È di qualche settimana fa l’ordinanza del sindaco di Terni che vieta un “abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo ovvero di mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione”.
L’ordinanza è stata interpretata dai più come un divieto di indossare minigonne e scollature importanti, quindi come volta a vietare (alle donne) di vestirsi come vogliono, nonché come obbligo di vestirsi in modo da non attirare l’attenzione altrui. Il testo dell’ordinanza si è, quindi, ben prestato ad essere identificato come capro espiatorio di una politica locale (ma spesso anche nazionale) ancora dallo stampo maschilista e patriarcale, anche alla luce di quanto riferito dallo stesso sindaco di Terni a seguito della pubblicazione dell’ordinanza e delle conseguenti critiche che questa ha attirato.
Il sindaco ha sostenuto che il testo dell’ordinanza non fosse volto a vietare alcun tipo di abbigliamento ma, meramente, a fornire alle forze dell’ordine “uno strumento per intervenire e impedire fenomeni odiosi come lo sfruttamento della prostituzione", tuttavia, ci si chiede se la lotta alla prevenzione e alla repressione dello sfruttamento della prostituzione debba partire (o anche solo passare) dalla censura di determinati capi di abbigliamento, quelli, appunto, indecorosi o indecenti (non è questo il luogo e il tempo per sindacare, invece, la stessa criminalizzazione dello sfruttamento della prostituzione o della prostituzione in sé, legale in altri Paesi). In questo senso si ritiene quindi di evidenziare come, da un lato, la definizione di cosa sia indecoroso o indecente sia rimessa al tempo e allo spazio (abbigliamenti indecorosi anni fa, oggi, risultano accettabili e lo stesso si può dire per capi un tempo indecenti) e, dall’altro, come il portare un vestito corto nulla (o poco) dica sulla persona che indossa quel vestito.
Allo stesso tempo, la lettura dell’ordinanza non può che suggerire come vengano vietati tutti quegli abbigliamenti che lasciano scoperto il corpo. Abbigliamenti che, come noto, sono identificabili (anche) nelle gonne particolarmente corte, in magliette, top o body con scollature importanti, in quanto abiti che lasciano intravedere ampie porzioni di corpo (che rimane, quindi, nudo). Sostanzialmente, quindi, viene inibito alle donne di indossare tutti quegli abiti che potrebbero lasciarle scoperte, impedendo quindi la possibilità per le stesse di esprimere la propria personalità attraverso gli abiti. Il comune sembra volere i suoi abitanti vestiti in modo austero, composto e, aggiungo io, forse, li vuole anche un po' noiosi, grigi.
Ancora una volta l’attenzione al corpo delle donne appare fuori luogo e impregnata di una mentalità maschilista, patriarcale e, francamente, anche un po' retrograda. L’intero testo dell’ordinanza non è condivisibile laddove traccia una connessione univoca fra un abbigliamento provocante e l’esercizio della prostituzione, quasi a suggerire che se s’indossa una minigonna, una scollatura o qualcosa di simile, sia lecito dedurre che la persona stia esercitando il mestiere più antico del mondo, quasi a evidenziare che “una donna per bene” non indossa minigonne o scollature. E invece.
Invece la storia della minigonna è lunga, complessa e rappresenta, da sempre, un simbolo di emancipazione femminile (e non solo). La minigonna appare, la prima volta, nei primi anni sessanta a seguito della richiesta delle donne londinesi di poter indossare una gonna più corta di quelle tradizionali e che potesse lasciare loro maggiori possibilità di movimento. Successivamente, già negli anni ’70 si passò dall’idea della minigonna come simbolo di emancipazione della donna (finalmente libera nei movimenti delle gambe) a simbolo della donna-oggetto per poi tornare in auge dagli anni ’80 in avanti. E oggi?
