Questo è quanto è stato stabilito dal Tribunale di Ferrara in primo grado.
Nel settembre 2017, all’interno del carcere di Ferrara, il detenuto Antonio Colopi, 26 anni, riceve una visita nella cella d’isolamento nella quale è ristretto. Viene fatto spogliare ed inginocchiare, e poi viene picchiato ripetutamente da due agenti (n.d.a. soggetti in realtà preposti alla sua protezione e sicurezza) mentre uno fa il palo nel corridoio.
Per uno degli agenti della polizia penitenziaria, giudicato con giudizio abbreviato, la condanna è di tre anni (rispetto ad i tre anni e sei mesi richiesti dalla pubblica accusa). Per gli altri due agenti e per un’infermiera (imputata di favoreggiamento e falso, per aver dichiarato che il detenuto aveva in realtà sbattuto la testa contro la porta blindata) è stato disposto il rinvio a giudizio.
Ma perché si parla di “sentenza storica”?
Perché si tratta della prima sentenza di condanna in Italia nella quale la condotta violenta di un agente della polizia penitenziaria nei confronti di un detenuto viene ricondotta nell’alveo del “nuovo” reato di tortura.
Tortura di Stato, per essere precisi, ossia la fattispecie aggravata prevista al secondo comma dell’art. 613 bis c.p., nella quale il soggetto attivo è un pubblico ufficiale che - abusando dei propri poteri ed in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al sevizio – cagiona sofferenze fisiche o psichiche ad una persona privata della libertà personale.
In Italia, ultimamente, siamo stati bombardati da notizie di questo calibro.
Pensiamo alle torture tenutesi nel carcere di Torino dal 2017 al 2019, alla “Mattanza della Settimana Santa” (con cui si fa riferimento alle rappresaglie da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti dei detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere in seguito alla rivolta del 5 aprile), al caso di Sollicciano (rinominato anche “Il carcere delle torture”) e alla vicenda che ha interessato il carcere di San Gimignano.
L’aspetto positivo di una sentenza di questo tipo e delle notizie sopra riportate – nonché del riscontro mediatico che stanno ricevendo – è che rappresentano, per noi, l’inizio di un cambiamento di paradigma nei confronti del fenomeno delle violenze in carcere. Finalmente vengono chiamate con il loro nome: torture.
Call them by their names, si potrebbe dire, parafrasando un famoso e recente film. Che altro non è che un modo poco ortodosso per esprimere un principio generale del diritto penale che in realtà “circola” dagli anni ’80: il fair labelling (‘giusto etichettamento’, ma la traduzione non rende giustizia).
Secondo questo principio tramite fattispecie di reato definite con precisione si è in grado di trasmettere al pubblico e all’autore del reato la gravità dello stesso.
Viene data dignità alle vittime di “un reato insopportabile nella contemporaneità”.
E allora si può capire perché, per noi di Strali, parlare di tortura (e non di ‘botte’ o di semplici ‘violenze’) sia così rilevante nel caso di fatti talmente odiosi come quelli relativi a violenze nei confronti di detenuti, a prescindere dall’esito delle varie vicende giudiziarie.
Le parole (e gli istituti giuridici), ormai lo avrete capito, sono importanti.
A cura di Alice Giannini
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