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...E TU NON SAI QUELLO CHE DICI

Il giorno 23 ottobre 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non prevede la possibilità di ammettere al beneficio penitenziario del permesso premio i detenuti ergastolani ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia, anche laddove siano stati acquisiti “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzatahttps://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20191023170305.pdf.


Ancora una volta, come già era successo dopo la pronuncia di rigetto della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, i giornali hanno dato fuoco alle polveri, alimentando la paura che, da un giorno all’altro, migliaia di mafiosi e terroristi sarebbero stati messi in libertà.


In questo caso, però, c’è stato un articolo che più degli altri ha attirato la nostra attenzione: “Sanno quello che fanno”, a firma di Marco Travaglio, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” del 24 ottobre. Dal momento che il pezzo vanta più di una grossolana imprecisione, riteniamo sia più semplice procedere analiticamente, in modo tale da fare un po’ di chiarezza intorno ad un tema così delicato.


1. Nella fase di esecuzione della pena vige un principio di cui la Corte Costituzionale ha più volte sancito l’esistenza, estrapolandolo in via interpretativa direttamente dall’art 27 della Costituzione: il principio della flessibilità della pena.


Ma cosa significa, esattamente, flessibilità della pena? Significa che, dopo la condanna e durante l’esecuzione della sanzione penale, le modalità di espiazione della stessa possono concretamente essere modificate in ragione delle decisioni di un giudice ad hoc: il magistrato di sorveglianza. In altre parole, la sanzione penale si modifica nel corso della sua esecuzione per adattarsi ai progressi raggiunti dal detenuto nell’arco del suo percorso di risocializzazione.

Quanto finora detto vale, almeno in astratto, per tutte le specie di pena, e quindi anche per l’ergastolo. Tanto è vero che, grazie alla legge 663/1986, anche gli ergastolani possono accedere ai benefici penitenziari e sperare, dopo 26 anni di detenzione, di riottenere la libertà (diritto fondamentale che può essere limitato, ma mai soppresso, neanche dal potere punitivo di uno Stato).


Attenzione però: “potere” non equivale a “dovere”. E si, perché è il magistrato di sorveglianza ad avere l’ultima parola, decidendo sulla concreta applicazione delle misure alternative. Insomma, che l’ergastolo in Italia non esista è una grossa fesseria, dal momento che la perpetuità dello stesso continua ad esistere in tutti quei casi in cui il giudice ritiene non sussistente il ravvedimento del detenuto. Si materializza, in questi casi, un vero “fine pena mai”, per la gioia di Travaglio e co.


E allora, chiamare l’ergastolo ostativo “ergastolo vero” è un errore imperdonabile, per due ordini di motivi: in primis, perché non tiene conto dell’attuale esistenza di ergastoli effettivi e del principio della flessibilità della pena (si veda sopra); in secundis, perché colpevolmente evita di fare i conti con la vera natura dell’ergastolo ostativo: una detenzione perenne e perennemente intramuraria. “Pena di morte viva” la chiamano i detenuti.


Travaglio continua dicendo che “ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora”.


Al di là del lessico paternalistico usato dal giornalista (la pena laica, diversamente dalla penitenza religiosa, non serve a redimere nessuno), una questione merita di essere affrontata: è ormai dato per scontato che il termine “rieducazione” debba essere inteso nel senso di “risocializzazione”, cioè reinserimento nella società. Anche a fronte di un percorso di studio o di lavoro intramurario, quindi, come può una persona tornare a fare parte del consorzio sociale se continua ad essere detenuta? Questo Travaglio non ce lo spiega.

Va da sé, inoltre, che la “rieducazione” non può rappresentare un fine in se stessa: o è risocializzazione o torna ad essere redenzione religiosa.


2. “Un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia”. Uno slogan che spesso coincide con la realtà. Spesso, non sempre.


Collaborare con la giustizia è condizione necessaria per accedere ai benefici penitenziari, ma non sufficiente per ritenere esistente il ravvedimento di cui parlano le norme dell’O.P..

Se si considera che “parlare” rappresenta l’unico modo per uscire di prigione, allora si svela il reale scopo per cui è nato l’art. 4 bis: non quello di realizzare l’ “ergastolo vero” (altrimenti non si giustificherebbe l’esistenza di una “scappatoia”), ma incentivare, fino a costringere, la collaborazione con la giustizia. In questo modo un mafioso cessa di essere tale non perché si è “ravveduto”, ma perché l’associazione criminale non lo accetterà più. Diventerà un “infame”, e il trattamento loro riservato si sostanzia nell’esclusione e nella morte.

Chi parla rischia la propria vita e quella dei propri familiari, e realizza così la seconda ipotesi di effettiva “redenzione” prospettata da Travaglio. Un due per uno, insomma.


3. Il timore che la magistratura di sorveglianza possa essere fatta oggetto di intimidazioni ed attacchi da parte della criminalizzata organizzata è una “non-questione”.


Non perché questo non possa capitare, intendiamoci.

Ma perché sarebbe assurdo che un istituto dichiarato inumano e degradante dalla Corte EDU e incostituzionale (solo in relazione alla concessione dei permessi premio) dai Giudici delle leggi possa essere giustificato in ragione della paura che lo Stato italiano non sia in grado di garantire il libero esercizio della funzione giurisdizionale da parte dei magistrati di sorveglianza. “Come essere messi sotto scacco dalla mafia” parte 1.

Ad ogni modo, ai fini di una piena valutazione delle conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale sulla disciplina dell’ergastolo ostativo, bisognerà attendere le motivazioni della decisione.


Una cosa però si può già dire: il fatto che aree di “non-diritto” come quella della “pena di morte viva” vengano lentamente erose rappresenta una garanzia per tutti, anche per Travaglio.

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