Nell’agosto del 1966 Charles Whitman, tiratore scelto, dopo aver ucciso la moglie e la madre, si recò sulla torre dell’Università del Texas con una valigia piena di armi e munizioni, sparando sulla folla e causando la morte di 16 persone e il ferimento di altre 30. Dopo averlo colpito a morte, la polizia raggiunse la casa dell’assassino e trovò un biglietto, scritto dallo stesso Whitman, in cui si autoaccusava della morte della coniuge e della madre, sostenendo quanto difficile fosse per lui darsi una spiegazione razionale di quello che gli stava capitando: si sentiva sopraffatto da pensieri ed impulsi violenti che cercava di domare senza successo.
L’autopsia effettuata sul corpo dell’ex marine rilevò la presenza di un glioblastoma che comprimeva l’amigdala, motivo per il quale, secondo molti neurologi, Whitman si sarebbe trasformato da cittadino modello in uno dei peggiori assassini americani.
Ad oggi, la ricerca scientifica ha dimostrato come anomalie cerebrali, quali lesioni e patologie, possano influenzare il comportamento dell’uomo e il suo grado di consapevolezza rispetto allo stesso. E allora, quanto siamo responsabili di ciò che facciamo? Le azioni che mettiamo in atto sono realmente guidate dalle nostre intenzioni consapevoli?
L'immagine manifesta dell’uomo razionale, consapevole e intenzionalmente agente dei propri comportamenti impiegata dal diritto, incontra oggi un ostacolo posto dal grande sviluppo che stanno conoscendo le neuroscienze.
La credenza che tutti gli esseri umani siano individui che possiedono ampie capacità di riflessione e decisione rispetto alle proprie condotte è largamente diffusa per diversi motivi. Innanzitutto, generalmente, intratteniamo relazioni con persone che non presentano deficit o patologie gravi, e questo fatto rende maggiormente generalizzabile la suddetta concezione dell’uomo. Inoltre, lo sviluppo di un’idea dell’essere umano riconducibile a quella della psicologia di senso comune parrebbe essere collegato alla necessità di possedere una conoscenza generale dell’ambiente in cui ci siamo evoluti: assumere di essere tutti uguali e, quindi, di comprendere scopi ed intenzioni dei nostri simili è ciò che, in buona sostanza, ci permette di vivere in gruppo cooperando e, quindi, di fronteggiare efficacemente le sfide che ci vengono imposte dal nostro habitat.
Con il progresso scientifico, tuttavia, si fa largo un’immagine più scientifica dell’uomo, che nasce dall’integrazione di teorie sperimentali fisiche, psicologiche, fisiologiche, genetiche e così via.
Le evidenze empiriche che contrappongono le due concezioni dell’uomo, quella scientifica e quella legata al senso comune, mettono in crisi la sostenibilità di quest’ultima e lo fanno ritrattando su diversi punti, quali lo statuto della mente, il funzionamento del cervello e le anomalie cerebrali. In sintesi, con il superamento del dualismo cartesiano, la mente non viene più considerata come res cogitans rigidamente distinta dall’extensa, ma come una funzione, un software, implementata sul cervello. Inoltre, le assunzioni di base dell’immagine manifesta quali, ad esempio, quelle riguardanti l’assunzione che tutti gli uomini sarebbero dotati di libero arbitrio ed intenzionalità consapevole, vengono messe in crisi dalle evidenze neuroscientifiche che dimostrano quanto patologie, anomalie e lesioni cerebrali siano in grado di influenzare il grado di consapevolezza che normalmente dovrebbe guidare il corso del nostro comportamento.
Oltre a ciò, abbandonando il campo della patologia, altri risultati sperimentali dimostrano che l’autocoscienza non renderebbe il soggetto consapevole delle sue azioni nel momento in cui le compie quando ci viene chiesto di spiegare le ragioni del nostro comportamento, il resoconto introspettivo che forniamo sembra essere una giustificazione costruita a posteriori, senza tener conto di ciò che è effettivamente avvenuto a livello cerebrale. Gli esperimenti in materia di movimento volontario e intenzione cosciente, condotti dal neurofisiologo Benjamin Libet su soggetti sani, hanno dimostrato che il nostro cervello fa in modo che il nostro organismo si prepari ad eseguire un’azione molto prima che il soggetto agente divenga consapevole del voler fare un certo movimento.
A questo punto ci domandiamo, quale sarà l’impatto che le neuroscienze avranno sul diritto? L’immagine scientifica dell’uomo sarà in grado di influenzare la sussistenza della suitas? Quali saranno le ricadute sugli istituti di colpevolezza ed imputabilità?
