato ristretto in un carcere per quasi due anni. Egli non ha potuto beneficiare di alcun piano terapeutico globale per curare o prevenire l’aggravamento delle sue patologie ed è stato detenuto in un contesto caratterizzato da condizioni di detenzione inadeguate. Tutto ciò, afferma la Corte, è in violazione dell’articolo 3 della CEDU. Inoltre, l’aver trattenuto (nel periodo dal 21 maggio 2019 al 10 maggio 2020) il sig. Sy in carcere per mancanza di una struttura REMS disponibile ad accoglierlo non è una giustificazione valida e pertanto la detenzione è contraria all’articolo 5 § 1 della CEDU. Infine, lo Stato italiano non ha rispettato la misura provvisoria indicata dalla Corte EDU (che consisteva nell’assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura che fornisse cure terapeutiche adeguate) poiché ciò è stato fatto solo 35 giorni dopo il provvedimento, tempo considerato dalla Corte EDU irragionevole.

Per questi motivi, la Corte EDU ha condannato lo Stato italiano a risarcire il sig. Sy del danno morale subito.

Tiriamo le somme.

Il caso del sig. Sy, purtroppo, non è isolato.

La nostra stessa Corte Costituzionale (sentenza 22 del 27 gennaio 2022) ha affermato che vi sono tra le 670 e 750 persone attualmente in lista d’attesa per essere collocate in una REMS. Il tempo medio di permanenza nella lista è di 304 giorni. Solo in Sicilia, ad esempio, ci sono 172 persone in lista, con un tempo medio di permanenza nella lista di 458 giorni. La Corte Costituzionale, rigettando le questioni di legittimità proposte, ha ammonito il legislatore ad eliminare al più presto “i numerosi profili di frizione con i principi costituzionali” che sono causati dall’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di REMS nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche. La stessa Corte ha ammesso di non poter dichiarare l’incostituzionalità delle norme che sono alla base della misura del ricovero in REMS, in quanto ciò causerebbe un immenso vuoto di tutela.

Siamo davanti ad un meccanismo difettoso che non permette la tutela del diritto alla salute del malato-reo. Le REMS, ai sensi del dettato normativo, sono a numero chiuso: “non possono essere sovraffollate”. Allo stesso tempo, le strutture disponibili non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno del sistema penale: il risultato è un cortocircuito, dove la violazione dei diritti della persona la fa da padrone.

La macchina del “sistema REMS”, quindi, si è inceppata: ci auguriamo solo che lo Stato italiano abbia ricevuto lo scossone necessario per procedere ad una vera riforma, che non si limiti ad aumentare la capienza delle REMS o a creare nuovi reparti speciali all’interno delle carceri, ma che sia orientata a potenziare le strutture sanitarie territoriali già esistenti, ad assumere più personale (sanitario e non) e a formare quello già assunto. Insomma, serve una riforma che porti una boccata d’aria ad un apparato, quale quello rivolto a coloro che sono ai margini dei margini, che non ce la fa più. Noi di StraLi la aspettiamo con (poca) pazienza.

A cura di Alice Giannini

DIRETTIVA SULLA PROTEZIONE TEMPORANEA: NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA

Dall’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 ad oggi, circa 2.9 milioni di persone sono scappate dal Paese riversandosi principalmente nei limitrofi Stati membri dell’UE. Come pronta risposta alla crisi umanitaria in corso e per poter offrire protezione giuridica alle persone in fuga dallo Stato, la Commissione Europea (la Commissione) ha proposto al Consiglio dell’Unione Europea (il Consiglio) di attivare la Direttiva sulla Protezione Temporanea (Direttiva 2001/55/CE) riconoscendo l’esodo degli sfollati ucraini come un “afflusso massiccio”. Quest’ultimo riconoscimento figura come precondizione dell’attivazione della Direttiva ai sensi dell’Articolo 5 della stessa. Per la prima volta dal 2001, anno della sua adozione, la Direttiva sulla Protezione Temporanea è stata unanimemente attivata dal Consiglio il 3 marzo 2022.

In termini generali la Direttiva garantisce protezione temporanea ad apolidi o cittadini di Paesi terzi che non possono rientrare nel loro Paese di origine, o di residenza, a causa di conflitto armato o violenza endemica o di violazioni generalizzate di diritti umani, qualora tale afflusso sia considerato “massiccio” (Articolo 2). In virtù della decisione del Consiglio, la Direttiva si applicherà rispettivamente ai cittadini ucraini residenti nel Paese al 24 febbraio; apolidi o cittadini di Paesi terzi titolari di protezione internazionale o analoga protezione sancita dal diritto interno ucraino al 24 febbraio nonché ai loro familiari previo soddisfacimento delle condizioni enumerate all’Articolo 2(4) della Decisione del Consiglio. Se poi la Direttiva richiede agli Stati membri di concedere la protezione temporanea, o un’analoga protezione ai sensi del diritto interno, nei confronti dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti da molto tempo in Ucraina (Articolo 2(2)), questo non accade per tutti gli altri cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti nel Paese (Articolo 2(3)) per cui gli Stati membri possono non applicare la Direttiva, decidendo quindi o meno di concedere protezione temporanea.

In modo alquanto interessante – perché diversa dalle altre disposizioni in materia – la Decisione prevede un sistema di solidarietà tra Stati membri tale per cui i potenziali beneficiari di protezione temporanea godono della facoltà di scelta del Paese membro di destinazione (Considerando 3). La Direttiva prevede altresì

la possibilità per gli Stati stessi di validare la protezione riconosciuta in un altro Stato membro in un’ottica di promozione della mobilita intra-europea (Capo VI della Direttiva).

