Dopo una lunga attesa, il 25 maggio 2021, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani (Corte) di Strasburgo ha adottato Big Brother Watch e altri c. Regno Unito, sentenza cruciale nell’ambito del diritto alla privacy. La questione affrontata dalla Corte ha riguardato la conformità delle pratiche di sorveglianza di massa applicate nei Paesi Membri del Consiglio d’Europa con le garanzie previste dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU).
Gli avvenimenti che hanno portato a questa decisione sono stati le c.d. rivelazioni di Edward Snowden, informatico, attivista e whistleblower che, nel giugno 2013, tramite il The Guardian e il The Washington Post, ha reso pubblici dettagli di alcuni programmi di sorveglianza di massa che prevedevano la raccolta massiva di dati, metadati, comunicazioni elettroniche e il loro contenuto, e la loro conservazione nel lungo periodo, anche di soggetti al di fuori delle rispettive giurisdizioni, e il potenziale scambio di tali dati tra i Paesi, implementati dall’agenzia statunitense National Security Agency (NSA) e dalla agenzia governativa britannica Government Communications Headquarters (GCHQ).
Il caso dinnanzi alla Corte di Strasburgo è la conseguenza dei ricorsi presentati alla Corte, tra il 2013 e il 2014, da svariate organizzazioni non-governative (ONG) e da individui coinvolti nel contesto della salvaguardia del diritto alla privacy, denunciando la violazione, da parte del GCHQ, – inter alia – dell’articolo 8 CEDU, che garantisce il diritto alla vita privata e familiare e la corrispondenza, compreso il diritto alla privacy e il più recente diritto ai dati personali.
Nel settembre 2018, la Camera della Corte di Strasburgo aveva analizzato in prima istanza la questione della compatibilità di tali programmi con la CEDU, dichiarando la violazione da parte del Regno Unito dell’articolo 8 a causa del mancato rispetto dei requisiti previsti dalla giurisprudenza CEDU in merito alla “prevedibilità della legge”, non risultando dunque la pratica della sorveglianza di massa “necessaria in una società democratica”.
In seconda istanza, la Grande Camera ha, nuovamente, e, tra l’altro, analizzato la congruenza della legislazione britannica e le (poche) garanzie previste dalla legge con il menzionato articolo 8 CEDU.
Nella sentenza in esame, la Grande Camera ha confermato la violazione dell’articolo 8 da parte del Governo inglese. Per questa ragione, la prima reazione di individui e ONG impegnate nella sensibilizzazione e protezione del diritto alla privacy è stata di entusiasmo: Privacy International ha definito il giudizio “una vittora importante per la privacy e per la libertà di ognuno”; Liberty l’ha descritto come “una sentenza storica”. Nonostante ciò, però, la sentenza dice molto di più rispetto alla conclusione fattuale a cui giunge, poichè – in sostanza – normalizza le pratiche di sorveglianza di massa in Europa, a discapito del diritto alla privacy dei cittadini.
La Corte, infatti, non accoglie l’argomento principale proposto dagli attivisti e ONG, ossia che la sorveglianza di massa non possa trovare spazio in Paesi in cui il diritto alla privacy dovrebbe essere ampiamente protetto. La Grande Camera, invece, ha ritenuto che le intercettazioni massive possano essere dei mezzi “validi” (§ 323) tramite i quali gli Stati sono in grado di identificare potenziali nuove minacce e così tutelare la sicurezza nazionale. La Corte, dunque, riconoscendo la sorveglianza di massa come rientrante nel margine di apprezzamento (e, quindi, di azione) di ciascuno Stato, elenca una serie di salvaguardie che ritiene essenziali per evitare che le autorità nazionali oltrepassino i criteri di necessità e proporzionalità richiesti dal diritto internazionale per derogare alla protezione dei diritti fondamentali. Nell’elaborare queste otto salvaguardie (e nell’innovarle rispetto alla sua giurisprudenza precedente), però, la Corte ammette anche la possibilità di compiere una valutazione globale e verificare se la legislazione contestata sia, nel suo insieme, compatibile con le garanzie della CEDU, nonostante una (o più) delle salvaguardie non sia stata rispettata.
Nell’analizzare, poi, la questione dello scambio di dati intercettati massivamente con servizi di intelligence stranieri, la Corte non ha escluso la possibilità di trasferire dati a servizi segreti di Paesi terzi in cui non vi è un livello essenzialmente equivalente di garanzie rispetto alla regione europea.
Riprendendo le parole del Giudice Pinto de Albuquerque, “questa sentenza altera fondamentalmente l’equilibrio esistente in Europa tra il diritto al rispetto della vita privata e gli interessi di pubblica sicurezza [...]. Questa conclusione è tanto più giustificata se si considera il rifiuto perentorio della [Corte di Giustizia UE] circa l’accesso generalizzato al contenuto delle comunicazioni elettroniche, la sua manifesta riluttanza riguardo alla conservazione generale e indiscriminata dei dati e la sua limitazione degli scambi di dati con i servizi segreti stranieri che non assicurano [il menzionato livello di protezione]”, rimanendo così la Corte di Lussemurgo “il faro del diritto alla privacy in Europa.”. In sostanza e concludendo, Big Brother Watch e altri c. Regno Unito apre la via “per un “Grande Fratello” elettronico in Europa”, che di fatto diventa “la nuova normalità”.
StraLi è impegnata nella salvaguardia del diritto alla privacy di ogni individuo e nella battaglia contro le pratiche di sorveglianza di massa, per questo fa parte e contribuisce alla campagna Reclaim Your Face. Se vuoi contribuire anche tu, firma qui!
A cura di Serena Zanirato
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