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CAPORALATO NAZIONALE

Ci siamo già occupati del caporalato 2.0 - qui per l’articolo di ottobre - fenomeno nuovo ma, tuttavia, non imprevedibile. Torniamo, invece, oggi, ad occuparci del caporalato “classico”, quello che colpisce, principalmente persone in difficoltà economica, in particolare le persone immigrate.



Non è una novità che vi siano individui sottoposti a condizioni lesive non solo (e non tanto) dei diritti legati al lavoro, quanto della loro dignità umana. Spesso scorrono, fra le notizie, casi di datori di lavoro che impongono orari estenuanti ai propri dipendenti, sottopagandoli e imponendogli condizioni alloggiative al limite dell’umano. È invece, forse, almeno una mezza novità che di certi luoghi di lavoro si parli in regioni come il Veneto o il Trentino. Anzi, l’immaginario collettivo, quando pensa al reato di caporalato, lo associa alle piantagioni del Sud, tendenzialmente a uomini di colore che raccolgono pomodori per pochi euro all’ora sotto al sole del meridione; non crede, invece, che le stesse condizioni si ripetano, quasi uguali, al Nord.


C’è la tendenza a credere che certe situazioni non possano ripetersi in regioni “avanzate” come quelle nordiche, che il caporalato sia stato (e rimanga) un problema meridionale, delle regioni più “retrograde” e non, invece, un veleno che affligge l’Italia tutta, da Nord a Sud, dalle imprese occupate nella produzione di prodotti per l’editoria alle piantagioni di pomodori.

A tal proposito, prima di entrare nel vivo dei racconti di vita quotidiana di chi è vittima di caporalato, appare giusto riportare, seppur brevemente, cosa s’intenda, a livello normativo, con il reato di caporalato.


Il codice penale non conosce un reato di caporalato, o meglio, lo conosce ma lo chiama “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” al suo art. 603 bis c.p. Il reato è quindi inserito nel capo dei delitti contro la persona, al titolo XII del libro secondo del codice. L’art. 603 bis cp si apre con una clausola di residualità, per cui il reato di c.d. caporalato si applica solo laddove non sia applicabile un reato più grave, quindi, solo dove i fatti di volta in volta in considerazione non siano sussumibili in ipotesi più gravi. La norma punisce la condotta di chi assuma (o comunque in altro modo impieghi) manodopera sottoponendola a condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno della stessa, nonché chi utilizza o comunque impiega manodopera in condizioni di sfruttamento e o il ricavare profitto dallo stato di bisogno anche tramite intermediazione altrui.


Il secondo comma dell’articolo, poi, elenca una serie di indici che sono idonei a costituire sfruttamento del lavoro e tra cui si rinviene la corresponsione di una retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali ovvero, comunque, sproporzionata rispetto alla qualità e alla quantità; la reiterata violazione della normativa in tema di orario di lavoro e periodi di riposto (anche settimanale e feriale); la violazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e la sottoposizione a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianze e situazioni alloggiative degradanti.


Infine, l’ultimo comma della norma riporta alcune aggravanti, quindi delle circostanze che, se sussistenti, sono idonee a determinare un aggravamento della pena.


Il delitto di caporalato è quindi volto a punire l’imposizione di condizioni di lavoro e/o di alloggio che siano riconducibili ad uno sfruttamento eccessivo (e disumano) di chi lavora. L’art. 603 bis cp è da leggersi come una conquista di civiltà giuridica laddove riconosce e punisce il trattamento indegno che viene spesso riservato ai lavoratori.


Tuttavia, al di là di quanto viene previsto a livello normativo, spesso, le vittime di caporalato sono individui che, per le più disparate ragioni (paura di possibili ritorsioni, necessità di guadagnare anche solo quel poco che gli viene concesso), non sono propensi a denunciare i propri datori di lavoro. In tal senso, infatti, come anticipato, la maggior parte delle vittime di caporalato è costituita da persone immigrate. Individui che, ancora prima, sono vittime di un sistema socioculturale ancora troppo ostile all’accoglienza dello straniero, un sistema che tende a vedere, negli immigrati, più un problema da risolvere che delle vite da salvare.