L’integrazione dei due ambiti di studio potrebbe mettere seriamente in crisi due assunti fondamentali degli ordinamenti giuridici (perlomeno di quelli occidentali): la concezione retributiva della pena, per cui si ritiene opportuno infliggere al reo una punizione proporzionata al fatto commesso, e il concetto di mens rea che, nel nostro ordinamento, riprende la concezione dell’uomo adottata dalla psicologia del senso comune. I due assunti appaiono fortemente interrelati in quanto il fatto che un individuo abbia la possibilità di assumere una mens rea, e quindi sia sempre intenzionalmente consapevole di arrecare danni ad altri, giustifica l’idea di retribuzione per il reato commesso.
Le neuroscienze cognitive mettono in crisi entrambe le assunzioni, e lo fanno dimostrando l’insostenibilità della concezione secondo la quale l’uomo sarebbe sempre e comunque in grado di essere un agente libero, razionale e capace di agire spinto da motivazioni consapevoli. I recenti sviluppi apportati dalla disciplina del neurodiritto, ad esempio, stanno determinando una nuova modalità di approccio alle scienze giuridiche, asserendo che, nella comprensione del comportamento umano in ambito giudiziario, l’ordinamento non dovrebbe prescindere dall’osservanza di alcune tesi fondamentali, le quali postulano, ad esempio, che il cervello è il livello più rilevante a cui far risalire le motivazioni del dispiegamento di una certa azione, e che i fenomeni di violenza criminale possono sorgere, in modo causale, da anomalie cerebrali specifiche e, quindi, sono spesso commessi da persone biologicamente diverse dalle persone “normali”.
In alcuni casi, comportamenti aggressivi ed impulsivi possono essere causati da lesioni cerebrali: famoso è il caso di Phineas Gage, operaio statunitense vissuto nell’800 che, dopo un incidente in cui il suo cranio venne perforato da un’asta di metallo, fu vittima di un repentino cambio di personalità. A causa della lesione cerebrale a livello delle zone frontali Gage, da uomo onesto e disponibile qual era divenne, d’improvviso, una persona scorbutica, disinibita e impulsiva.
In altre situazioni, gli stessi comportamenti potrebbero risentire dell’influenza di anomalie genetiche. Ad esempio, in certi tratti caratteriali e profili di condotta, diversi studi hanno rilevato la presenza di alterazioni geniche responsabili della mancata degradazione di alcuni neurotrasmettitori, che causerebbe un’iperattivazione di aree quali l’amigdala e l’ippocampo, seriamente coinvolte nelle risposte emozionali, ed un’ipoattivazione di aree corticali frontali deputate al controllo dei comportamenti impulsivi.
E non finisce qui: come l’epigenetica ci insegna, il nostro patrimonio genetico parrebbe essere fortemente influenzato anche dalle circostanze ambientali in cui cresciamo, per cui il nostro DNA può risentire di alterazioni non solo congenite ma anche causate dal contesto sociale in cui viviamo. I geni, quindi, giocano un ruolo importante sullo sviluppo del comportamento umano ma, nonostante le evidenze scientifiche in merito siano sempre più numerose, resta da considerare il fatto che il rapporto tra geni e comportamento non segue la regola dell’allelia multipla bensì quella della pleiotropia: in sostanza, non possiamo dare per assodato il fatto che un singolo gene codifichi per un singolo comportamento, perché ciò che realmente avviene, spesso, è che ogni gene può codificare per aspetti diversi di un fenotipo.
Senza contare che le anomalie genetiche rappresentano solo un fattore di vulnerabilità rispetto allo sviluppo di un dato carattere e non un causatore diretto dello stesso: per intenderci, ad esempio, la depressione è spesso associata ad un’anomalia del gene che codifica per il trasportatore della serotonina, ciò però non significa che tutti i soggetti portatori dell’allele corto svilupperanno necessariamente uno stato depressivo, ma solo che il rischio sarà più alto e quindi più influenzabile dalle circostanze di vita.
In definitiva, quindi, quale sarà la domanda più appropriata da fare in sede di giudizio? Forse, chiedersi se il soggetto in questione sia imputabile o colpevole non è sufficiente: è stato lui o il suo cervello? È stato lui o sono stati i suoi geni? O il modo in cui è stato cresciuto?
Non sappiamo con certezza se le neuroscienze soppianteranno definitivamente le scienze giuridiche ma, di sicuro, rappresenteranno un utile sostegno nel processo che porterà ad una più esauriente comprensione della condotta umana. E puntualizziamo che comprendere in modo più profondo la natura del comportamento non significa perdonare o lasciare impunito chi mette in pericolo la società, ma rendere tutti più consapevoli del fatto che “(..) se può sembrare disumanizzante sottoporre a cure e isolamento le persone come fossero automobili guaste, questo atteggiamento può essere più umano che non il fatto di cercare di renderle morali trattandole quali peccatori attraverso il giudizio e la sanzione.” (Lavazza e Sammicheli, 2012).
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