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LIBERTÀ DI ESPRESSIONE AI TEMPI DEI SOCIAL MEDIA

Nel mondo dei social media, quest’anno è iniziato con la prima sospensione a tempo indefinito operata da Twitter nei confronti di Marjorie Taylor Greene, deputata repubblicana per lo Stato della Georgia (USA), per aver diffuso informazioni false sulla pandemia di Covid-19 - qui per la notizia.


La sospensione, prima nel suo genere, è frutto della nuova politica dei five strikes introdotta di recente dalla piattaforma. In ragione del sempre crescente ruolo che i social media sembrano avere nella diffusione di fake news e di messaggi d’incitazione alla violenza, Twitter e altre piattaforme hanno sviluppato, infatti, una serie di linee guida che disciplinano le possibili violazioni in cui possono incorrere gli utenti. Sono vietati, in generale, i post contenenti informazioni errate (fake news) che possano causare danno a persone o specifici gruppi, ma anche quelli contenenti affermazioni discriminatorie contro gruppi o minoranze, e che più in generale possano attentare alla sicurezza pubblica.


Nel caso di Twitter, ad esempio, vengono rimossi i post che contengano contenuti vietati, e se tali violazioni vengono perpetuate ripetutamente dallo stesso account si sommano portando ai seguenti risultati:

  • 1 strike: nessuna azione sull’account, ma rimozione del tweet;

  • 2 strikes: blocco 12 ore;

  • 3 strikes: altro blocco 12 ore;

  • 4 strikes: blocco 7 giorni;

  • 5 strikes: blocco permanente dell’account.

La deputata Greene ha subito quindi la sanzione prevista per i cinque strikes, avendo già ricevuto i precedenti avvertimenti previsti. Sebbene si tratti della prima sospensione permanente, questo non è sicuramente l’unico caso in cui una piattaforma come Twitter ha dovuto sanzionare i suoi utenti. Senza lasciare gli Stati Uniti, è sufficiente ricordare il numero di tweet postati da Donald Trump, prima, durante e dopo la sua presidenza, con affermazioni razziste, misogine e omofobe, e contenenti fake news: solo lo scorso gennaio è stato bloccato il suo account, a causa di alcuni suoi tweet che legittimavano l’attacco al Congresso.

La stessa situazione si ripresenta qui in Italia, dove parlamentari e personaggi pubblici sono soliti dare libero sfogo alle loro opinioni sui social, specialmente Twitter e Facebook.


Sotto scrutinio sono quindi le fake news, specialmente problematiche in un periodo come quello attuale, ma altrettanti sono i casi in cui le piattaforme social devono prendere posizione su tweet contenenti hate speech. Si tratta sicuramente di un problema nato molto prima dei social media, ma è indubbio che queste piattaforme abbiano amplificato la potenza e la portata di queste espressioni di intolleranza. Se è vero che è innegabile il ruolo estremamente positivo che i social hanno nel connettere il singolo alla comunità, è anche vero che con i pregi non mancano i difetti: sono molti i soggetti che si nascondono dietro account falsi, per esprimere quelle che non possono essere considerate opinioni personali, ma vere e proprie espressioni di hate speech. In alcuni casi è l’anonimato a istigare tali comportamenti, ma la realtà è che molto spesso queste affermazioni di odio, violenza e intolleranza sono postate da persone con profili veri, a volte anche personaggi pubblici, che non hanno alcuna paura delle possibili ritorsioni. Come se queste affermazioni non fossero reali, o realmente dannose, per il solo fatto di essere state postate online.


Sono in molti quindi a richiedere linee guida più severe e interventi anche a livello legislativo all’interno di queste communities, specialmente attivisti impegnati nella tutela delle minoranze. Questi sostengono che l’intervento delle piattaforme stesse dovrebbe essere più celere: molto spesso sono necessarie segnalazioni da numeri ingenti di iscritti per provocare la rimozione di post o tweet, e la sospensione degli account di chi li ha pubblicati.

