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Donne e migrazioni

Aggiornamento: 29 apr

In una realtà ancora fortemente patriarcale come quella in cui viviamo, il dibattito sulle donne migranti si è manifestato per la prima volta negli anni Settanta del Novecento. L’osservazione dei processi migratori femminili ha tuttavia portato ad una più ampia riflessione sulle logiche di sfruttamento economico, politico e sociale del sistema capitalista.


Gli anni Settanta, nel mondo occidentale, furono caratterizzati dall’emergere di movimenti femministi della seconda ondata, movimenti di rivendicazione fondati principalmente sulla liberazione delle donne dalle dinamiche patriarcali. Le femministe si batterono, tra le tante cose, per il diritto all’aborto, per una sessualità consapevole e sicura e per potersi emancipare dai loro mariti e compagni dal punto di vista economico.


Ciò comportò un aumento, negli anni successivi, di donne che entrarono attivamente nel mercato del lavoro, nonostante le possibilità di carriera e di guadagno fossero, e siano ancora oggi, notevolmente ridotte rispetto a quelle degli uomini. Pur non volendo, fornirono al sistema capitalista una nuova modalità di sfruttamento della forza lavoro a basso costo.

Ma le conseguenze dell’apertura del mercato lavorativo alle donne occidentali sono anche altre: l’ambiente domestico resta abbandonato, le donne non hanno più la possibilità di occuparsi dei bambini e degli anziani di famiglia a tempo pieno e hanno bisogno di qualcuno che le sostituisca.


Nasce, tra gli anni Ottanta e Novanta, quella che verrà definita dagli studi sociali la catena della cura, un movimento migratorio tutto al femminile che comporta l’arrivo di donne migranti in Europa e Stati Uniti.


L’Italia in particolar modo accoglierà in un primo momento donne provenienti soprattutto dalle Filippine e, successivamente, dall’Europa dell’est, dall’America Latina e dall’Africa sub-sahariana. Per la prima volta nella storia si verifica un fenomeno di migrazione di massa con protagoniste le donne; non sono più gli uomini a fungere da apri-pista, a trasferirsi altrove per lavoro nell’attesa di trasferire anche i propri cari attraverso pratiche di ricongiungimento familiare.


Le donne in questione si ritroveranno a ricoprire un ruolo sociale del tutto nuovo. Da un lato la migrazione permette loro di emanciparsi dal ruolo di mogli e madri, potendo dimostrare ai loro mariti di essere perfettamente in grado di occuparsi anche economicamente della propria famiglia, dall’altro il loro soggiorno all’estero si rivela spesso molto più lungo del previsto, finendo per causare ripercussioni negative sulle proprie relazioni familiari, specialmente quelle con i figli che si lasciano dietro.


Tuttavia, la loro emancipazione risulta fittizia nel momento in cui approdano nel paese d’arrivo. Si ritrovano infatti, una volta sistemate, a ricoprire nuovamente quei tradizionali ruoli di cura assegnati alle donne, sostituendo le donne europee che ora si dedicano alla carriera.


I processi migratori femminili permettono inoltre al sistema capitalista di acquisire nuova forza lavoro da sfruttare, senza per questo doversi far carico dei costi di mantenimento delle stesse: la formazione di queste donne avviene, infatti, nei paesi di origine e si trasferiscono in Europa solo nel corso della vita lavorativa, per poi fare ritorno in vecchiaia nella terra natia.


Durante il loro soggiorno in Europa, queste donne si relazionano con differenti forme di discriminazione che si sviluppano sulla linea dell’intersezionalità, concetto accuratamente definito dalla giurista Kimberlé Crenshaw nel corso degli anni Ottanta (il termine “intersezionalità” descrive la sovrapposizione -o "intersezione"- di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni). Essere donna non implica per tutte la stessa cosa, i livelli di subordinazione a cui si è sottoposti sono da valutare anche in relazione alle altre caratteristiche identitarie, quali colore della pelle, etnia, condizione economica.


Le donne migranti della catena della cura risultano dunque discriminate su più fronti, vengono incasellate nelle etichette di donne di casa e di madri, la loro intera esistenza sembra ridotta alla sola condizione lavorativa in cui si trovano in quel momento. Identificate spesso come vittime, non vengono valutate le loro capacità e conoscenze in altri ambiti, non viene permesso loro di avere una propria vita privata. Costrette dal nuovo sistema a vivere in casa delle persone per cui lavorano, spesso senza nemmeno una propria stanza o senza poter invitare a casa amici o partners.


Donne che vivono nell’attesa di risparmiare una somma di denaro sufficiente per fare ritorno al proprio paese, ma che spesso non riescono nell’impresa. E quando ci riescono, affrontano la difficoltà di doversi reintegrare in un ambiente sociale e familiare che spesso trovano cambiato o che non le riconosce.


Tale fenomeno rappresenta, secondo alcuni, un fallimento delle teorie femministe: le donne europee hanno agito e parlato solo per sè stesse, hanno ottenuto il diritto di lavorare fuori casa, ma a discapito di altre donne. La vera conquista femminista avrebbe dovuto essere quella di mettere in discussione il ruolo degli uomini all’interno della società, dividendo con loro il peso del lavoro domestico. I ruoli maschili risultano invece invariati e con loro l’intero sistema patriarcale.



A cura di Luisa Ruffa

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