La protezione è offerta per un anno con possibilità di proroga – di 6 mesi in 6 mesi per un periodo massimo di un ulteriore anno – qualora un rimpatrio sicuro e stabile delle persone beneficiarie di tale protezione non sia percorribile per il ricorrere della situazione di pericolo nello Stato di origine o residenza (Articolo 4(1) della Direttiva). La protezione temporanea non pregiudica la possibilità di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato nel Paese membro ospitante (Articolo 3 della Direttiva). Allo stesso modo, coloro che beneficiano di protezione temporanea hanno accesso a diritti in materia lavorativa e sociale (Articoli 12-15).

La pronta risposta del Consiglio permette di raggiungere una notevole conclusione nell’ambito della gestione del fenomeno migratorio in un periodo storico in cui lo stesso appare essere un fenomeno dalla connotazione complessa, perlomeno a livello giuridico, temuto dai Paesi membri dell’UE. L’attivazione della Direttiva, infatti, sembra affermare che il fenomeno migratorio sia in realtà gestibile quando gli sforzi degli Stati membri sono integrati in una strategia congiunta.

Nonostante questo, però, la Direttiva – nei termini di applicazione – non è scevra da problematiche. In primo luogo, l’ampia discrezionalità concessa agli Stati membri nell’applicare la Direttiva nei confronti di cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in Ucraina con un permesso diverso da quello di lungo soggiorno, potrebbe portare in futuro ad un’applicazione discriminatoria nei loro confronti. In particolare, questo potrebbe essere il caso di quei cittadini con un permesso per studio o lavoro e che siano, in qualche modo, impossibilitati a rientrare nel loro Paese di origine. Per questo, quindi, la Direttiva non è definibile come uno strumento giuridico comprensivo.

Un’altra considerazione, riguarda la temporaneità della protezione offerta e della sua natura di arma a doppio taglio, come dimostrano le misure adottate in Turchia in risposta alla crisi migratoria del 2015. In quel frangente, infatti, la protezione temporanea offerta agli esuli siriani – strumento giuridico diverso da quello previsto dalla Direttiva attuale essendo la Turchia non un Paese membro dell’UE – si è rivelata poi essere un punto di stasi: con siffatto permesso, applicato in teoria ma non in pratica, i beneficiari sono stati praticamente ostacolati nel processo di integrazione (la Turchia, per esempio, ha concesso l’accesso al mercato del lavoro ai beneficiari di protezione temporanea 6 anni in ritardo rispetto alla legislazione su tale permesso). In aggiunta, riferendosi sempre al caso turco come esempio, la protezione temporanea non deve diventare uno strumento dall’indefinito rinnovo. Piuttosto, sembra necessario prevedere uno scenario in cui la Guerra non si esaurisce nel breve periodo, di modo da poter offrire agli sfollati una protezione di media-lunga durata. Nonostante, infatti, la protezione – almeno in teoria – preveda il godimento di diritti in materia lavorativa e sociale da parte dei beneficiari, sarebbe auspicabile che l’Unione Europea si impegni per un piano di lunga durata, al fine di garantire l’effettiva inclusione socio-economica degli esuli ucraini nel caso in cui la guerra non cessi nel breve periodo.

Nonostante ciò, e come sopra menzionato, una nota sicuramente positiva riguarda il meccanismo secondo cui i potenziali beneficiari possono effettivamente scegliere il Paese membro in cui richiedere la protezione temporanea. Tale possibilità, che sottolinea “l’umanità” del testo legislativo – quasi praticamente assente in altri testi in materia – sarebbe di giovamento ad entrambe le parti, migranti e Stati ospitanti, nella misura in cui ad un’effettiva equa distribuzione dei migranti ed a una riduzione della pressione sui sistemi di accoglienza si specchierebbe un’effettiva garanzia del diritto alla mobilità dei singoli.

In ogni caso, ciò che sembra certo, e che i Paesi membri, quando vogliono, possono effettivamente abbattere i muri fisici e non della così tristemente detta fortress Europe.

A cura di Maria Giulia Marinari

QUAL È LO STATO DEL DIRITTO ALL’ABORTO NEL MONDO?

È di pochi giorni fa la notizia che il congresso del Guatemala ha approvato la “Legge per la protezione della vita e della famiglia”, o Legge 5272: al centro del provvedimento, oltre a una serie di disposizioni conservatrici come il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso, c’è anche l’inasprimento delle pene per chi ricorre all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG).

In Guatemala era già prevista la reclusione fino a tre anni per chi ricorreva o promuoveva e facilitava l’accesso all’IVG, ma ora le ragazze, donne o persone che cerchino di sottoporsi all’interruzione rischiano fino a dieci anni di carcere; il personale sanitario che esegua o aiuti ad ottenere un intervento rischia pene ancora più alte.

La legge si pone in controtendenza rispetto a molti Paesi dell’America Latina, ma si colloca anche in un panorama globale che, rispetto al diritto all’autodeterminazione di donne e persone che scelgono di o devono ricorrere all’IVG, è sempre più polarizzato. Negli ultimi anni infatti abbiamo assistito o a una progressiva depenalizzazione dell’aborto e a un ampliamento dell’accesso al diritto, oppure a un rifiuto secco e a una risposta aggressiva da parte di governi e istituzioni.

