COLLOQUIO DI LAVORO: QUALI DOMANDE?

Trovare lavoro è, spesso, un procedimento difficile, vuoi per la lunghezza delle procedure di selezione, vuoi perché ogni annuncio ha un numero spropositato di candidati/e, vuoi perché ogni procedura sembra essere composta da step infiniti prima di concludersi (invia il curriculum, fai uno o più colloqui conoscitivi, etc, …). Nonostante le difficoltà insite nella ricerca stessa di un lavoro, capita, talvolta, di trovarsi in situazioni scomode o di incontrare annunci di offerte di lavoro le cui richieste appaiono, ad occhi inesperti, avulse dalle posizioni professionali ricercate.

Si potrebbe dire che la stessa ricerca del lavoro diventa, sempre più spesso, un lavoro in sé. Si impara a scrivere curriculum degni di nota (o anche solo di non essere automaticamente esclusi dagli algoritmi che si occupano di scremare i/le candidati/e), si diventa più disinvolti/e e carismatici/he ad ogni colloquio ma non sempre si riesce a discernere un annuncio regolare da uno illecito, un colloquio normale da uno patologico.

A tal proposito, di recente ha fatto scalpore un annuncio pubblicato da una società di Napoli che chiedeva alle candidate (la posizione era infatti aperta alle sole candidate femmine) di inviare una loro foto “in costume da bagno o similare”.

La società è stata sanzionata per violazione dell’art. 27 del D. Lgs 198/06, quindi per aver violato il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro che prevede il divieto di “qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale”.

Al di là dello scalpore che ha suscitato l’annuncio sopra richiamato (la questione si è chiusa abbastanza velocemente con la sanzione alla società e la rimozione dell’annuncio), l’occasione è propizia per approfondire il tema relativo alla legalità di alcune delle domande che spesso vengono poste durante colloqui di lavoro in maniera più o meno diretta da parte dei recruiter.

A livello generale devono considerarsi vietate tutte le domande volte ad approfondire aspetti della vita privata del/la candidato/a, quindi quelle attinenti al proprio status familiare, politico o religioso, così come gli annunci rivolti ad escludere una determinata categoria di soggetti sulla base di caratteristiche personali inerenti al sesso, la razza, il credo religioso o le tendenze politiche. Tendenzialmente devono anche essere escluse tutte le domande che siano volte a indagare aspetti della vita che non siano inerenti alle mansioni per cui si svolge il colloquio di lavoro o, peggio, che siano volte a ledere la sfera intima del/la candidato/a, cercando di valutare (più o meno positivamente) scelte di vita personali che nulla hanno a che vedere con le competenze professionali richieste.

Più precisamente è illegale chiedere:

1. Sei fidanzato/a? Hai o vuoi avere figli?

Tale domanda è infatti vietata dall’art. 27 del Codice delle Pari Opportunità (già menzionato D.Lgs. 198/2006) che al suo comma secondo prevede che la discriminazione all’accesso al lavoro è vietata anche se attuata “attraverso il riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia o di gravidanza”.

2. Di che partito politico/nazionalità sei?

In questo caso è il D.Lgs 215/2003 (attuativo della direttiva 2000/43/CEE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica) che prevede, al suo art. 3, l’applicabilità del decreto anche rispetto all’”accesso all’occupazione e al lavoro, sia autonomo che dipendente, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione”. Peraltro, è anche lo Statuto dei lavoratori a vietare “al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore”.

3. Hai qualche disabilità? Qual è il tuo orientamento sessuale?

In questo caso è il D.Lgs 216/2003 (in attuazione della direttiva 2000/78/CEE sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro) a tutelare i/le candidati/e da domande volte a indagare le eventuali disabilità della persona o le sue preferenze sessuali.

4. Hai delle patologie fisiche o psicologiche?

Il divieto di domande relative allo stato di salute, sia fisico che mentale, è invece previsto dal D.Lgs 276/03 che mira ad evitare che eventuali problematiche fisiche o psicologiche del /la candidato/a possano, in qualche modo, influire sulle sue possibilità di assunzione.

5. Perché è finito il tuo precedente lavoro? Hai avuto problemi e se si, quali, con il tuo precedente datore di lavoro?

In questo caso è il D.Lgs 276/2003 a prevedere il divieto di indagare eventuali controversie con i precedenti datori di lavoro, a meno che non si tratti di caratteristiche che incidono sulle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa o che costituiscono un requisito essenziale o determinante ai fini dello svolgimento dell’attività lavorativa.

6. Hai precedenti penali?

In questo caso è necessario distinguere fra la richiesta del datore di lavoro di sapere se il soggetto che si candida ha o meno dei carichi pendenti (quindi dei procedimenti penali in corso per cui, però, ancora non vi è una sentenza di condanna, o di assoluzione, definitiva) e quella relativa alla presenza di eventuali condanne definitive (quindi la richiesta di esibire il proprio casellario giudiziale). In relazione ai carichi pendenti, infatti, alla luce dell’incertezza giuridica che accompagna la presenza di un carico pendente non può essere richiesta dal datore di lavoro. In particolare, è stata la Corte di Cassazione a ritenere che la richiesta di esibire il certificato dei carichi pendenti si ponga in contrasto con la presunzione d’innocenza di cui all’art. 27 Cost. (cfr Corte di Cassazione, sez. lavoro, 17.07.2018, n. 19012). Tuttavia, il contratto collettivo nazionale di lavoro di riferimento può permettere al datore di lavoro di richiedere il casellario giudiziale del/la candidato/a laddove la sua valutazione attitudinale possa (o debba) passare, anche, attraverso la valutazione di eventuali condanne passate in giudicato.

Insomma, ci sono dei limiti precisi che non possono essere superati durante un colloquio di lavoro, confini tracciati dalla consapevolezza che qualsiasi tentativo discriminatorio nei confronti di classi di soggetti è illegale.

A cura di Carlotta Capizzi

WAR CRIMES AGAINST MIGRANTS AND ASYLUM SEEKERS DETAINED IN LIBYA

StraLi, Ong Adala for All e UpRights hanno depositato il 18 gennaio 2022 un esposto alla Corte Penale Internazionale (CPI) riguardante crimini commessi in Libia tra il 2017 e il 2021 contro migranti e rifugiati, suscettibili di integrare crimini di guerra di competenza della Corte

CLICCA QUI per leggere l’articolo di La Stampa

CLICCA QUI per leggere l’articolo di L’Avvenire

CLICCA QUI per leggere l’articolo di Globalist

CLICCA QUI per leggere l’articolo di RFI

CLICCA QUI per leggere l’articolo di Malta Today

CLICCA QUI per leggere l’articolo del Times Malta

CLICCA QUI per leggere l’articolo di Info Migrants

CLICCA QUI per leggere l’articolo di Econostrum

CLICCA QUI per leggere l’articolo di La Croix

CLICCA QUI per leggere l’articolo de Il Riformista

CLICCA QUI per ascoltare su Spreaker l’episodio di “Diritti e Rovesci”

THE (AB)USE OF DIGITAL TECHNOLOGIES TO POLICE IRREGULAR MIGRATION

The term “digital borders” has been coined by experts to describe borders whose infrastructure progressively depends on automated algorithmic decision-making systems, machine learning, predictive analytics, and related digital technologies. Those tools aim to create systems of facial recognition, identification documents, ground sensors, biometric databases, and even visa and asylum decision-making processes.

