“Non sono conformi al diritto dell’Unione Europea le restrizioni imposte dall’Ungheria al finanziamento delle organizzazioni civili da parte di soggetti stabiliti al di fuori di tale Stato membro”.
Così si è espressa qualche settimana fa, accogliendo il ricorso per inadempimento della Commissione Europea, la Grande Camera della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sulla legge ungherese contro il finanziamento estero a favore delle ONG operanti sul territorio.
La sentenza arriva dopo un periodo durato 3 anni. Nel 2017, infatti, l’Ungheria ha varato un piano di riforme contenenti una serie di disposizioni - tra cui quella oggetto della sentenza - al fine di “garantire maggiore trasparenza” tra le varie organizzazioni operanti in territorio ungherese. Secondo tale legge infatti, le organizzazioni devono registrarsi presso i tribunali ungheresi come "organizzazioni che ricevono sostegno dall'estero" quando le donazioni loro inviate da altri Stati membri o da paesi terzi nel corso di un anno superano una certa soglia. Al momento della registrazione, devono anche indicare, tra l'altro, il nome dei donatori il cui supporto ha raggiunto o superato la somma di 500.000 HUF (circa 1.400 €) e l'importo esatto del sostegno. Tali informazioni vengono poi rese pubbliche e, in ultimo, è stata prevista la possibilità di applicare sanzioni alle organizzazioni che non rispettano tali obblighi.
L’Unione Europea ha messo finalmente un freno alla “sconsiderata” visione ungherese in tema migranti. Il premier magiaro, infatti, ha tentato in questi anni di ridimensionare fortemente le attività delle organizzazioni che s’impegnano tutt’ora nel sostegno ai migranti, anche attraverso le disposizioni previste nel 2017 in tema ONG. Dopotutto l’Ungheria, come paese appartenente al cosiddetto “Gruppo Visegrad”, non ha smentito le sue posizioni su questi temi.
Questa volta però, sembra proprio che dovrà tornare sui suoi passi.
La Corte infatti, ha chiaramente espresso il primato del diritto dell’Unione, ritenendo che, imponendo obblighi di registrazione, dichiarazione e pubblicazione a determinate categorie di organizzazioni che ricevono direttamente o indirettamente un sostegno dall’estero, l'Ungheria abbia introdotto “restrizioni discriminatorie e ingiustificate nei confronti sia delle organizzazioni in questione sia delle persone che concedono loro tale sostegno”.
Andando nel merito della questione la Corte ha stabilito, in primo luogo, che le transazioni coperte dalla legge sulla trasparenza rientrassero nell'ambito del concetto di "movimenti di capitali" di cui all'articolo 63, paragrafo 1, TFUE e che la legge in questione costituisse una misura restrittiva di natura discriminatoria.
Infatti, tale legge stabilisce una distinzione di natura discriminatoria tra i movimenti di capitali nazionali e transfrontalieri che non corrisponde a nessuna differenza, in termini oggettivi, nelle situazioni trattate. L’applicazione della legge in maniera esclusiva alle associazioni che ricevono finanziamenti esteri può portare a dissuadere le persone fisiche o giuridiche stabilite in altri Stati membri o paesi terzi dal fornire sostegno finanziario alle organizzazioni interessate.
Di conseguenza, gli obblighi di registrazione, dichiarazione e pubblicazione e le sanzioni previste in caso di mancato rispetto degli stessi, costituiscono una restrizione alla libera circolazione dei capitali, vietata ai sensi dell'articolo 63 TFUE.
Vero è che l'obiettivo di trasparenza perseguito, continua la Corte, può essere considerato, almeno a prima vista, un motivo imperativo di interesse generale. Si potrebbe sostenere che l’applicazione di tali prescrizioni più restrittive sia giustificata dal fatto che alcune organizzazioni della società civile possono avere un'influenza importante sulla vita pubblica.
Tuttavia, nel caso di specie, l'Ungheria non ha dimostrato per quale motivo applicare tali restrizioni in materia di finanziamento possa effettivamente perseguire l’obiettivo di trasparenza prefissato dalla normativa. L’ applicazione indiscriminata di tali misure, sulla sola base della provenienza del capitale dall’estero, infatti, non consente di individuare quali organizzazioni e quali operazioni potrebbero avere in concreto un'influenza significativa sulla vita pubblica.
L’art. 65 del TFUE, prosegue la Corte, stabilisce che gli stati possano adottare misure restrittive alla libera circolazione di capitali qualora vi siano motivi di interesse pubblico e pubblica sicurezza. Tali motivi, tuttavia, non possono essere fatti valere a meno che non vi sia una minaccia reale, attuale e sufficientemente grave per un interesse fondamentale della società. L’Ungheria - conferma la Corte anche in questo caso - non ha presentato argomenti tali da stabilire specificamente l'esistenza di una tale minaccia. Piuttosto, la legge sulla trasparenza si fonda su una presunzione fatta in linea di principio e indiscriminata che qualsiasi supporto finanziario delle organizzazioni civili inviato dall'estero è sospetto. I giudici di Lussemburgo però non si fermano qui. La legge del 2017 infatti “infastidisce” anche diversi articoli previsti nella Carta dei Diritti Fondamentali (o Carta di Nizza):
Rispetto della vita privata e della vita familiare (Art. 7), dove i giudici hanno osservato che, nel caso di specie, gli obblighi di dichiarazione e di pubblicazione stabiliti dalla legge in questione violano tale diritto in ragione di un’ingiustificata ingerenza delle autorità ungheresi;
Protezione dei dati di carattere personale (Art. 8), poiché - anche in questo caso - la pubblicazione e divulgazione dei dati personali viola i requisiti di cui all’articolo 8.
Libertà di associazione (Art. 12), in ragione del fatto che la Corte ha riscontrato che le misure previste dalla legge sulla trasparenza limitano tale diritto, in quanto rendono più difficile il funzionamento delle associazioni che rientrano nell'ambito di applicazione di tale legge;
Così, la Corte europea ha bocciato, o distrutto se vogliamo, la politica seguita da Viktor Orban e per questi motivi le autorità nazionali dovranno provvedere a modificare o rimuovere la norma, sottoponendo il governo ungherese al rischio della procedura d’infrazione, nel caso in cui non dovesse rispettare la sentenza.
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