L’America Latina ha in realtà da qualche anno intrapreso molteplici percorsi di depenalizzazione e facilitazione dell’accesso all’IVG. È di pochi giorni antecedente alla decisione del congresso guatemalteco la decisione della Corte Costituzionale della Colombia di depenalizzare parzialmente l’aborto: con una sentenza è stato reso possibile l’accesso all’IVG entro le prime 24 settimane di gravidanza, dopo che diverse associazioni attive nel campo del diritto all’autodeterminazione avevano chiesto alla Corte di esprimersi sulle leggi molto restrittive dapprima vigenti. La svolta in Colombia era stata preceduta da una simile legalizzazione avvenuta in Argentina nel 2020 e in Messico nel 2021. Sempre all’inizio di quest’anno, il Parlamento dell’Ecuador ha depenalizzato il ricorso all’aborto entro le prime 12 settimane in caso di stupro, una misura pur sempre ristretta che però per i gruppi femministi attivi nel Paese è un punto di partenza.

Tuttavia, sono molti i Paesi vicini in cui ricorrere all’IVG è vietato, fra essi Honduras ed El Salvador. Proprio in quest’ultimo Paese, ha fatto scalpore il caso di una donna rilasciata dopo aver scontato dieci anni di detenzione per aver avuto un aborto – secondo le autorità, risultato di un’interruzione di gravidanza praticata illegalmente – come riportato anche da Human Rights Watch.

Nel Nord America e, negli Stati Uniti d’America in particolare, si vive una simile contrapposizione fra provvedimenti estremamente conservatori e una liberalizzazione in favore del diritto all’autodeterminazione. Vi avevamo già parlato, in questo articolo, del caso del Texas e del cosiddetto “heartbeat bill”, la legge del battito cardiaco che vieta al personale medico d’interrompere una gravidanza qualora riscontri attività cardiaca da parte dell’embrione. Nonostante la sospensione della legge da parte di un giudice federale, era stata poi reintrodotta in via temporanea da una corte d’appello.

L’ultima decisione è arrivata anch’essa nei primi giorni di questo marzo 2022: la Corte Suprema dello Stato del Texas ha rigettato l’ultimo ricorso fatto contro una legge che sembra essere stata progettata per sfuggire al giudizio di una corte federale, secondo quanto riportato da The New York Times. La legge del battito cardiaco prevede infatti che la responsabilità dell’enforcement delle disposizioni non ricada sull’autorità statale, quanto sulla cittadinanza – che può citare in giudizio chiunque ne commetta una violazione. Un modello che rischia pericolosamente di essere replicato in altri Stati della federazione.

Il Texas non è l’unico che ha preso una drastica posizione restrittiva sull’IVG. Anche la Florida ha recentemente votato per il divieto al ricorso all’interruzione di gravidanza dopo le prime 15 settimane nella maggior parte dei casi, fatto salvo il caso di grave pericolo per la salute della persona in gestazione o grave malformazione del feto – esclusi quindi i casi di stupro o incesto. Il disegno di legge deve ora passare il vaglio del Senato della Florida, ma s’inserisce in una serie di provvedimenti dello Stato che non hanno colpito solo i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione, ma i diritti delle minoranze in generale.

In questo contesto, è lo Stato della California a porsi come capofila degli Stati che invece si battono per un’IVG sicura e accessibile a chiunque: fra i provvedimenti di cui si discute, un supporto economico per coprire costi di viaggio e spese di persone che, da altri Stati, vogliano recarsi in California per l’interruzione. Tuttavia, questo esempio si colloca in uno scenario che, a livello federale, rischia di farsi sempre più critico anche e soprattutto per la posizione della Corte Suprema degli Stati Uniti, ad oggi a maggioranza conservatrice. Interrogata sulla legittimità della legge sul diritto all’aborto dello Stato del Mississipi – anch’essa estremamente restrittiva, l’accesso all’IVG è vietato dopo le 15 settimane di gestazione salvo poche eccezioni – e su altre disposizioni in materia di diversi Stati, la Corte sembra ormai aver intrapreso un percorso a sostegno delle posizioni più conservatrici. Quel che si teme è il ribaltamento della storica sentenza “Roe vs Wade”, la vera fonte di garanzia del diritto all’aborto nel sistema giuridico statunitense.

In Europa, lo scenario sembra altrettanto polarizzato: vi abbiamo parlato, in passato, della lotta delle istituzioni e del governo polacco contro il diritto all’aborto e del movimento d’opposizione alle norme introdotte, “StajkKobiet”, Lo Sciopero delle Donne – in questo post. Il movimento è tornato a protestare in piazza di recente, dopo che una donna in stato di gravidanza è deceduta in ospedale: nonostante evidenti complicazioni, il personale sanitario si era rifiutato di effettuare l’interruzione.

Quanto all’Italia, nonostante il diritto all’IVG sia previsto dal 1978 con l’entrata in vigore della nota legge 194/78, continuiamo a chiedersi quanto l’accesso a questo diritto sia effettivo. È possibile, infatti, ricorrere all’IVG entro i primi 90 giorni di gestazione o successivamente, se per motivi di natura terapeutica. Tuttavia, il riconoscimento di questa possibilità non rende semplice il percorso per accedere al diritto: l’istituto dell’obiezione di coscienza, previsto all’art. 9 della legge tranne che per casi in cui l’interruzione sia “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”, è solo il più grosso scoglio rispetto a questo esercizio. Alla scarsità e alla disparità territoriale del personale sanitario obiettore si aggiungono anche le carenze del sistema sanitario, i lunghissimi tempi di attesa e l’accertamento delle motivazioni valide per abortire previste all’art. 4 della legge. Esse infatti possono solo costituire “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” e ad accertarle è sempre il personale sanitario.

Una piccola vittoria è arrivata quando, a inizio anno, il governo della Germania ha accolto le rivendicazioni dei movimenti femministi ed ha annunciato di voler depenalizzare l’informazione sull’accesso all’IVG, risalente a una legge di epoca nazista. Ma questo non è abbastanza.