As a result of the pandemic and an increasing tendency towards “contactless biometrics” technology, the digitization of borders has accelerated and so justified to combat the spread of the virus in the name of public safety. According to a report of the Special Rapporteur on contemporary forms of racism, racial discrimination, xenophobia, and related intolerance for the United Nations Human Rights Council, digital borders could intensify the racially discriminatory operation of borders, especially if digital technologies are being deployed in the border immigration context by private corporate entities when supported by governments without adequate mitigation strategies in place. Such an experimental approach can have unprecedented dangerous consequences for the data subjects. As a result, migrants, refugees, and stateless persons are being deprived of dignity and fundamental human agency as large amounts of data are extracted from individuals often on exploitative conditions which, furthermore, might result in grave human rights violations.

Border policing in the European Union (EU)

At EU borders, the mechanism used for policing is operated by Frontex, which has run operations of the European Border Surveillance system (“Eurosur”) since 2013. Frontex is a framework for the exchange of information and coordination between member states in the EU. Their goal is to prevent any irregular migration and border crime by utilising digital technologies to predict, control and monitor traffic across EU borders. Among other things, Frontex deploys surveillance drones in the Mediterranean Sea to notify the Libyan coastguard to intercept refugee and migrant boats and return migrants to Libya where they face imminent human rights violations in Libyan detention centers for migrants. Also, the UN Office of the High Commissioner for Human Rights (“OHCHR”) has raised its concerns against the coordinated failure and resistance to aid refugees and migrants in the Mediterranean, which is one of the deadliest migration routes in the world.

A deepening of xenophobic rhetoric by way of technology

The most recent use of digital technologies in this form runs the risk of having prejudicial effects, as often its design and utilization is a reflection and reinforcement of prevailing political, social, and economic tendencies. For instance, if political tendencies lean towards nationalism, it could have profound racially discriminatory consequences for migrants and refugees. The perception that refugees and migrants are “threats” to national security has encouraged the implementation of digital technologies to promote and develop racially discriminatory and xenophobic ideologies. Nevertheless, there are also cases in which humanitarian and bureaucratic efficiency is purely pursued without necessary human rights safeguards, resulting in serious human rights violations with unfortunate consequences. For instance, studies have shown that “digital borders” along the US-Mexico border have led to an increase in migrant deaths instead of being more human-oriented because most irregular migrants were forced to pursue more dangerous routes across the two States.

The ominous role of private corporations

An important facet of digital borders that is central to its human rights landscape, is the role of private corporations. Most Governments continuously more rely on private-sector corporations to manage mass migration of people by way of new surveillance and tracking digital tools in a possible attempt to abdicate responsibility for potential human rights violations. The relationship between border policing, financial interest, and militarisation has been termed the “Border Industrial Complex” (BIC). These corporations play exercising a significant influence on international and domestic policy development, particularly with the decision-making process about the governance of the digital border industry.

BIC companies include private and public entities involved in border policing, detention, surveillance, and transportation of migrants. BIC has been supported by heavy lobbying to enable a system of militarised borders along with the criminalization of migration and the erosion of the basic human rights of migrants. A recent report from Preventable Surprises (6th discussion note dated January 2021) shows how the deep influence of government policy on migrant detention and the use of mass surveillance technologies at borders is evidence of the lobbying capacity of both public and private entities across BIC industries.

In some countries such as Hungary, Greece, and Latvia, for example, the EU funded a pilot project by a company named iBorderCtrl. The EU’s Horizon 2020’s iBorderCtrl is an “Intelligent Portable Control System” that “aims to enable faster and thorough border control for third-country nationals crossing the land borders of the EU Member States” using hardware and software technologies that seek to automate border surveillance. The company introduced AI-powered lie detectors at border checkpoints in airports to monitor people’s faces for signs of lying and to then flag individuals for further screening by a human officer. This system was reportedly tested in 2019 at the Serbian-Hungarian border and subsequently failed. iBorderCtrl illustrates how private companies and governments experiment with various forms of surveillance technologies on asylum seekers based on scientifically questionable researches and suspicious grounds.

The future of digital border policing

Governments, and to a lesser extent private and public corporations, still have international human rights responsibilities and obligations to prevent, combat and reform racial discrimination. In the realm of border and immigration enforcement, the prevention of human rights violations might necessitate the abolition or outright ban of some unfit-for-purpose technologies as the operators thereof struggle to control and mitigate their harmful effects. There is not only a conceptual but also an institutional intersection between policing and migration. The apparent conflation of security and migration as a result of worrying xenophobic and racially discriminatory rhetoric in society has the potential to jeopardize an adequate use of data gathered by mass surveillance technologies.

By the way it looks, such digital technologies are most of the time not working for the individuals’ benefit, but against it. As citizens of the western world, one of the reasons behind the (ab)use of digital technologies for border migration has also been caused by rising sentiments of radical conservatory and nationalistic politics, which is alarming (especially in the European continent). There is no doubt it is still our duty as members of society to carefully observe this trend, actively challenge it, and make our governments accountable.

A cura di Mignon Van der Westhuizen

CAPORALATO NAZIONALE

Ci siamo già occupati del caporalato 2.0 – qui per l’articolo di ottobre – fenomeno nuovo ma, tuttavia, non imprevedibile. Torniamo, invece, oggi, ad occuparci del caporalato “classico”, quello che colpisce, principalmente persone in difficoltà economica, in particolare le persone immigrate.

Non è una novità che vi siano individui sottoposti a condizioni lesive non solo (e non tanto) dei diritti legati al lavoro, quanto della loro dignità umana. Spesso scorrono, fra le notizie, casi di datori di lavoro che impongono orari estenuanti ai propri dipendenti, sottopagandoli e imponendogli condizioni alloggiative al limite dell’umano. È invece, forse, almeno una mezza novità che di certi luoghi di lavoro si parli in regioni come il Veneto o il Trentino. Anzi, l’immaginario collettivo, quando pensa al reato di caporalato, lo associa alle piantagioni del Sud, tendenzialmente a uomini di colore che raccolgono pomodori per pochi euro all’ora sotto al sole del meridione; non crede, invece, che le stesse condizioni si ripetano, quasi uguali, al Nord.

C’è la tendenza a credere che certe situazioni non possano ripetersi in regioni “avanzate” come quelle nordiche, che il caporalato sia stato (e rimanga) un problema meridionale, delle regioni più “retrograde” e non, invece, un veleno che affligge l’Italia tutta, da Nord a Sud, dalle imprese occupate nella produzione di prodotti per l’editoria alle piantagioni di pomodori.

A tal proposito, prima di entrare nel vivo dei racconti di vita quotidiana di chi è vittima di caporalato, appare giusto riportare, seppur brevemente, cosa s’intenda, a livello normativo, con il reato di caporalato.

Il codice penale non conosce un reato di caporalato, o meglio, lo conosce ma lo chiama “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” al suo art. 603 bis c.p. Il reato è quindi inserito nel capo dei delitti contro la persona, al titolo XII del libro secondo del codice. L’art. 603 bis cp si apre con una clausola di residualità, per cui il reato di c.d. caporalato si applica solo laddove non sia applicabile un reato più grave, quindi, solo dove i fatti di volta in volta in considerazione non siano sussumibili in ipotesi più gravi. La norma punisce la condotta di chi assuma (o comunque in altro modo impieghi) manodopera sottoponendola a condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno della stessa, nonché chi utilizza o comunque impiega manodopera in condizioni di sfruttamento e o il ricavare profitto dallo stato di bisogno anche tramite intermediazione altrui.