A partire dal 06 giugno 2015 è un simbolo di emancipazione e solidarietà per le donne oppresse. È stato, infatti, il governo tunisino di Ben Othman a stabilire la giornata mondiale della minigonna il 06 giugno, invitando tutte le concittadine tunisine a riunirsi, in minigonna, come segno di solidarietà per le donne oppresse. All’origine della protesta, un episodio di discriminazione accaduto a una ragazza algerina a cui era stato impedito di sostenere gli esami scolastici perché la sua gonna era ritenuta troppo corta. La giornata mondiale della minigonna è, forse, poco conosciuta ma urla un messaggio fondamentale: ognuno deve essere libero di vestirsi come meglio crede, senza dover vivere con l’ansia di essere, in alcun modo, giudicato per i centimetri di pelle che decide di mostrare.
L’Italia, dal canto suo, sembra avere non pochi problemi con le minigonne (e, mi permetto, anche con quello che queste rappresentano). È solo del 2020 la protesta di alcune studentesse di un liceo di Roma cui era stato suggerito dalla preside di non indossare minigonne in quanto ai professori sarebbe potuto “cadere l’occhio” e del 2021 l’ordinanza del comune di Terni che avvicina chi indossa una minigonna a una prostituta.
Ancora, è di poco tempo fa (anche) il video di Montemagno in cui questo si lascia andare a semplificazioni e banalizzazioni del ruolo svolto dalle influencer, nonché a consigli (mai da alcuna richiesti) su quali contenuti sarebbe meglio mostrare sul proprio profilo Instagram. Montemagno suggerisce di evitare di condividere solo foto del proprio corpo, ci incentiva (grazie!) a non lasciare come unico biglietto da visita dei nostri profili la nostra apparenza. Eppure. Eppure, ancora una volta ci troviamo di fronte a un uomo che vuole imporre la sua visione della donna (e del corpo della donna) all’intero universo femminile.
L’Italia sembra non aver (ancora) superato l’idea per cui una donna che mostri le gambe o una scollatura sia, in qualche modo, da censurare, coprire, nascondere, così come un abbigliamento succinto possa incentivare pulsioni sessuali da parte di chi guarda il corpo della donna.
Ricordo, tuttavia, che la malizia sta negli occhi di chi guarda e non, invece, di chi indossa un determinato capo. E allora, naturalmente, il problema (se di problema si può parlare, s’intende) non è nelle donne che indossano capi che le lasciano più o meno nude ma in chi, guardando un paio di gambe, o una scollatura, oggettifica e sessualizza la persona che indossa quei capi, confinandola a un giudizio di inadeguatezza e indecenza (per riprendere i termini di cui all’ordinanza del comune di Terni). Perché lasciare scoperte le gambe (o le spalle o la scollatura) dovrebbe, necessariamente, suggerire l’indecenza del comportamento di chi le indossa, perché un abito corto è indecente? Non è (forse) più indecente il pensiero di chi, trovandosi di fronte a una minigonna, ritiene di poter trarre un giudizio sulla convenienza o meno di questa? Non è indecoroso chi, di fronte a un vestito succinto, non riesce a “non farsi cadere l’occhio”?
Mi sento di dire, a Montemagno, al sindaco di Terni e alla preside di Roma (ma a tutti quelli che si fermano davanti a una foto in costume o a una minigonna per strada) che non siamo solo le foto che postiamo o i vestiti che indossiamo. Vi è altro (e oltre) all’immagine estetica (e ai centimetri di corpo che lasciamo intravedere), noi siamo responsabili di quello che siamo, non di quello che altri interpretano alla mera luce di quello che vedono. Ogni uomo è un’isola (diceva qualcuno) e ogni isola non è solo la prima spiaggia che incontriamo al nostro arrivo. È scoperta e mistero dell’entroterra. Banale (e superficiale) sarebbe pretendere di conoscere un’isola (o una persona, o una donna) fermandosi alla prima spiaggia (o alla prima foto o alla prima minigonna).
Retrogrado e maschilista è credere che all’aumentare dei centimetri di pelle lasciati intravedere da un vestito diminuisca la decenza di una persona. Indecorosa è una società dove prima di preoccuparci di educare a non giudicare un libro dalla copertina si preoccupa di invitare i libri a premunirsi di un certo tipo di copertina, poco importa, a quanto pare, se la sostanza è poca, l'importante è salvare le apparenze.
A cura di Carlotta Capizzi
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