Il tema vero è che, anche a fronte di questa carrellata di situazioni, il dibattito sul diritto non solo alla salute, ma all’autodeterminazione, non dovrebbe essere polarizzato. L’accesso a un’interruzione di gravidanza sicura e libera dovrebbe essere un diritto riconosciuto. Non dovremmo ritrovarci a gioire per notizie come quelle che arrivano da El Salvador o dalla Germania, positive se decontestualizzate, ma che risultano un premio di consolazione, rispetto allo stato dell’IVG nel mondo.

Restringere i casi in cui l’IVG è un servizio garantito o, addirittura, criminalizzare l’interruzione non interviene sulla necessità di donne, ragazze e persone di ricorrere ad essa. L’esigenza resta: ciò che invece scatta, in questi casi, sono forme di IVG illegali, di fatto meno sicure e con conseguenze che sono dannose o fatali. Conseguenze che possono essere evitate in una qualsiasi struttura ospedaliera attrezzata e formata a fornire il servizio – come dichiara anche Amnesty International.

L’accesso a un’interruzione volontaria di gravidanza sicura è un diritto: lo è alla luce del diritto alla vita e alla salute, a tutela della dignità di ogni persona che si trovi ad averne bisogno. È essenziale una battaglia globale contro provvedimenti discriminatori, che violino questi diritti e ledano la dignità umana.

A cura di Greta Temporin

RICHIEDENTI PROTEZIONE: OGNI DUE ANNI NUOVE REGOLE

Il diritto dell’immigrazione è una materia che, per sua stessa natura, vive in costante evoluzione. Tuttavia, le recenti modifiche normative intervenute in quest’ambito non sembrano state guidate dalla necessità di adeguare il diritto ai mutamenti del fenomeno migratorio, bensì dal succedersi di partiti di ideologie differenti.

I governi cambiano e, a seconda dei rapporti di forza e delle maggioranze, le leggi che regolano la permanenza e l’ingresso delle persone migranti si modificano radicalmente.

Nell’ottobre 2018 l’entrata in vigore del decreto legge 113/2018, conosciuto come decreto Salvini, ha ristretto pesantemente i diritti di ingresso e permanenza delle persone migranti sul territorio italiano. Tra le modifiche più note, si ricorda l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, concesso in presenza di motivi oggettivi, legati al Paese d’origine – come una situazione di pericolo diffuso o, per esempio, una carestia – o soggettivi, legati alla persona – ad esempio, quando al rimpatrio consegua un’impossibilità a reperire farmaci salvavita, una lesione del diritto alla vita privata e familiare, o ancora in caso di comprovata integrazione sul territorio.

Parallelamente, il decreto introduceva un novero di casistiche predeterminate in ragione delle quali veniva concesso un nuovo permesso di soggiorno per casi speciali: tali casistiche, però, non esaurivano affatto la molteplicità di casi prima coperti dai motivi umanitari, restringendo così di molto l’applicabilità dell’istituto.

Due anni e un governo dopo, la materia è stata nuovamente modificata dal decreto 130/2020: a fronte dei numerosi dubbi di costituzionalità sollevati in relazione al decreto Salvini, il legislatore è intervenuto ripristinando esplicitamente il rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali.

In quest’ottica, tra le altre modifiche, il decreto ha esteso il divieto di respingimento o espulsione ai casi in cui la persona rischi di subire trattamenti inumani e degradanti, conformandosi così all’art. 3 CEDU e alla ormai consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sempre allo scopo di attuare i principi comunitari, il nuovo decreto prevede espressamente il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale laddove sia necessario per garantire il rispetto della vita privata e familiare: così facendo si torna a tenere in considerazione l’elemento dell’integrazione sociale che il decreto Salvini aveva ingiustamente escluso, elemento di valutazione essenziale tenuto conto della lunghezza della procedura.

Il continuo modificarsi delle leggi che regolano la materia, soprattutto perché verificatosi in un breve lasso di tempo, pone diversi problemi: da una parte, naturalmente, il proliferare di norme contrastanti e il loro continuo sostituirsi l’una all’altra non può che generare una grande confusione tra le persone che dovrebbero beneficiarne.

Dall’altra, cambiamenti normativi così ravvicinati pongono inevitabilmente il problema della temporanea coesistenza di regimi giuridici diversi: ad oggi, infatti, dal momento che spesso passano diversi anni tra il momento della domanda giudiziale e la decisione definitiva, all’interno del medesimo Tribunale esistono casi ai quali viene applicata la normativa pre-Salvini, casi a cui si applica il decreto legge 113/2018 e casi a cui andrà applicato il nuovo d.l. 130/2020.

Il tema si era posto già in relazione all’applicabilità del decreto Salvini: sin dalla sua entrata in vigore, infatti, molte Commissioni Territoriali avevano iniziato ad applicare le nuove disposizioni anche alle domande pendenti. In questo modo, trovandosi a decidere, ad esempio, su una domanda di protezione che era stata presentata ben prima dell’entrata in vigore del decreto, applicavano le norme sopravvenute e giudicavano il caso senza indagare sulla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di un permesso per motivi umanitari.

Dopo numerosi interventi dottrinali e giurisprudenziali, la Cassazione è arrivata a esprimersi sul punto (sentenze n. 29459 e n. 29460 del 2019) confermando l’irretroattività della normativa alle domande pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto legge.

In altre parole, se la persona ha depositato la propria domanda prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini, le modifiche normative che il decreto ha introdotto non sono applicabili al suo caso.