Tuttavia, sono anche in molti ad esprimersi in maniera contraria, e anche se spesso si tratta di followers dei membri sanzionati, vi sono state anche agenzie e organizzazioni internazionali (ONU, OSCE, OAS, ACHPR) che hanno militato contro interventi legislativi più severi in materia, che andrebbero a violare la libertà d’espressione.


Le misure attualmente in vigore, come la rimozione di tweet segnalati e il blocco temporaneo o permanente degli account, sono già per molti violazioni della libertà di espressione ed espressione di un potere di censura esercitato dalle piattaforme.

Al momento, infatti, le piattaforme social, in quanto entità private, godono di ampia libertà di manovra, e sono quindi libere di adottare le linee guida ritenute più adatte. Si tratta tuttavia di policies perlopiù di recente introduzione, e che, come sopra illustrato, prevedono una serie di misure intermedie prima di quella definitiva del blocco permanente. Misure molto lontane, quindi, dalla censura vera e propria.


La domanda che viene spontaneo porsi è la seguente: si può davvero parlare di violazione di libertà di espressione, quando viene impedita la condivisione di affermazioni discriminatorie o di fake news, che potrebbero potenzialmente danneggiare chi le legge?

Nessuno mette in dubbio la centralità e l’importanza della libertà di manifestazione del pensiero, che deve essere garantita dagli ordinamenti di tipo democratico. Come tale, questo diritto è sancito a livello costituzionale (art. 21 Cost.), europeo (art. 10 CEDU) ed internazionale (art. 19 Dichiarazione universale dei diritti umani). Tuttavia, è necessario discernere ciò che può essere ricompreso nella tutela garantita da questi articoli, e cosa invece non può rientrarvi.

La Corte di Cassazione e la Corte Costituzionale si sono espresse spesso, soprattutto in materia di diffamazione (ex pluribus: sentenza “Borruso”: Cass., Sez. I, 18 ottobre 1984, n. 5259), sancendo la prevalenza della libertà di manifestazione del pensiero solamente se sono rispettati i seguenti criteri:

  • la veridicità dei fatti;

  • la continenza;

  • l’interesse pubblico della notizia.

Analogamente, si deve ritenere che tali criteri si possano applicare anche alla manifestazione di pensieri ed opinioni sulle piattaforme social: nel caso di specie, tuttavia, le fake news per definizione non integrano i requisiti di veridicità e di interesse pubblico della notizia. Lo stesso vale per i messaggi che incitano alla violenza e all’odio nei confronti delle minoranze.


Questa conclusione è avvallata anche dai principi espressi a livello internazionale, anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, secondo cui le restrizioni alla libertà di manifestazione del pensiero devono necessariamente perseguire obiettivi legittimi, escludendo quindi le gravi manifestazioni d’odio, e quelle che rappresentano un rischio effettivo per interessi di carattere generale o diritti altrui, come le fake news. Negli ultimi due anni, la Corte Costituzionale ha ritenuto necessario interpellare nuovamente la Corte EDU in materia, sottolineando che quella da operare è una “complessa operazione di bilanciamento tra la libertà di manifestazione del pensiero e la tutela della reputazione della persona, diritti entrambi di importanza centrale nell’ordinamento costituzionale” e che “una rimodulazione di questo bilanciamento, ormai urgente alla luce delle indicazioni della giurisprudenza, spetta in primo luogo al legislatore” (ordinanza n.132/2020 Corte Cost.). La materia, tuttavia, non è ancora stata oggetto di intervento legislativo.


Attualmente, i contrasti fra libertà di manifestazione del pensiero e manifestazioni di odio e violenza, fake news e affermazioni discriminatorie si svolgono nel contesto dei social media e sono decisi da piattaforme come Twitter e Facebook. Si tratta di valutazioni delicate, che dovrebbero essere operate da esperti del diritto, e che invece molto spesso sono lasciate ad entità private, come le piattaforme social, che hanno indubbiamente anche un interesse economico nella scelta operata. I social media si configurano quindi come il nuovo e ultimo esempio di judge, jury ed executioner, in assenza di normativa appropriata in materia.



A cura di Beatrice Geusa

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