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IL CAPORALATO DELLA GIG ECONOMY

Aggiornamento: 29 apr

Ci sono realtà che, di per sé, sembrano nate per essere dibattute. Una di queste è quella dei cosiddetti riders, i lavoratori che sfrecciano sulle loro biciclette per portare il cibo ordinato a domicilio a casa. I riders fanno parte della “gig economy” (l’economia dei lavoretti che dovrebbe essere incentrata su occupazioni saltuarie e non particolarmente invasive del tempo e delle energie del lavoratore, parte di quel modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo e non su prestazioni lavorative stabili e continuative) ma sono spesso sottoposti a condizioni che poco spartiscono con il concetto di “lavoretto”, costretti a lavorare per molte ore, in condizioni disagevoli e per paghe misere.


Sono incessanti, quindi, i temi di discussione che orbitano intorno alla realtà di questa specifica categoria di lavoratori. Se (sembra) essersi superato lo stigma etico morale che inizialmente accompagnava i riders, molti rimangono i ragionevoli dubbi nei confronti, anche, delle condizioni lavorative in cui questi sono obbligati a lavorare.


Se le problematiche laburistiche sono molte ed eterogenee, ci sono alcuni aspetti delle condizioni lavorative dei riders che impongono riflessioni sulla liceità delle condizioni lavorative in cui, sovente, questi sono costretti a lavorare. Vi sono dei limiti, infatti, che, se superati, fanno inesorabilmente scivolare i diritti dei lavoratori da posizioni tutelabili attraverso il ricorso al giudice del lavoro (quindi a un giudice, comunque, civile) a diritti tutelati (e tutelabili) attraverso il ricorso al giudice penale. Labile è, infatti, il confine fra condizioni di lavoro difficili (ma lecite) e condizioni insostenibili e, quindi, integranti il reato di c.d. caporalato da parte del datore di lavoro.


Quest’ultimo (tecnicamente “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) punisce sia chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori” che chi “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l'attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Ai sensi dello stesso articolo sono indici di sfruttamento:

“1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all'orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all'aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.”


In sintesi, quindi, sono indice di sfruttamento la continua corresponsione di retribuzioni che siano palesemente difformi dai contratti nazionali o, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro e ai riposi, la violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, nonché la sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o situazioni alloggiative degradanti.


Una prima lettura, anche superficiale, del reato di caporalato è già sufficiente a suggerire come le condizioni lavorative dei riders possano essere agevolmente ricomprese nel novero di quelle incriminate dalla norma. Questi sono, infatti, famosi per lavorare anche molte ore per una paga misera ed essere spesso privati delle mance loro date, sfruttati in ogni modo al solo fine di ottimizzare il servizio delle piattaforme digitali per cui lavorano.

Fino a pochi giorni fa sembrava difficile riuscire a veder riconosciuta l’illegalità delle condizioni lavorative dei riders da un giudice. I Tribunali sembravano sordi alla piena comprensione del disagio esistenziale dei lavoratori i quali, spesso, al pari dei manovali assunti per raccogliere pomodori nel sud Italia, sono individui emarginati socialmente, facili da sottomettere e da controllare. Tuttavia, il panorama giurisprudenziale relativo allo sfruttamento dei riders ha avuto una svolta con una recente pronuncia del Giudice per l’Udienza Preliminare di Milano, dott.ssa De Pascale, la quale ha riconosciuto, per la prima volta, in capo a un intermediario della filiale italiana di Uber Eats, la responsabilità penale per il reato di caporalato.


Ancora, la stessa Giudice ha convertito un sequestro di 500 mila euro in contanti (disposto durante le indagini) in un risarcimento danni di 10 mila euro per tutti i 44 fattorini costituitisi parte civile nel processo, nonché 20 mila euro di risarcimento alla Cgil e alla Camera del Lavoro di Milano.


La pronuncia risulta particolarmente interessante per una serie di circostanze che la rendono, a suo modo, innovativa e, si spera, precursora di un nuovo indirizzo giurisprudenziale che tuteli (anche) i lavoratori dell’economia digitale, ancora troppo spesso parte di un’economia ignorata dalla giustizia.


In primo luogo, la sentenza milanese è, come anticipato, la prima condanna per caporalato a favore dei riders, i quali per la prima volta, si vedono riconosciuto il loro diritto a non essere sottoposti a condizioni lavorative deprimenti per la loro dignità umana.


In secondo luogo, poi, si è finalmente avuta la dimostrazione di come anche i “lavoretti” necessitino di protezioni e tutele (anche giuridiche) al pari dei lavori continuativi e non occasionali, soprattutto laddove i “lavoretti” di diminutivo abbiano solo il nome ma si configurino come mestieri tedianti per l’equilibrio psicofisico del lavoratore stesso.


Insomma, si spera che questa prima sentenza sia solo il punto di partenza per una giurisprudenza illuminata in grado di riconoscere e tutelare i diritti dei lavoratori (tutti).



A cura di Carlotta Capizzi


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