Il secondo comma dell’articolo, poi, elenca una serie di indici che sono idonei a costituire sfruttamento del lavoro e tra cui si rinviene la corresponsione di una retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali ovvero, comunque, sproporzionata rispetto alla qualità e alla quantità; la reiterata violazione della normativa in tema di orario di lavoro e periodi di riposto (anche settimanale e feriale); la violazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e la sottoposizione a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianze e situazioni alloggiative degradanti.

Infine, l’ultimo comma della norma riporta alcune aggravanti, quindi delle circostanze che, se sussistenti, sono idonee a determinare un aggravamento della pena.

Il delitto di caporalato è quindi volto a punire l’imposizione di condizioni di lavoro e/o di alloggio che siano riconducibili ad uno sfruttamento eccessivo (e disumano) di chi lavora. L’art. 603 bis cp è da leggersi come una conquista di civiltà giuridica laddove riconosce e punisce il trattamento indegno che viene spesso riservato ai lavoratori.

Tuttavia, al di là di quanto viene previsto a livello normativo, spesso, le vittime di caporalato sono individui che, per le più disparate ragioni (paura di possibili ritorsioni, necessità di guadagnare anche solo quel poco che gli viene concesso), non sono propensi a denunciare i propri datori di lavoro. In tal senso, infatti, come anticipato, la maggior parte delle vittime di caporalato è costituita da persone immigrate. Individui che, ancora prima, sono vittime di un sistema socioculturale ancora troppo ostile all’accoglienza dello straniero, un sistema che tende a vedere, negli immigrati, più un problema da risolvere che delle vite da salvare.

Proprio alla luce delle difficoltà sofferte dalle vittime di caporalato è fondamentale creare una rete di sostegno quando chi è protagonista di determinate storie decide di iniziare a raccontare, anche solo cerca di condividere la propria storia.

A tal fine abbiamo quindi deciso di raccontare due storie (tanto simili quanto diverse) di caporalato, l’una avvenuta a Foggia e l’altra, tra il Veneto e il Trentino.

È d’inizio dicembre la notizia dell’apertura di un’indagine per caporalato a Foggia mentre dell’estate quella di una stessa indagine aperta tra il Trentino e il Veneto. Le vicende sono, per molti versi, simili, per altri, forse, distinte e distanti. Tuttavia, al di là delle differenze che si cercheranno, seppur superficialmente, di evidenziare nel proseguo del presente contributo, rimane un nucleo centrale d’indignazione e critica sociale che si ritiene accomuni la vicenda degli agricoltori foggiani e quella degli imprenditori nordici.

In questo senso, infatti, in entrambi i casi ci si trova di fronte a gruppi di persone (ci si scusa per non definirli lavoratori ma il lavoratore, per sua definizione, gode di una serie di tutele e garanzie che laddove sono completamente assenti non si ritiene si possa definire tale) sottoposte a orari di lavoro estenuanti, a una paga misera e a condizioni alloggiative al limite del sopportabile.

Nel primo caso, quello foggiano, avviene a Borgo Mezzanone, centro nevralgico del caporalato agricolo dove vi è una nota baraccopoli che “accoglie” più di duemila braccianti extracomunitari in condizioni igienico sanitarie precarie. Lì, i lavoratori (principalmente persone immigrate dal continente africano) venivano pagati 5 euro all’ora per raccogliere pomodori, olive, frutta: 5 euro per ogni cassa che riuscivano a riempire con il raccolto. L’orario di lavoro era semplice da capire e ricordare: lavoravano dalla mattina alla sera, viaggiando anche nei bagagliai delle macchine per arrivare sul luogo del lavoro.

Nel secondo caso, invece, i lavoratori, sempre accolti in abitazioni che accoglievano più di venti persone alla volta in condizioni igieniche e sanitarie tutt’altro che ammirevoli, venivano regolarmente assunti con contratti di lavoro part/full time ma si trovavano costretti, nonostante l’inserimento regolare, a lavorare per molte ore consecutive, senza la possibilità di alcuna pausa, senza ferie e con una retribuzione di pochi euro giornaliere. Ancora, quando a maggio alcuni lavoratori avevano portato delle dimostranze per le condizioni in cui venivano costretti, erano stati aggrediti da alcune squadre di picchiatori assunte dai gestori dell’organizzazione illecita che volevano riportare l’ordine fra i propri schiav… lavoratori.

Entrambe le vicende si pongono come esemplificative di come il problema dello sfruttamento del lavoro non sia (più) regionalmente orientato. Seppur, infatti, il caporalato c.d. agricolo è quello più tradizionale (ma non necessariamente il più comune), il caso avvenuto tra Veneto e Trentino è la dimostrazione come anche le industrie del Nord (meno propense all’agricoltura e più improntate a produzioni di tipo industriale) possano tendere a imporre condizioni lavorative irrispettose della dignità umana. Il caporalato “industriale” è, forse, solo più ben nascosto (vi erano, infatti, ordinari contratti di lavoro part o full time in essere tra datore di lavoro e vittime) ma, nella sostanza, rimane costruito sullo stesso impianto fattuale di quello agricolo: orari di lavoro estenuanti, retribuzione eccessivamente sproporzionata alla quantità, qualità del lavoro e condizioni di alloggio al limite del sopportabile.

I tre aspetti del caporalato che si sono, per ora, affrontati (partendo da quello della gig economy per arrivare al caporalato industriale, passando per quello agricolo) sono fenomeni da contrastare, avendo sempre in mente la tutela dei diritti fondamentali prima di quella della produzione o, peggio, del fatturato.

A cura di Carlotta Capizzi

SENTENZA STORICA: LA GERMANIA CONDANNA UN MEMBRO ISIS PER GENOCIDIO CONTRO GLI YAZIDI

Un membro del gruppo dello Stato Islamico (ISIS) è stato dichiarato colpevole di genocidio contro la minoranza religiosa degli yazidi in una sentenza storica dell’Alta Corte Regionale di Francoforte (Germania). È così che titolano le maggiori testate giornalistiche che si occupano di gravi violazioni di diritti umani.

Lo scorso 30 novembre, l’Alta Corte Regionale di Francoforte ha condannato all’ergastolo Taha al-Jumailly, 29 anni, iracheno e jihadista, per aver commesso il crimine internazionale di genocidio nei confronti della minoranza degli yazidi, oltre a crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Lo Stato Islamico, nella figura di al- Jumailly, è responsabile di aver assoggetato a schiavitù una bambina di 5 anni e sua madre a partire dal 2014 in Siria, essendo poi le due state vendute “svariate volte dal gruppo [ISIS]”, come riportato da più fonti. Taha al-Jumailly è stato condannato, specificatamente, per aver portato le due in Iraq, averle assoggettate a tortura e altri trattamenti inumani e degradanti e aver fatto morire disidrata la bambina nell’estate 2015 – avendola legata ad una finestra, come punizione, in una giornata in cui le temperature hanno raggiunto i 50 gradi.

Chi sono gli yazidi?

Gli yazidi rappresentano una minoranza religiosa, di lingua curda, per lo più concentrata tra Iraq e Siria (con ampie comunità anche in Germania, Svezia, Russia, Armenia e Georgia a causa dell’esodo migratorio dovuto alla persecuzione), che professa una religione monoteista le cui dottrine sono caratterizzate da esoterismo.