Proprio alla luce delle difficoltà sofferte dalle vittime di caporalato è fondamentale creare una rete di sostegno quando chi è protagonista di determinate storie decide di iniziare a raccontare, anche solo cerca di condividere la propria storia.


A tal fine abbiamo quindi deciso di raccontare due storie (tanto simili quanto diverse) di caporalato, l’una avvenuta a Foggia e l’altra, tra il Veneto e il Trentino.


È d’inizio dicembre la notizia dell’apertura di un’indagine per caporalato a Foggia mentre dell’estate quella di una stessa indagine aperta tra il Trentino e il Veneto. Le vicende sono, per molti versi, simili, per altri, forse, distinte e distanti. Tuttavia, al di là delle differenze che si cercheranno, seppur superficialmente, di evidenziare nel proseguo del presente contributo, rimane un nucleo centrale d’indignazione e critica sociale che si ritiene accomuni la vicenda degli agricoltori foggiani e quella degli imprenditori nordici.


In questo senso, infatti, in entrambi i casi ci si trova di fronte a gruppi di persone (ci si scusa per non definirli lavoratori ma il lavoratore, per sua definizione, gode di una serie di tutele e garanzie che laddove sono completamente assenti non si ritiene si possa definire tale) sottoposte a orari di lavoro estenuanti, a una paga misera e a condizioni alloggiative al limite del sopportabile.


Nel primo caso, quello foggiano, avviene a Borgo Mezzanone, centro nevralgico del caporalato agricolo dove vi è una nota baraccopoli che “accoglie” più di duemila braccianti extracomunitari in condizioni igienico sanitarie precarie. Lì, i lavoratori (principalmente persone immigrate dal continente africano) venivano pagati 5 euro all’ora per raccogliere pomodori, olive, frutta: 5 euro per ogni cassa che riuscivano a riempire con il raccolto. L’orario di lavoro era semplice da capire e ricordare: lavoravano dalla mattina alla sera, viaggiando anche nei bagagliai delle macchine per arrivare sul luogo del lavoro.


Nel secondo caso, invece, i lavoratori, sempre accolti in abitazioni che accoglievano più di venti persone alla volta in condizioni igieniche e sanitarie tutt’altro che ammirevoli, venivano regolarmente assunti con contratti di lavoro part/full time ma si trovavano costretti, nonostante l’inserimento regolare, a lavorare per molte ore consecutive, senza la possibilità di alcuna pausa, senza ferie e con una retribuzione di pochi euro giornaliere. Ancora, quando a maggio alcuni lavoratori avevano portato delle dimostranze per le condizioni in cui venivano costretti, erano stati aggrediti da alcune squadre di picchiatori assunte dai gestori dell’organizzazione illecita che volevano riportare l’ordine fra i propri schiav… lavoratori.


Entrambe le vicende si pongono come esemplificative di come il problema dello sfruttamento del lavoro non sia (più) regionalmente orientato. Seppur, infatti, il caporalato c.d. agricolo è quello più tradizionale (ma non necessariamente il più comune), il caso avvenuto tra Veneto e Trentino è la dimostrazione come anche le industrie del Nord (meno propense all’agricoltura e più improntate a produzioni di tipo industriale) possano tendere a imporre condizioni lavorative irrispettose della dignità umana. Il caporalato “industriale” è, forse, solo più ben nascosto (vi erano, infatti, ordinari contratti di lavoro part o full time in essere tra datore di lavoro e vittime) ma, nella sostanza, rimane costruito sullo stesso impianto fattuale di quello agricolo: orari di lavoro estenuanti, retribuzione eccessivamente sproporzionata alla quantità, qualità del lavoro e condizioni di alloggio al limite del sopportabile.


I tre aspetti del caporalato che si sono, per ora, affrontati (partendo da quello della gig economy per arrivare al caporalato industriale, passando per quello agricolo) sono fenomeni da contrastare, avendo sempre in mente la tutela dei diritti fondamentali prima di quella della produzione o, peggio, del fatturato.


A cura di Carlotta Capizzi

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