Con la sentenza n. 29460/2019 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sul decreto sicurezza e immigrazione, “decreto Salvini”, un gentile omaggio del Capitano (grazie, non aspettavamo altro!) che introduce nel nostro ordinamento novità delicatissime come il raddoppio dei tempi di detenzione degli irregolari, l’inasprimento delle misure in materia di Daspo urbano e l’abolizione della protezione umanitaria.
Ecco, proprio su quest’ultima brillante iniziativa la Suprema Corte ha detto la sua, riguardo a un caso di competenza del Tribunale di Trieste. La storia è questa: tre ragazzi, un bengalese e due gambiani, richiedono il permesso di soggiorno umanitario per motivi di lavoro, studio e “pericolo generico nel paese d’origine”. La Commissione Territoriale fa spallucce e i tre portano il caso in Tribunale. La Corte d’Appello dà loro ragione, ma la decisione viene annullata con rinvio dai giudici di Cassazione.
Festa grande a casa Salvini, chiaramente: avuta notizia della sentenza, l’ex ministro non ha saputo trattenere l’entusiasmo e ha dichiarato che “sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”.
Però, le cose non stanno proprio così: se è vero che la Cassazione non ha accordato il permesso ai richiedenti, è altrettanto vero che i giudici hanno motivato la decisione con ragioni non esattamente salviniane.
In primo luogo la Corte ha stabilito che, per il principio d’irretroattività, il decreto del Capitano non può essere applicato alle richieste presentate prima del 5 ottobre 2018, data della sua entrata in vigore. E meno male, perché fra le prime conseguenze del decreto si è visto come le Commissioni Territoriali, appoggiate dal Ministero dell’Interno, avevano di fatto smesso di valutare le richieste di protezione umanitaria. Risultato? Un impressionante calo delle concessioni, ad oggi pari all’1%. Finita la pacchia!
Già, peccato che ora, grazie all’intervento della Corte, chi si è visto chiudere la porta in faccia in virtù di una legge inapplicabile, potrà giustamente pretendere il riesame della sua domanda.
Per quanto riguarda poi le condizioni necessarie per ottenere la protezione, va detto che sul punto le nostre aspettative vengono un po’ deluse: rifacendosi alla storica sentenza n. 4455/2018, la Corte ha confermato che bisogna bilanciare l’integrazione del soggetto in Italia con la “specifica compromissione” dei diritti umani a cui sarebbe sottoposto nel proprio Paese. Insomma, vivere, studiare e lavorare in Italia non è ancora abbastanza per aggiudicarsi il permesso.
Peccato, sarà per la prossima volta (speriamo); nel frattempo, mandiamo bacioni consolatori all’ex ministro confidando che, avendo finalmente decifrato l’oscuro testo della sentenza, abbia capito che c’è poco da festeggiare.
Dai Matte' non te la prendere, l’importante è crederci sempre!
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