A partire dall’estate del 2014, l’ISIS ha lanciato un’offensiva contro la regione irachena dello Schingal, compiendo massacri di larga scala contro la popolazione civile, inclusi uccisioni di massa, tortura e riduzione in schiavitù. Secondo quanto riporta Amnesty International, più di 5.000 persone sono state uccise e più di 400.000 sono state sfollate dalle loro case. Ad oggi, oltre 2.800 donne e bambini yazidi sono ancora prigionieri dell’ISIS o risultano dispersi. Oltre all’attacco fisico e diretto contro tale minoranza, l’ISIS ha iniziato anche una vera e propria campagna d’odio, definendoli “infedeli” o “adoratori del demonio”.

Cosa significa questa sentenza e perchè è importante.

Secondo il diritto internazionale uno Stato ha giurisdizione penale, con possibilità quindi di iniziare un procedimento, nel caso in cui il reato sia stato perpetrato sul suo territorio ovvero la vittima o l’autore del reato è cittadino dello Stato in questione. Nonostante ciò, nel caso di crimini particolarmente seri, come lo sono i crimini internazionali, gli Stati possono decidere di applicare il principio di giurisdizione universale che permette loro , appunto, di iniziare un procedimento penale nei confronti di un soggetto non cittadino dello Stato di riferimento anche quando la vittima non è una cittadino del medesimo e il reato non è stato commesso sotto la sua giurisdizione (territoriale o meno). Questo è, di fatto, quello che è accaduto nel caso in questione: il processo svoltosi in Germania, rappresenta, infatti, uno dei pochi casi in cui tale principio è stato attutato nei confronti di un cittadino iracheno, membro del sedicente Stato Islamico, accusato di aver perpetrato reati in territorio iracheno nei confronti di una bambina irachena. È chiaro, dunque, come gli obblighi della Germania nel caso di specie fossero solo “morali”.

La Germania ha potuto iniziare tale procedimento non solo perchè la legislazione nazionale prevede la possibilità di applicare tale principio, ma anche perchè il suo codice penale contempla come reati anche i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio. Secondo la normativa tedesca, genocidio è quel reato inquadrabile come “l’uccisione di una persona facente parte di un più ampio un gruppo, con l’intento di distruggere l’intero gruppo” – definizione che riprende gli elementi fondanti e i requisiti contenuti nella Convenzione contro il Genocidio (1948) e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (1998).

Il Team Investigativo delle Nazioni Unite che si occupa di crimini commessi dall’ISIS (UNITAD), il maggio scorso aveva pubblicato un rapporto in cui aveva già definito le violenze sistematiche perpetrate dall’ISIS nei confronti degli yazidi come “genocidio”. Dai dati raccolti, infatti, emerge che le atrocità a cui tale minoranza religiosa è stata sottomessa, inclusi stupri seriali e altre forme di violenza sessuale, fossero volte alla distruzione permanente della capacità delle donne di poter aver figli e costruire quindi famiglie all’interno della comunità degli yazidi. UNITAD ha anche sottolineato che tali atrocità e crimini vengono commessi ancora adesso. Nel 2016 anche la Commissione d’Inchiesta sulla Siria aveva etichettato le atrocità subite dagli yazidi come genocidio. Nel caso di specie, la Commissione d’Inchiesta aveva fatto riferimento alla Convenzione contro il Genocidio del 1948, stabilendo che l’ISIS abbia cercato di “distruggere gli yazidi in una molteplicità di modi”.

Nonostante il linguaggio e il riconoscimento delle Nazioni Unite, però, come affermato da Natia Navrouzov, Direttore dell’ufficio legale della ONG globale yazidi Yazda, “da avvocato so quanto sia difficile sostanziare le accuse di genocidio [….] [:] naturalmente sappiamo che l’ISIS ha perpetrato un genocidio contro gli yazidi. Ma in ogni processo, bisogna dimostrare che questa particolare persona aveva l’intenzione di commettere un genocidio contro gli yazidi.”. Ed è quello, però, che la Corte di Francoforte ha stabilito oltre ogni ragionevole dubbio, condannando all’ergastolo Taha al-Jumailly poichè “intendeva eliminare la minoranza religiosa degli yazidi acquistando le due donne yazidi e rendendole schiave”. Altri sopravvissuti, che hanno anche preso parte al processo in qualità di testimoni, hanno sottolineato dettagliatamente la “natura sistemica dello sterminio mirato degli yazidi”.

Questa sentenza è “il momento che gli yazidi aspettavano” da tempo, ha affermato Amal Clooney, parte del team legale che ha rappresentato la madre della bambina, non solo perchè per la prima volta vi è il riconoscimento che gli atti dello Stato Islamico contro la comunità degli yazidi equivalgono a genocidio, ma perchè questo rappresenta il primo passo per ottenere giustizia. “Sette anni dopo il genocidio, era ora di andare avanti nella lotta contro l’impunità per i crimini contro gli yazidi e portare giustizia alle vittime!” afferma una sopravvissuta yazida irachena, “Ma il verdetto può essere solo un inizio, ulteriori procedimenti devono seguire per portare alla luce la verità sui gravi crimini contro la mia comunità religiosa”.

È pur certo che quello che verrà dopo questa sentenza è ancora da scoprire. Nadia Murad, Premio Nobel per la Pace 2018 e yazidi sopravvissuta a schiavitù, però, ha già richiesto a gran voce al Consiglio di Sicurezza ONU di riferire la questione yazidi alla Corte Penale Internazionale o la creazione di un tribunale specifico per il genocidio commesso contro la comunità.

A cura di Serena Zanirato

L’ESTRADIZIONE DI JULIAN ASSANGE: QUALI SONO I RISCHI

Julian Assange potrebbe essere vicino all’estradizione: il 10 dicembre, gli Stati Uniti hanno presentato e vinto un ricorso in appello avverso la sentenza con cui l’Alta Corte di Londra, a gennaio, aveva negato la sua estradizione in territorio americano.

Assange è noto al grande pubblico per essere il fondatore di WikiLeaks, ONG senza scopo di lucro che riceve documenti riservati, di carattere governativo o aziendale, e li pubblica sul proprio sito web.

Cittadino australiano, è accusato negli Stati Uniti di aver illegalmente sottratto a siti governativi statunitensi migliaia di documenti, pubblicati poi proprio su WikiLeaks. I più famosi e rilevanti fra questi denunciavano gravi inadempienze e abusi commessi dalle truppe statunitensi, britanniche e irachene nelle guerre in Afghanistan e Iraq: sono stati diffusi materiali su torture, violazioni di diritti umani e uccisioni di civili. Successivamente, sul sito sono stati pubblicati anche documenti riguardanti l’operato della diplomazia statunitense e internazionale.

Nel 2019, Assange è stato incriminato per violazione dell’Espionage Act, la legge federale statunitense che punisce, fra le varie, la diffusione di materiale militare riservato. Sul suo capo pendono accuse pesantissime, per cui potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere negli Stati Uniti. Era anche stato accusato di reati a sfondo sessuale da due donne, in Svezia, la quale a propria volta aveva chiesto l’estradizione: l’indagine è stata archiviata nel 2019 per insufficienza di prove e per difficoltà degli accertamenti ad anni di distanza dai fatti testimoniati.