Il problema della coesistenza di regimi giuridici disomogenei si è però ripresentato velocemente: a poco più di un anno dalle pronunce della Suprema Corte, infatti, la materia è stata di nuovo modificata dal decreto 130/2020.

A differenza di quanto avvenuto con il decreto Salvini, in questo caso è stata predisposta una norma transitoria all’interno del decreto stesso[1], secondo la quale le nuove disposizioni devono essere applicate retroattivamente ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del testo. Tale principio di retroattività, tuttavia, trova applicazione soltanto se tali procedimenti sono pendenti davanti alle Commissioni Territoriali, al questore o alle sezioni specializzate dei Tribunali[2].

Questa precisazione del testo che limita la sua applicabilità alle domande pendenti non in relazione alla data di presentazione bensì all’organo decisore, è alquanto particolare e presenta senz’altro alcuni problemi applicativi.

Secondo il nuovo decreto, infatti, le modifiche normative sono da applicare a tutte le domande pendenti se ci si trova davanti alla Commissione, al questore o alle sezioni specializzate. Se invece la domanda pendesse, ad esempio, innanzi alla Corte di Cassazione, al Tribunale in sede di rinvio o al Giudice di pace, si dovrebbe applicare il regime previgente. Già così la situazione è abbastanza complessa e pare realizzarsi un’ingiustificata disparità di trattamento.

A ciò va però aggiunta un’ulteriore domanda: in caso ci si trovi davanti alla Corte di Cassazione, al Tribunale in sede di rinvio o al Giudice di pace, quale sarebbe il regime previgente?

La risposta più immediata sarebbe il decreto Salvini. Ma come abbiamo spiegato prima, tale decreto non è applicabile alle domande pendenti presentate prima della sua entrata in vigore e quindi:

– se la domanda è stata presentata prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini si applicherà la formulazione antecedente al 2018, e quindi si potrà, per esempio, riconoscere un permesso per motivi umanitari;

– se invece è stata presentata dopo l’entrata in vigore del decreto allora si applicherà il trattamento restrittivo previsto dal d.l. Salvini.

In sintesi, alle domande pendenti innanzi alla Commissione Territoriale, al questore o al Tribunale (non in sede di rinvio) si applica sempre il nuovo testo del d.l. 130/2020, a prescindere da quando sono state presentate.

Invece, davanti a qualsiasi altro organo decisore si applicano oggi tre regimi giuridici differenti a seconda che la domanda sia stata presentata prima del decreto Salvini, dopo il nuovo d.l. 130/2020 o nel periodo trascorso tra le due modifiche.

La situazione descritta, oltre che al limite dell’assurdo, crea evidentemente dei casi di ingiustificata disparità di trattamento: a situazioni analoghe verranno applicate normative diverse, di cui alcune molto più favorevoli di altre, esclusivamente in base alla fase processuale in cui versa la domanda e alla sua data di presentazione.

A cura di Elena Garelli

NOTE

[1]Art. 15 d.l.130/2020 Disposizioni transitorie: 1. Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a), e) ed f) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali, con esclusione dell’ipotesi prevista dall’articolo 384, comma 2 del codice di procedura civile; 2. Le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b, c), d) ed e) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali. [2]Si analizza in questo momento solo il caso di cui all’art. 15 co.1 poiché il comma 2 si riferisce solo ad alcune procedure speciali per il riconoscimento della protezione internazionale per alcune categorie di soggetti vulnerabili e non presenta profili di particolare problematicità.

THE INTERNET AND SOCIAL MEDIA PLATFORMS: A HELP OR A REPRESS OF DEMOCRACY?

Introduction

The digital phenomenon and emerging technologies have led to a revolution in the democratic process, enabling a higher engagement of individuals in their countries’ political and public life.

By making “the political arena more open and accessible”, digital technologies have offered a chance for anyone – and not just the perceived elites – to access information and to participate in shaping public discussions on different topics, from national and global economy to movements requesting a wider protection of human rights at domestic level. This faster and easier exchange of opinions is even filling the distance between politics and the population at large. Indeed, the digitalisation, the spreading of the internet and the use of social media platforms have led to the empowerment of the most marginalised groups of the society by allowing them to express their points of view and by making their voice heard to influence policy-makers agenda both at domestic and international level. The internet and social media platforms are, therefore and in principle, fostering “a more inclusive, participatory and representative public square”. But are they actually advancing the democratic process?

The reality shows that digital technologies, particularly the almost unregulated use of the internet and social media platforms, also pose several challenges that can have a huge repercussion on the enjoyment of people’s human rights and on the democratic process as a whole. The question is, therefore, how are the internet and social media platforms used to impact democracy? Are the governments using these technologies to influence the result of democratic elections? And if yes, how?

New and emerging technologies used as instruments of repression from governments

The internet and social media platforms are increasingly used by governments and states’ authorities (and not only by authoritarian regimes) for their political purposes. Indeed, these tools are, in some cases, used to repress political dissents and opponents; to publicly discredit journalists, media outlets, activists, and human rights defenders, among others, with the potential violation of a wide range of human rights and, consequently, with a negative impact on the democratic process as a whole. Internet shutdown, the spreading of fake news directly by some governments, and the adoption by states’ authorities of draconian laws to restrict online freedom of expression and opinion, inter alia, represent a quite common phenomenon in every region of the world.

This is the case of Nicaragua, where since the protests of 2018, “the regime of President Daniel Ortega […] asserted control over the online landscape through the manipulation of information, politically motivated use of copyright claims to remove content, and new legislation that severely punishes users who disseminate supposedly false or harmful content”. During the last Presidential elections (in November 2021) the story has not changed.

