La normativa italiana ed europea è concorde nel riconoscere come richiedente asilo l’individuo che abbia manifestato la volontà di richiedere protezione internazionale in qualsivoglia forma. In una recente sentenza, La Corte di Cassazione riporta l’attenzione su questo principio fornendo una solida base per contrastare la prassi illegittima che vede il riconoscimento dello status di richiedente asilo solo successivamente alla formalizzazione della domanda di protezione.
Il 17 settembre 2020 la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi (dopo una sentenza emessa nel 2009) su quale sia il momento a partire dal quale un cittadino straniero sia considerabile richiedente asilo. La pronuncia arriva in risposta al ricorso contro il provvedimento prefettizio di espulsione emesso nei confronti di un cittadino tunisino che nel 2017 aveva manifestato, tramite PEC, la volontà di richiedere protezione internazionale. A questa richiesta però, contrariamente a quanto stabilito dalla legge italiana, non era seguita la formalizzazione della domanda di protezione da parte della Questura competente.
In mancanza di tale formalizzazione e dell’impossibilità quindi, a suo giudizio, di considerare il cittadino tunisino effettivamente un richiedente asilo, il giudice di pace aveva convalidato l’espulsione non avendo riconosciuto alcun impedimento ostativo alla convalida dello stesso.
La Corte di Cassazione, però, accoglie il ricorso annullando di fatto gli effetti del decreto di espulsione pendente sul destinatario. La sentenza, infatti, riafferma l’incontestabile diritto proprio di un cittadino straniero che si sia introdotto clandestinamente in Italia, di richiedere protezione internazionale.
Nonostante la presenza irregolare in Italia figuri come uno dei fattori giustificatori di un allontanamento dello straniero irregolarmente soggiornante, l’Art. 4 d.lgs. 142/2015 (recepente la c.d. Direttiva Accoglienza 2013/33 dell’UE) impone il rilascio di un permesso di soggiorno (c.d. permesso di soggiorno per richiesta asilo) allo straniero che abbia chiesto protezione internazionale e che sia in attesa della decisione da parte della commissione territoriale (unico soggetto deputato a verificare le condizioni di ammissibilità e fondatezza della richiesta di protezione).
Può la mera manifestazione di volontà risolversi in una condizione di inespellibilità del cittadino che l’ha inoltrata?
La normativa europea in materia, e di riflesso quella italiana che la recepisce, scompone il processo di attribuzione dello status di richiedente in due fasi: la manifestazione della domanda e la formalizzazione della stessa. Quest’ultima è senza dubbio successiva alla prima. L’ Art. 26 c. 2 bis d.lgs. 25/2008 (recepente la c.d. Direttiva Procedure 2013/32), infatti, specifica che la redazione di tale documento debba avvenire entro tre giorni dalla presentazione della domanda collocandola, di fatto, in un periodo di tempo successivo alla manifestazione di volontà.
Stando alla definizione data all’ Art. 2 c.1 lett. a d.lgs. 142/2015 (recepente la c.d. Direttiva Accoglienza 2013/33), un richiedente asilo si configura anche come colui che ha manifestato la volontà di richiedere protezione internazionale.
Tale qualifica non discende quindi esclusivamente dalla formalizzazione della domanda.
La Corte di Cassazione ha quindi specificato come un’inadempienza amministrativa non possa giustificare la disposizione di un’espulsione del cittadino straniero che abbia provveduto a manifestare la propria volontà di richiedere protezione. Nel caso in oggetto, la PEC inoltrata dal nazionale tunisino si risolve a tutti gli effetti in una manifestazione di volontà dal momento che né la normativa italiana né quella europea richiedono che questa sia espressa in una forma particolare.
Di conseguenza, la mera manifestazione risulta essere sufficiente ad identificare un soggetto come richiedente asilo e pertanto inespellibile dal territorio italiano ai sensi del sopra citato articolo 4 d.lgs. 142/2015. Ne consegue che la convalida di un decreto di espulsione sulla base della mancata registrazione della domanda di asilo (derivante, tra l’altro, da una mancanza organizzativa degli enti preposti a tale compito) sia a tutti gli effetti illegittima dal momento che è un diritto del richiedente asilo - in quanto colui che ha manifestato la volontà - soggiornare sul territorio italiano fino alla decisione della commissione competente sulla propria domanda.
La sentenza della Corte è significativa perché si offre come nuovo tentativo di arginare la sempre più consolidata prassi del non riconoscere “al momento giusto” i richiedenti asilo, comportando una chiara violazione dei diritti spettanti loro ancor prima che la loro richiesta venga registrata.
Inoltre, è decisamente rilevante anche se si pensa alla prassi adottata con sempre maggior frequenza nelle zone di frontiera come negli Hotspot. In questi ultimi, i richiedenti vedono spesso la propria volontà di richiedere asilo inascoltata o arginata tramite, per esempio, l’utilizzo, da parte della pubblica amministrazione, di documentazione interamente in italiano (il c.d. foglio notizie) che di fatto impediscono l’accesso al diritto d’asilo sancito, peraltro, dall’ Art. 10 della Costituzione italiana.
A cura di Maria Giulia Marinari
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