A gennaio, la richiesta di estradizione era stata rifiutata a causa delle condizioni di salute di Assange, detenuto a seguito del suo arresto nel 2019: i motivi sono legati al fatto che lo stesso soffrirebbe di depressione e avrebbe tendenze suicide che potrebbero mettere in pericolo la sua vita, in caso di estradizione. Nel ricorso, gli Stati Uniti hanno offerto delle garanzie in tal senso, fra cui il diniego della prospettiva di isolamento o carcere duro nell’eventualità dell’estradizione e la possibilità, in caso di condanna, di scontare la pena in Australia.

Ci verrà del tempo prima di giungere a un verdetto definitivo circa l’estradizione di Julian Assange: il caso ora deve tornare a essere esaminato in primo grado dalla Corte di Westminster, tenendo conto della decisione dell’Alta Corte. I legali dell’imputato, poi, probabilmente presenteranno ricorso.

Fin dal suo inizio, questo caso è controverso e i problemi legati alle condizioni di detenzione di Assange sono solo i più urgenti e plateali. Chi da anni si schiera a difesa del fondatore di WikiLeaks afferma che la sua attività, comprese le azioni per cui è attualmente incriminato negli Stati Uniti, si collocano interamente nella sfera del giornalismo investigativo. I documenti classificati pubblicati da WikiLeaks sono stati utilizzati con questa finalità e anche solo processare Assange è considerato un attacco alla libertà di espressione e informazione.

Oltre a ciò, la sua detenzione a Belmarsh ha già compromesso fortemente la sua salute. Le gravi condizioni del giornalista e i rischi a cui è esposto tuttora, nel corso della sua detenzione preventiva nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, sono già state denunciate non solo da organizzazioni come Amnesty International, ma anche dall’inviato delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, nel 2020. In molti sostengono che il rischio che la sua salute peggiori in seguito all’estradizione negli Stati Uniti è concreto: l’appello presentato all’Alta Corte è stato aspramente criticato per la vaghezza delle rassicurazioni offerte, in un panorama come quello statunitense dove le violazioni dei diritti umani in carcere sono note.

Le condizioni di detenuti e detenute e la necessità di assicurare il rispetto dei loro diritti fondamentali sono battaglie che StraLi ha sempre portato avanti con forza. Per questo, mentre attendiamo che il caso venga riesaminato, ci uniamo al coro di associazioni che difendono la necessità di tutelare la salute psicofisica e i diritti umani di Julian Assange da ogni potenziale rischio. Ed è il diritto alla salute e alla vita, insieme a quello alla libertà d’espressione e di stampa, che ci auguriamo siano al centro della nuova sentenza.

A cura di Greta Temporin

ALLARME PFAS: ANCHE L’ONU SI MOBILITA

Qualche tempo fa (https://bit.ly/PFASalarm), vi avevamo parlato dei PFAS e del processo penale vicentino per disastro ambientale che vede coinvolta la Miteni S.P.A., azienda considerata dall’accusa la causa dell’inquinamento delle falde acquifere da sostanze perfluoroalchiliche in Veneto.

Quella che interessa le province di Vicenza, Verona e Padova è forse, per area geografica e numero di persone coinvolte, la contaminazione da Pfas più estesa del mondo e, peraltro, non riguarda unicamente l’acqua potabile. Infatti, dalle analisi dell’Istituto Superiore di Sanità – che nel 2017 aveva analizzato oltre 1.200 campioni di alimenti prelevati nella zona rossa (tra vegetali e prodotti di origine animale) – emerge che i prodotti maggiormente contaminati, tra quelli analizzati, sono le uova di gallina (fino a 37.600 nanogrammi in un chilo), seguite dal fegato di maiale (fino a 36.800 nanogrammi/chilo) e dalle carpe (fino a 18.600 nanogrammi/chilo).

I dati sono stati resi noti solo a settembre di quest’anno in conseguenza della battaglia legale contro la regione Veneto portata avanti da Greenpeace e dall’associazione Mamme NO PFAS, attraverso la quale sono riusciti ad ottenere un accesso a queste analisi ufficiali. Sulla base di questi dati è stato realizzato, da ricercatrici e ricercatori dell’Università di Firenze e dell’Università di Padova, con il contributo delle due associazioni sopra menzionate, lo studio “Sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) negli alimenti dell’area rossa del Veneto” (che potete trovare qua https://bit.ly/articoloricercaPFAS).

È giusto precisare che i dati richiesti non sono stati forniti in maniera completa ed esaustiva ma, nonostante ciò, lo studio conferma la contaminazione diffusa negli alimenti provenienti dall’area rossa e fa emergere inoltre che i prodotti di origine animale sono di gran lunga più contaminati rispetto a quelli vegetali: informazioni utili per continuare a studiare e a monitorare la questione.

È paradossale che ancora una volta siano Greenpeace e le Mamme NO PFAS a svolgere il ruolo che spetterebbe agli enti preposti, appellandosi agli scienziati per cercare di comprendere appieno come i PFAS si distribuiscano negli alimenti provenienti dai comuni dell’area rossa” hanno dichiarato Greenpeace e le Mamme NO PFAS in un’intervista. “D’altra parte, che cosa possiamo aspettarci dal governo di una Regione che a partire dal 2017, anno dell’ultimo monitoraggio, non è stato in grado di analizzare alcun nuovo campione e ha fatto dell’inerzia il suo mantra? Ci auguriamo che il nuovo monitoraggio, promesso di recente da alcuni funzionari regionali in seguito alle nostre denunce, tenga conto delle gravi criticità che interessano gli alimenti provenienti da tutta l’area attraversata dal fiume Fratta, e non solo dal tratto che ricade nella zona rossa”.

Proprio grazie alla continua attenzione e denuncia di queste associazioni, dal 30 novembre al 4 dicembre in Veneto è arrivata una missione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani per cercare di fare luce su queste sostanze tossiche e capire gli effetti di un tale disastro ambientale sulla popolazione.

Ma non solo. La finalità della missione è anche quella di assicurare che siano stati rispettati i diritti dei moltissimi cittadini che vivono in quest’area: in particolare il diritto alla vita, alla salute e ad un ambiente sano, il diritto all’informazione e il diritto ad ottenere un rimedio effettivo all’inquinamento provocato, presumibilmente, dalla Miteni (diritti sanciti nero su bianco da alcuni articoli della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Qui (https://bit.ly/letteraONU) potete trovare la lettera di denuncia inviata all’ONU da Michela Piccoli di Mamme NO PFAS e Alberto Peruffo di PFAS.land , organo di informazione e azione dei gruppi-comitati-associazioni che vivono nelle terre contaminate da PFAS, che ha svolto una funzione cruciale nel portare l’attenzione delle Nazioni Unite sul caso.

Nella lettera, tra il resto, si accusano le istituzioni di scarsa trasparenza nei confronti dei cittadini che hanno il diritto di sapere cosa sta realmente accadendo sul loro territorio.

Infatti, come accennato, è stata necessaria una battaglia legale (ricorso al Tar) per ottenere dalla regione Veneto i dati relativi alla presenza di Pfas negli alimenti, come effetto dell’inquinamento causato dalla Miteni di Trissino.