Similarly, an immediate and sudden collapse of the Internet happened in Myanmar, after the February 2021 military coup: “[a]s part of its attempt to crush dissent and maintain power, the military junta shut down internet service, blocked social media platforms and websites, seized control of the telecommunications infrastructure, and ramped up intrusive surveillance.”. According to Freedom House, the authorities also banned virtual private networks (VPNs) and used excessive force, violence and detentions to sanction those users that expressed online support to the democratic movement.

In Uganda, the Government imposed severe digital restrictions during the general elections of January 2021 “to manipulate the online information environment”; and in the five days leading up to the elections, State’s authorities ordered the internet shutdown, including blocking most of the social media platform.

Likewise, during the Presidential elections held in August 2020 in Belarus, the dictator Lukashenka has “initiated a nationwide shutdown of the internet that lasted for 61 hours” on the election-day. The Government has also adopted additional measures “to limit access to information during the election period and ensuing protests, including by blocking political and civil society websites, forcing content critical of the government to be removed”.

However, this is not the only way in which governments can repress their political opposition. For instance, as recently highlighted by Human Rights Watch, public and private companies are increasingly developing surveillance systems and spyware, like the well-known Pegasus software (produced by the Israeli company NSO Group), which are sold to governments to silence raising social movements and to monitor and repress journalists, political opponents, activists, human rights defenders and all those that expose abuses and violations committed by states’ authorities.

Along these lines, according to the study conducted by Forbidden Stories on Pegasus in 2021, this software has been licensed to several countries around the world, including Azerbaijan, Bahrain, Hungary, India, Kazakhstan, Mexico, Morocco, Rwanda, Saudi Arabia, Togo, and the United Arab Emirates. As denounced by several NGOs and human rights organisations between the end of 2021 and the beginning of 2022, the spyware has been used against Palestinians human rights defenders (including some of the members of the six Palestinian NGOs declared “terrorist organisations” by Israel last October); against four Kazakh activists; and two human rights activists in Bahrain and Jordan; against several members of the civil society in El Salvador; and against two Polish opposition figures before the 2019 parliamentary elections. As Human Rights Watch stressed, “Governments should implement a moratorium on the sale, export, transfer, and use of surveillance technology until human rights safeguards are in place”.

What will the future bring?

These cases clearly show that in different situations the internet and social media platforms have been (and still are) controlled by governments and states’ authorities for a common and unique purpose: to keep political power, to deceive democracy and to maintain a distorted status quo, by repressing political opposition and dissent and by silencing raising social movements. Moreover, the increased development of surveillance systems and spyware and their use by governments and states’ authorities is only a more worrying trend that will grow more prevalent if the state of play remains as it is, namely a limited regulation of the internet, social media platforms and these new surveillance systems, and a lack of knowledge (and therefore of potential reaction) of the population which might be affected by these technologies.

Better and clearer regulations on access to the internet; management of social media platforms; and development, sell and use of surveillance systems and spyware, both at domestic and global level, are more than needed, as advocated by NGOs, human rights organisations and activists. Not only technical regulations, but also a comprehensive policy developed from a human rights-based approach, thus considering the promotion and protection of individuals’ human rights, particularly the online freedoms of expression and opinion and the right to effectively and meaningfully participate to the public and political life. The achievement of this result, however, would only be possible with common efforts from all stakeholders of the international community, including states and their political will – which might not be feasible in the near future. The crucial question would therefore remain whether the internet, social media platforms and surveillance systems are worth the challenges the international community has to address to make sure these technologies help and serve the purposes of democracy.

A cura di Serena Zanirato

LIBERTÀ DI ESPRESSIONE AI TEMPI DEI SOCIAL MEDIA

Nel mondo dei social media, quest’anno è iniziato con la prima sospensione a tempo indefinito operata da Twitter nei confronti di Marjorie Taylor Greene, deputata repubblicana per lo Stato della Georgia (USA), per aver diffuso informazioni false sulla pandemia di Covid-19 – qui per la notizia.

La sospensione, prima nel suo genere, è frutto della nuova politica dei five strikes introdotta di recente dalla piattaforma. In ragione del sempre crescente ruolo che i social media sembrano avere nella diffusione di fake news e di messaggi d’incitazione alla violenza, Twitter e altre piattaforme hanno sviluppato, infatti, una serie di linee guida che disciplinano le possibili violazioni in cui possono incorrere gli utenti. Sono vietati, in generale, i post contenenti informazioni errate (fake news) che possano causare danno a persone o specifici gruppi, ma anche quelli contenenti affermazioni discriminatorie contro gruppi o minoranze, e che più in generale possano attentare alla sicurezza pubblica.

Nel caso di Twitter, ad esempio, vengono rimossi i post che contengano contenuti vietati, e se tali violazioni vengono perpetuate ripetutamente dallo stesso account si sommano portando ai seguenti risultati:

  • 1 strike: nessuna azione sull’account, ma rimozione del tweet;
  • 2 strikes: blocco 12 ore;
  • 3 strikes: altro blocco 12 ore;
  • 4 strikes: blocco 7 giorni;
  • 5 strikes: blocco permanente dell’account.

La deputata Greene ha subito quindi la sanzione prevista per i cinque strikes, avendo già ricevuto i precedenti avvertimenti previsti. Sebbene si tratti della prima sospensione permanente, questo non è sicuramente l’unico caso in cui una piattaforma come Twitter ha dovuto sanzionare i suoi utenti. Senza lasciare gli Stati Uniti, è sufficiente ricordare il numero di tweet postati da Donald Trump, prima, durante e dopo la sua presidenza, con affermazioni razziste, misogine e omofobe, e contenenti fake news: solo lo scorso gennaio è stato bloccato il suo account, a causa di alcuni suoi tweet che legittimavano l’attacco al Congresso.