Ma la poca chiarezza degli enti pubblici appare anche dalla più recente decisione della maggioranza del consiglio regionale di bocciare una mozione volta a diffondere un vademecum sanitario tra le popolazioni delle zone colpite; vademecum finalizzato proprio ad informare gli abitanti delle province di Vicenza, Padova e Verona sulla gravità dell’inquinamento della falda idrica da sostanze perfluoroalchiliche, con l’indicazione delle misure e delle precauzioni sanitarie da adottare, nonché degli esami diagnostici a cui sarebbe bene sottoporsi.

La bocciatura di questa richiesta è arrivata poco prima della missione ONU, sicuramente non un ottimo biglietto da visita da presentare a Marcos A. Orellana, rappresentante dell’Alto Commissariato dei Diritti Umani che è stato in Veneto la scorsa settimana.

Nel corso della sua visita ha incontrato diverse autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche i cittadini che vivono ogni giorno sulla propria pelle la sfida di abitare in un territorio che è teatro di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale.

Per avere i primi riscontri legati a questa indagine attendiamo la conferenza stampa che si terrà a Roma il 13 dicembre, mentre per avere la relazione completa bisognerà aspettare il prossimo anno.

L’indagine è appena iniziata, ma visti i presupposti è possibile ipotizzare che in Veneto sia avvenuta una violazione dei diritti umani.

Nel frattempo, il processo che vede imputati i manager dell’azienda Miteni e delle controllanti Mitsubishi e Icig per avvelenamento delle acque e disastro ambientale avanza e si sta svolgendo l’istruttoria dibattimentale nel corso della quale verranno sentiti numerosi testimoni.

Non è certo il momento di abbassare lo sguardo ed è anzi fondamentale tenere alta l’attenzione sulla situazione veneta, sperando che l’intervento dell’ONU possa portare a livello internazionale la conoscenza di questo crimine ambientale e possa dimostrare che quanto accaduto abbia calpestato i diritti di moltissimi cittadini che attendono giustizia.

A cura di Laura Olivero

STRALI AND CIVIL SOCIETY ARE CALLING FOR THE PROTECTION AND RESPONSIBLE USE OF AI!

The proposed Artificial Intelligence Act (AIA) is a massive step forward in the protection and responsible use of AI in the EU. Considering that AI systems are increasingly being used in all areas of our day to day lives, it is of crucial importance that the AIA properly addresses the societal, economic and structural impacts of the use of AI. Moreover, it must ensure that the use of AI is future-proof and prioritises the protection of fundamental rights.

We must always remember that AI systems drastically intensify structural imbalances of power. This harm usually falls on those most vulnerable and marginalised in our society. It is for this very important reason that StraLI, along with various other civil society organisations, sets out a call by way of this civil society statement, towards an AIA that has the protection of fundamental rights at its core. Vital recommendations are outlined to guide the European Parliament and Council in amending the European Commission’s proposal.

StraLi and the other undersigned organisations call on EU institutions and EU member state governments to ensure that the future AIA realises the following 9 essential goals:

1. A consistent updating approach to the risks of AI systems as technology develops

2. Complete prohibitions on all AI systems that pose an unacceptable risk to fundamental rights

3. Obligations on the users of high-risk AI systems to simplify accountability to those impacted by AI systems

4. Consistent and meaningful public transparency

5. Significant rights and remedies for those impacted by AI systems

6. Accessibility throughout the AI life-cycle

7. Sustainability and environmental protections (especially with regards to the development of AI systems in a resource-friendly way!)

8. Improved and future-proof standards for AI systems

9. A genuinely comprehensive AIA that works for everyone, especially those most vulnerable and marginalised.

Read & share the full statement drafted by European Digital Rights (EDRi), Access Now, Panoptykon Foundation, epicenter.works, AlgorithmWatch, European Disability Forum (EDF), Bits of Freedom, Fair Trials, PICUM, and ANEC and signed by 114 fellow civil society organisation here: https://edri.org/wp-content/uploads/2021/11/Political-statement-on-AI-Act.pdf

And find more information about the AIA from our partner organisation here: https://edri.org/our-work/civil-society-calls-on-the-eu-to-put-fundamental-rights-first-in-the-ai-act/

A cura di Mignon van der Westhuizen

SIAMO STANCHE: LE CARENZE DEL SISTEMA, IL 25 NOVEMBRE E OLTRE

Anche quest’anno, è arrivato il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una ricorrenza instauratasi piuttosto di recente, per un fenomeno molto antico: è stata una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – la numero 54/134 – a introdurla nel 1999. Da allora, le istituzioni nazionali e internazionali così come le associazioni e tutti i soggetti che si muovono nel campo dell’attivismo si muovono massicciamente, al ricorre della data, per organizzare flashmob, convegni, momenti di sensibilizzazione per scongiurare il replicarsi di fenomeni come il femminicidio, la violenza verbale e psicologica, gli abusi che abbiano le dinamiche di genere al centro delle loro motivazioni – insomma, che colpiscano le donne in quanto tali.

I riflettori sul 25 novembre sono aumentati di anno in anno, con campagne sempre più popolari.

Nel frattempo, i numeri sul femminicidio e sulla violenza di genere in Italia hanno continuato a peggiorare.

Il Ministero dell’Interno dichiara, in data 22 novembre, che nel periodo di tempo intercorso fra l’1 gennaio e il 21 novembre 2021, si sono registrate 109 vittime di genere femminile – nel report, “donne” – di cui 93 uccise in ambito familiare-affettivo; di queste, 63 sono state uccise per mano del – sottolineato, maschile – partner o ex partner: sono queste ultime, perlopiù, che trovano nei titoli dei giornali e dei mezzi d’informazione la classificazione di vittima di “femminicidio” – in senso stretto, l’uccisione di una donna in quanto donna. Questo dato aumenta in modo consistente – +8% rispetto a quello dello scorso anno – un aumento costante, che sembra quasi inesorabile.

È preparandoci dunque a un 25 novembre in cui questo dato verrà presentato – come tutti gli anni – nella commozione generale, elencando probabilmente i numeri e i nomi delle vittime di quest’anno, mettendo in campo scarpe e simboli rossi, che viene spontaneo dire una cosa: siamo stanche.

Siamo stanche che ogni anno arrivi il 25 novembre, ogni anno ci siano sempre di più i riflettori puntati su questa ricorrenza, ci siano più eventi, commemorazioni, spettacoli, opinionisti e opinioniste. E che ogni anno, quando arriva il 25 novembre, il dato sul femminicidio – ma anche quelli sulla violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale – sia sempre, inesorabilmente, peggiore.

In questi giorni, dopo l’omicidio di Juana Cecilia HazanaLoayza a Reggio Emilia – qui un approfondimento – si è riacceso il dibattito sui gap del diritto penale nel tutelare le vittime di violenza di genere, specialmente di stalking, maltrattamenti e percosse, spesso l’anticamera del femminicidio. Si è parlato di inasprimento delle pene, di assegnare una scorta alle accertate vittime di stalking, di proteggere di più le donne. Ma cosa vuol dire proteggerci davvero?

Siamo stanche che le soluzioni offerte riguardino sempre noi, come ci dobbiamo comportare, dove dobbiamo andare, a chi dobbiamo accompagnarci per essere al sicuro. La proposta di una scorta, che pure, forse, si è resa necessaria, è un fallimento dello Stato e del sistema giudiziario, perché è indice di un sistema che ammette di non essere in grado di fare prevenzione e di fare riabilitazione. È indice di un sistema che, anziché concentrarsi sul monitoraggio e sul percorso riabilitativo dei potenziali autori delle violenze, si è concentrato di nuovo solo sulla vittima. Sul sacrificio della sua libertà – già ampiamente limitata dalla violenza – in nome di una protezione che, evidentemente, non si è in grado di offrire in altra maniera.