La stessa situazione si ripresenta qui in Italia, dove parlamentari e personaggi pubblici sono soliti dare libero sfogo alle loro opinioni sui social, specialmente Twitter e Facebook.

Sotto scrutinio sono quindi le fake news, specialmente problematiche in un periodo come quello attuale, ma altrettanti sono i casi in cui le piattaforme social devono prendere posizione su tweet contenenti hate speech. Si tratta sicuramente di un problema nato molto prima dei social media, ma è indubbio che queste piattaforme abbiano amplificato la potenza e la portata di queste espressioni di intolleranza. Se è vero che è innegabile il ruolo estremamente positivo che i social hanno nel connettere il singolo alla comunità, è anche vero che con i pregi non mancano i difetti: sono molti i soggetti che si nascondono dietro account falsi, per esprimere quelle che non possono essere considerate opinioni personali, ma vere e proprie espressioni di hate speech. In alcuni casi è l’anonimato a istigare tali comportamenti, ma la realtà è che molto spesso queste affermazioni di odio, violenza e intolleranza sono postate da persone con profili veri, a volte anche personaggi pubblici, che non hanno alcuna paura delle possibili ritorsioni. Come se queste affermazioni non fossero reali, o realmente dannose, per il solo fatto di essere state postate online.

Sono in molti quindi a richiedere linee guida più severe e interventi anche a livello legislativo all’interno di queste communities, specialmente attivisti impegnati nella tutela delle minoranze. Questi sostengono che l’intervento delle piattaforme stesse dovrebbe essere più celere: molto spesso sono necessarie segnalazioni da numeri ingenti di iscritti per provocare la rimozione di post o tweet, e la sospensione degli account di chi li ha pubblicati.

Tuttavia, sono anche in molti ad esprimersi in maniera contraria, e anche se spesso si tratta di followers dei membri sanzionati, vi sono state anche agenzie e organizzazioni internazionali (ONU, OSCE, OAS, ACHPR) che hanno militato contro interventi legislativi più severi in materia, che andrebbero a violare la libertà d’espressione.

Le misure attualmente in vigore, come la rimozione di tweet segnalati e il blocco temporaneo o permanente degli account, sono già per molti violazioni della libertà di espressione ed espressione di un potere di censura esercitato dalle piattaforme.

Al momento, infatti, le piattaforme social, in quanto entità private, godono di ampia libertà di manovra, e sono quindi libere di adottare le linee guida ritenute più adatte. Si tratta tuttavia di policies perlopiù di recente introduzione, e che, come sopra illustrato, prevedono una serie di misure intermedie prima di quella definitiva del blocco permanente. Misure molto lontane, quindi, dalla censura vera e propria.

La domanda che viene spontaneo porsi è la seguente: si può davvero parlare di violazione di libertà di espressione, quando viene impedita la condivisione di affermazioni discriminatorie o di fake news, che potrebbero potenzialmente danneggiare chi le legge?

Nessuno mette in dubbio la centralità e l’importanza della libertà di manifestazione del pensiero, che deve essere garantita dagli ordinamenti di tipo democratico. Come tale, questo diritto è sancito a livello costituzionale (art. 21 Cost.), europeo (art. 10 CEDU) ed internazionale (art. 19 Dichiarazione universale dei diritti umani). Tuttavia, è necessario discernere ciò che può essere ricompreso nella tutela garantita da questi articoli, e cosa invece non può rientrarvi.

La Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si sono espresse spesso, soprattutto in materia di diffamazione (ex pluribus: sentenza “Borruso”: Cass., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259), sancendo la prevalenza della libertà di manifestazione del pensiero solamente se sono rispettati i seguenti criteri:

  • la veridicità dei fatti;
  • la continenza;
  • l’interesse pubblico della notizia.

Analogamente, si deve ritenere che tali criteri si possano applicare anche alla manifestazione di pensieri ed opinioni sulle piattaforme social: nel caso di specie, tuttavia, le fake news per definizione non integrano i requisiti di veridicità e di interesse pubblico della notizia. Lo stesso vale per i messaggi che incitano alla violenza e all’odio nei confronti delle minoranze.

Questa conclusione è avvallata anche dai principi espressi a livello internazionale, anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui le restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero devono necessariamente perseguire obiettivi legittimi, escludendo quindi le gravi manifestazioni d’odio, e quelle che rappresentano un rischio effettivo per interessi di carattere generale o diritti altrui, come le fake news. Negli ultimi due anni, la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario interpellare nuovamente la Corte EDU in materia, sottolineando che quella da operare è una “complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale” e che “una rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza, spetta in primo luogo al legislatore” (ordinanza n.132/2020 Corte Cost.). La materia, tuttavia, non è ancora stata oggetto di intervento legislativo.

Attualmente, i contrasti fra libertà di manifestazione del pensiero e manifestazioni di odio e violenza, fake news e affermazioni discriminatorie si svolgono nel contesto dei social media e sono decisi da piattaforme come Twitter e Facebook. Si tratta di valutazioni delicate, che dovrebbero essere operate da esperti del diritto, e che invece molto spesso sono lasciate ad entità private, come le piattaforme social, che hanno indubbiamente anche un interesse economico nella scelta operata. I social media si configurano quindi come il nuovo e ultimo esempio di judge, jury ed executioner, in assenza di normativa appropriata in materia.

A cura di Beatrice Geusa

LA CRISI IN UCRAINA: LA SCINTILLA CHE SAREBBE MEGLIO EVITARE?

Da ormai qualche settimana in tema di politica internazionale il centro di ogni discussione è un paese che negli ultimi anni è stato il fulcro di molti scontri fra Stati Uniti e Russia: si tratta dell’Ucraina, che oggi ricopre un ruolo geo-politicamente strategico per entrambi i fronti.

Al termine della Guerra Fredda, nonostante i ripetuti tentativi di conciliare gli interessi di queste due potenze, i rapporti sono sempre stati molto fragili, ed ora sembrano deteriorarsi sempre più rapidamente.

Già nel 2014 il panorama internazionale era stato turbato dagli interventi militari della Russia nei confronti dell’Ucraina, culminati con l’illegale annessione della Repubblica autonoma di Crimea. Nelle ultime settimane, il conflitto si è riacceso con lo schieramento da parte della Russia di circa 100 mila soldati lungo il confine orientale dell’Ucraina, all’altezza della regione ucraina del Donbass, dove già dal 2014 imperversa un conflitto fra militanti separatisti filo-russi e le forze anti-separatiste. Successivamente, sono state inviate truppe in Bielorussia sul confine settentrionale del paese. Considerando la presenza armata sul confine a Sud con la Crimea, l’Ucraina sarebbe circondata su tre fronti, se la Russia dovesse decidere di attaccare e le conseguenze per la popolazione civile sarebbero devastanti, secondo i reparti di NGOs come Amnesty International e International Crisis Group, che sorvegliano la situazione già dal 2014.

Questo dispiegamento militare ha allertato l’intero Occidente, scatenando reazioni e dichiarazioni da parte dei leader di diversi stati membri della North Atlantic Treaty Organization (NATO). Tuttavia, è necessario comprendere quali siano le possibili violazioni e sanzioni a livello internazionale per capire se un intervento militare da parte degli Stati Uniti o della NATO sia effettivamente possibile. L’Ucraina, infatti, non è un membro di questa organizzazione, perciò le basi giuridiche per un intervento dovranno essere diverse.

L’unica organizzazione internazionale di cui sono membri i tre soggetti principali della crisi attuale è l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Come Stati membri, gli Stati Uniti, la Russia e l’Ucraina sono vincolati dallo Statuto delle Nazioni Unite, che all’art. 1 sancisce come obiettivo principale dell’Organizzazione il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale. A questo fine, possono essere adottate efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace. Tra gli atti che possono costituire un crimine di aggressione rientrano l’invasione, l’occupazione militare o l’annessione con l’uso della forza.

Quali sono quindi le sanzioni in cui può incorrere la Russia per i comportamenti tenuti sin d’ora nei confronti dell’Ucraina?

Lo Statuto dell’ONU prevede principalmente due possibilità:

  1. una condanna della Corte Internazionale di Giustizia (CIG) per violazione di un obbligo internazionale (es: divieto di utilizzo della forza);
  2. una raccomandazione da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o l’adozione di misure specifiche da parte dello stesso (sebbene ciò sia praticamente impossibile, visto che la Russia ne è parte e ha potere di vedo nello stesso).

In quanto membro dell’ONU, infatti, la Russia è comunque vincolata ai principi cardine dell’Organizzazione, incluso il divieto dell’uso della forza (che ha fin carattere di jus cogens, ossia di principio inviolabile del diritto internazionale). Questo aggrava ogni comportamento commesso in violazione di questi principi.

In caso di violazioni del divieto di uso della forza, il Consiglio di Sicurezza può quindi adottare misure di contrasto per dare effetto alle sue decisioni. Queste misure possono comprendere l’interruzione totale o parziale delle relazioni economiche e delle comunicazioni ferroviarie, marittime, aeree, postali, telegrafiche e radio, e la rottura delle relazioni diplomatiche. In casi particolarmente gravi, il Consiglio potrà intraprendere con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale (artt. 39-42 Statuto ONU). Esiste anche una sanzione molto più pesante in caso di ripetute gravi violazioni dei principi dell’ONU: l’espulsione dall’Organizzazione, che però dovrà essere operata da parte dell’Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza.

Tutte queste misure richiedono tuttavia una decisione del Consiglio di Sicurezza, che decide con il voto favorevole dei suoi membri permanenti, tra cui la Russia (c.d. potere di veto): pertanto, sono in pratica inapplicabili nei suoi confronti.

Ma fino a quando le esigenze dei Paesi che si trovano schiacciati fra due potenze come gli USA e la Russia potranno essere sacrificate per il “bene comune”?

Il 31 gennaio si è tenuto un vertice del Consiglio di Sicurezza sulla questione Ucraina, durante il quale sono emerse le tensioni fra USA e Russia sulla crisi attuale. Si tratta, tuttavia, solo di un primo passo per favorire il dialogo e prevenire un aggravarsi della situazione, prima di procedere all’adozione di misure più concrete. È probabile che le misure che verranno adottate, saranno di tipo economico e finanziario, e non passeranno attraverso il sistema delle Nazioni Unite. Ad esempio, potrebbero essere imposte restrizioni alle importazioni ed esportazioni, soprattutto di gas e petrolio. Gli interessi economici in ballo, tuttavia, non sono solo quelli della Russia: si tratta di misure a doppio taglio, che andrebbero ad influire, in alcuni casi pesantemente, anche sull’economia dei Paesi europei, che si trovano nel mezzo di questa disputa fra giganti.

L’augurio, sicuramente, è che nelle prossime valutazioni degli organi di diritto internazionale gli interessi dell’Ucraina, vittima diretta dei soprusi della Russia, contino più di altri.

A cura di Beatrice Geusa

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