Siamo stanche che le soluzioni offerte siano sempre estemporanee e non sembrino mai rispondere a quei problemi, profondamente permeanti la nostra società e il sistema giudiziario, che arrivano prima e conducono alla violenza, all’omicidio. Capita spesso, quando si legge di femminicidio, di trovare molto victimblaming – espressione con cui si indica l’identificazione della vittima di un crimine parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto. Una delle affermazioni che più spesso leggiamo, quando si parla di violenza di genere e femminicidio, è “la vittima non aveva denunciato”. Come se in fondo fossero un po’ responsabili, queste donne ammazzate, per non essersi rivolta all’autorità.

Il rapporto semestrale riferito alla prima parte del 2021, a cura del Dipartimento della Pubblica sicurezza – Direzione centrale della Polizia criminale – Servizio analisi criminale, indica un fatto, che fa sprofondare il cuore. Al 1522 – il numero del servizio pubblico anti-violenza e anti stalking – la maggior parte delle vittime dichiara di non aver denunciato la violenza. Nel 2020 il 14,2% ha sporto denuncia, il 2,7% aveva denunciato, ma ha poi ritirato la denuncia, l’83,1% non ha mai denunciato, percentuale aumentata rispetto agli anni precedenti. Ora, di fronte a questi numeri che sono impressionanti, abbiamo il dovere di chiederci quanta sia effettivamente la violenza sommersa. E di pensare che forse – forse – non è colpa delle donne se non denunciano, e invece tanta ritrosia ha le proprie cause altrove. Ad esempio, nella mancanza di formazione degli operatori e delle operatrici del diritto, del sistema giudiziario e del sistema sanitario nell’affrontare la violenza di genere in ogni sua forma: se ti aspetti di trovarti di fronte qualcuno che non ti crede, come spesso accade, se sai che gli accertamenti saranno troppo lunghi e rischieranno di metterti ancora più in pericolo, se hai anche paura di dover affrontare lo stigma e lo scetticismo altrui, oltre alla violenza che stai già subendo, non denunci. Preghi che non peggiori e basta.

Anche quando decidi di rivolgerti a qualcuno, ecco che rischia di non esserci nessuno. Questo perché, nonostante tutti i 25 novembre dal 1999 ad oggi, i finanziamenti ai Centri Antiviolenza e alle Case Rifugio continuano ad essere regolati da meccanismi poco chiari, nonché scarsi, inadeguati, costantemente oggetto di tagli e rallentamenti. Il report “Cronache di un’occasione mancata” erogato nel 2021 da ActionAid, fra le varie rivela che il Dipartimento Pari Opportunità, nell’ultimo anno, ha impiegato mesi per erogare le risorse per i Centri alle Regioni. A loro volta, a ottobre 2021 le Regioni risultano aver erogato solo il 2% dei fondi ai Centri e agli enti gestori dei servizi di prevenzione e protezione.

Dunque siamo stanche dei convegni e delle scarpette rosse. Vogliamo un sistema che riconosca il proprio dovere di formarsi per capire la violenza di genere, per affrontarla insieme a noi quando ne siamo vittima, che ci prenda sul serio prima che qualcuno ci ammazzi. Che non ci colpevolizzi persino dopo la nostra morte. Che non parli d’amore, o di sesso, o di passione in relazione all’omicidio e alla violenza – perché amore sta a femminicidio come sesso sta allo stupro, cioè zero; che invece, prenda questi fenomeni per ciò che sono: la conseguenza di un sistema patriarcale in cui le donne e le ragazze devono appartenere agli uomini e ai ragazzi. Un sistema di cui fanno parte tuttз, da coloro che le ammazzano, che le picchiano, che le violentano, come anche quello stesso sistema giudiziario che non le aiuta, su tutti i livelli.

Siamo stanche, siamo arrabbiate, vogliamo di più, qualcosa di meglio oltre i convegni, le vostre lacrime e le vostre parole, il resto dell’anno, quando il 25 novembre finisce e ricomincia la paura.

SE SEI VITTIMA DI VIOLENZA E/O STALKING, CHIAMA IL 1522 O RIVOLGITI A UN CENTRO ANTIVIOLENZA NELLA TUA CITTÀ, GLI OPERATORI E LE OPERATRICI SAPRANNO TENERTI AL SICURO

A cura di Greta Temporin

FACIAL RECOGNITION TECHNOLOGIES IN THE UK: ONE STEP FORWARD TO PREDICTIVE POLICING

‘Predictive Policing’ might sound like movie fantasy at first sight however, it shall be considered one of the latest trends within the context of the so-called ‘Surveillance Society’.

With a focus on facial recognition technologies, if you believe they are merely utilised for commercial applications that could give you ID access to your electronic device or to pass the border on automatic passport checks when you are traveling abroad, again, you are probably underestimating this issue.

What is the status of art in the United Kingdom?

First of all, let’s provide definitions of the tech tools involved.

Facial Recognition Technology (FRT): it is the process by which an individual can be identified or recognised from a digital facial image. Cameras are used to capture these images and an FRT software produces a biometric template in which the individual is aware of the process undertaken (e.g. passport control).

Live Facial Recognition (LFR) or Live Automated Facial Recognition (LAFR): it is different and is deployed in a similar way to traditional CCTV. It is directed towards everyone in a particular area rather than applied to specific individuals. Data is collected in real-time and potentially on a mass scale. There is usually a lack of awareness, choice, or control for the individual in this process (e.g. public surveillance for security purposes).

Cultural and political implications of those technologies are out of scope in this article nevertheless, I would like to raise some awareness on fundamental rights implications and civil liberties currently threatened by law enforcement data-driven practices.

Comparing different jurisdictions on law enforcement and security policies is far from easy, cultural, historical and social factors are unique variables, therefore I would like to provide a snapshot of the current state of the art in the United Kingdom. Specifically, due to the abuse of live facial recognition for public security and surveillance purposes, we can evidence serious concerns on the protection of fundamental rights, meanwhile progressively moving towards a ‘Predictive Policing’ model of law enforcement.

Case study 1: A 14 years old black schoolchild victim of live facial recognition misidentification

In May 2019, a 14 years old black school child in his school uniform was walking down the road in London to attend his classes. He was wrongly identified by a facial recognition system installed for public safety, and immediately surrounded by four undercover police officers. He was questioned, arms held, asked for his phone, and even fingerprinted. After just ten minutes, the police had to release him due to a mismatch report with another person. The child was clearly shocked by the experience, nevertheless the Metropolitan Police – even admitted FRT and LAFR raise significant issues over gender and racial bias – have continued to use it on daily operations.

Case study 2: Innocent people with mental health problems

This case takes place again in London on Remembrance Sunday in November 2017. The Metropolitan Police took advantage of a project for live facial recognition to match dataset records of ‘fixated individuals’ – differently speaking people who frequently contact public figures and are highly likely to suffer from mental illness – despite not being suspected or wanted for any criminal activity. As a result, these individuals have been ejected from the ceremony without reasonable suspicion of any unlawful behaviour, but merely based on data-driven discrimination.

Full insights on both case studies are available on the Big Brother Watch’s report.

What is the current legal framework offered by the English Legal System?

If you try to find a clear legal basis that could justify these practices under the rule of law, well you will be quite disappointed.

No doubt that’s a complex scenario. A series of different issues arise from the abuse of facial recognition technologies such as mass screening of individuals in public spaces, violation of the right to privacy, and most definitely discrimination bias between different people.

And now, the first question from any lawyer would be: what is the legislation at current disposal to justify such measures? The answer is clear: there is no straightforward legal basis for the police’s use of live facial recognition surveillance in the UK.

Note one minor but fundamental detail: one thing is a surveillance camera – as defined in the Protection of Freedoms Act 2012 – and another is Live Automated Facial Recognition (LAFR), for which there is no reference whatsoever. Also, no mention of such technology on the Data Protection Act 2018, and despite its extensive application, it does not provide a basis in law for its use.

Let’s move step by step, running through some recent key developments.

Following a written question of Layla Moran MP to the Home Office about supporting legislation on the use of facial recognition and biometric tracking, the Minister of Policing Nick Hurd MP, responded in September 2017, and I quote: “There is no legislation regulating the use of CCTV cameras with facial recognition”. Subsequently, the police have claimed that its use was guaranteed as an application of the Protection of Freedoms Act 2012 and Data Protection Act 2018, however the Information Commissioner’s Office (ICO) – the UK’s independent authority – has taken distance from such position providing a more detailed one with the Opinion 31 October 2019, Reference: 2019/01, which stresses out the above legislation cannot be considered as a blanket for any facial recognition technology application. In addition, there is an urgent need for better governance policies on the use of individuals’ personal data and data risk assessments on the technologies used, which shall be coordinated by criteria of necessity and proportionality.

Also, the Equality and Human Rights Commission has published a report in March 2020 on Civil and Political Rights in Great Britain to flag how the legal framework authorising and regulating the use of automated facial recognition is still insufficient. It seems to be exclusively based on common law powers which have no express statutory basis as just mentioned above. What is more, there is no national-level coordination, oversight, or regulatory governance to ensure these applications are compliant with data protection laws, including the General Data Protection Regulation (GDPR) in its UK GDPR version, which is still a fully binding source of law in the UK despite Brexit.

A special reference to data protection implications

Considering the human face as a form of biometric data that provides unique, in some terms permanent identification of individuals with sufficient degree of accuracy, data protection, and biometric data represents another relevant point in this discussion. More recently, the ICO has released another Opinion on the use of live facial recognition technology in public spaces in June 2021, that narrows down some key data protection issues that require urgent safeguard such as i) The automatic collection of biometric data at speed and scale without clear justification; ii) The lack of control for individuals and communities; iii) A lack of transparency; iv) The technical effectiveness and statistical accuracy of LAFR systems; v) The potential for bias and discrimination; vi) The governance of watch lists and LFR escalation processes; and vii) The processing of children’s and vulnerable adults’ data.

A milestone case law

R (Bridges) v The Chief Constable of South Wales Police is one of the leading cases with regards to the use of automated facial recognition in the UK. Mr. Bridges won his appeal in August 2020 with the Court of Appeal concluding that there is no adequate legal framework for the use of facial recognition technology.

If at the beginning of 2020 the Metropolitan Police in London was ready to launch new test trials of facial recognition technology, probably reassured by having won their case before the High Court a few months before, the Court of Appeal judgment simply flipped the coin.

The legal issue is focused on whether the current legal regime in the UK is adequate to ensure the appropriate and non-arbitrary use of LAFR in a free and civilised society. The common core was with the LAFR and its implications for privacy and data protection rights. A facial template can be considered biometrical data as an ‘intrinsically private character’ that has the capacity to identify an individual uniquely and precisely.

The Court of Appeal made a unanimous judgment, rising three main reasons where the South Wales Police’s use of LAFR technology was against the law:

  • Breach of Article 8 DPA 2018 (the right to privacy), as it is not ‘in accordance with the law’. As reported in the judgment, there are ‘fundamental deficiencies’ with the legal framework that allow too vast discretion to police personnel on how and where to use such technology
  • Breach of the DPA 2018 because it failed the data protection impact assessment (DPIA) under the combination of s.64 DPA and Article 8 implications on the use of LAFR. In a nutshell: DPIA failed to assess the risks related to the rights and freedoms of individuals, including an adequate strategy to address issues in the legal framework
  • Breach of the public sector equality duty (PSED) for lack of accuracy in the technology to identify bias by design, as the whole purpose of such regulation is ‘to ensure that a public authority does not inadvertently overlook information which it should take into account’

On the same page, note that nothing in the Court of Appeal’s judgment indicates that the use of LAFR should be considered unlawful per se. Despite its multiple misuses and potential discrimination of individuals based on sex, age, gender, or ethnicity, unlike fingerprint or DNA sample, the collection process of face recognition, in general, is not physically intrusive and so sufficiently justified for the ‘prevention and detection of crime’. In other words, until an appropriate legal framework is in place, supported by data protection impact assessment about the use of LAFR on individuals, any use of those systems is unlawful and their use must be stopped immediately.

Are we assisting to a legal ‘paradigm shift’ towards a ‘Predictive Policing’ law enforcement model for the prevention and detection of crime?

All above considered, it is crucial to provide a logical and regulatory explanation on the ratio legis behind the concept of a pre-emptive collection of data with the aim to prevent and detect crime before is committed. As evidenced by Koops, a fundamental change is now undergoing. Criminal law and law enforcement as a direct consequence is shifting from the last resort to a primary tool of social control that could be called ‘criminal risk governance’.

Let’s provide a simple example in criminal law: in the traditional paradigm, once a dead body was found, the police started looking for traces, collecting witnesses and other sources of evidence. Now, before a murder is committed, society is compelled to structure its systems in a way that, should ever a murder be committed, evidence is more likely and immediately available.

We are facing a paradigm shift. Where the current/past paradigm with regards to the use of tech tools for law enforcement was interpreted as an instrument of social control in the quality of ultima ratio, the archetype is slowly being replaced. The balance between repression v. prevention both on individuals and large groups of people is located at a continuum. In the newly evolving paradigm, criminal law is a first resort to control perceived social risks (e.g., I-led policing methods). This shift has not been completed yet, nor it is desirable, nevertheless, the reactive old algorithm is going to be replaced by the preventive one with relevant implications for regulation. As we can see, this evolution seems to be changing step by step the entire approach of criminal law enforcement into the ‘Predictive Policing’ model.

Going with the flow, particularly with the actual use of LRT or LAFR in the UK for law enforcement purposes, is justified by protecting the society common good and ensuring the highest level of security for the community, a fuzzy combination of statutory law, common law principles, case law, and governance policies are tailoring such a framework, but still threatening fundamental rights at their core.

We will stay on the lookout for the next developments.

Edited by Marco Mendola

Dona ora e sostieni il cambiamento!

Forse non riusciremo a ognuno degli innumerevoli torti che si verificano ogni giorno in ogni angolo del pianeta, però vogliamo provare a lasciare un’impronta. Vogliamo farlo un caso strategico alla volta, un diritto alla volta. E lo facciamo attraverso ciò che ci riesce meglio: il contenzioso strategico, l’advocacy e la divulgazione!

In questo percorso, ogni piccolo contributo può fare la differenza.

Il tuo può diventare uno dei tanti, fondamentali tasselli che ci aiutano nel perseguire la nostra missione.

Dona ora!

img-sostienici