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NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE DI 41 BIS ED ERGASTOLO OSTATIVO

A lungo bistrattata e lasciata ai margini del dibattito, la questione carceraria è tornata agli onori di cronaca, nelle ultime settimane, con il caso di Alfredo Cospito.



Cospito, membro della Federazione Anarchica Informale, si trova in carcere, in regime di 41 bis, dove sta scontando una pena alla reclusione di dieci anni e otto mesi per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. È inoltre in attesa di condanna definitiva alla pena dell’ergastolo, di tipo ostativo, per una serie di attentati organizzati, tra il 2005 e il 2007, condotte che sono state ascritte al reato di devastazione, saccheggio e strage ex art. 285 c.p. Per questi fatti, è stata emessa misura cautelare detentiva. Pertanto, la detenzione in carcere è motivata tanto dalla pena a cui è già stato condannato quanto da ragioni cautelari, in attesa di condanna per il reato ex 285 c.p.


Per ottenere la revoca del 41 bis, Cospito è entrato in sciopero della fame dal 20 ottobre. Il caso è diventato mediatico a seguito della diffusione di informazioni sul suo stato di salute precarissimo e a seguito del diniego di revoca del regime di 41 bis da parte tanto del Tribunale di Sorveglianza di Roma, quanto del Ministro della Giustizia Nordio. Allo stato attuale, Cospito si trova a centoventi giorni di digiuno, con quaranta chili in meno.


Il caso in esame solleva diverse questioni su temi differenti: da un lato la legittimità del 41 bis come modalità esecutiva di una condanna, dall’altro, la legittimità dell’ergastolo ostativo come specie di pena.


L’articolo che segue cerca di mettere chiarezza in questa intricata storia, restituendo un quadro dei diversi istituti detentivi richiamati, nonché dello stato d’arte del dibattito in merito agli stessi, dimidiato tra chi sostiene l’efficacia e, pertanto, la loro legittimità, e chi invece ne aberra il contenuto, non senza il supporto di diverse pronunce giurisprudenziali in tal senso.


Ergastolo ostativo e 41 bis: non facce della stessa medaglia


Spesso sovrapposti, data la loro frequente interconnessione, gli istituti del 41 bis e dell’ergastolo ostativo non sono sinonimi. Al contrario, nascono per ragioni diverse così come diverse ne sono la natura e le regole di funzionamento.


L’ergastolo si intende ostativo quando non consente la concessione dei benefici carcerari che l’ordinamento normalmente prevede a seguito del decorso di un periodo specifico di tempo e/o sulla base della buona condotta della persona detenuta. Ad esempio, nel caso di ergastolo, solo con il decorso di 26 anni di reclusione la persona detenuta può richiedere la libertà condizionata o i permessi di lavoro all’esterno del carcere.

Quando la condanna all’ergastolo segue la commissione di una categoria specifica di reati, i c.d. reati ostativi, la concessione di questi benefici è ulteriormente limitata. I reati c.d. ostativi sono indicati dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (d’ora in poi, ord. penit.) e includono, tra gli altri, reati di stampo mafioso e i reati con finalità di terrorismo (ipotesi a cui, il Codice penale, riconduce, nelle forme più gravi, la pena all’ergastolo).

In questi casi, secondo quanto indicato dall’art. 58 ter ord. penit., i benefici non sono accessibili decorsi 26 anni, ma solo sulla scorta di un ravvedimento operoso della persona detenuta, che si mette a servizio dello Stato, collaborando alle indagini. In altri termini, un meccanismo fondato su una logica di do ut des. La ragione sta nel fatto che l’ordinamento stabilisce in questi casi una presunzione assoluta di pericolosità sociale che può essere contemperata solo con la collaborazione con la giustizia.

Questa logica è stata attenzionata dalla Corte Costituzionale che, di sentenza in sentenza, ha levigato il meccanismo, a tratti mercificatore della libertà personale, per ricondurlo a crismi costituzionalmente orientati, primo fra tutto, l’art 27(1)(3) della Costituzione sul fine rieducativo della pena, nonché gli artt. 3 e 13 Cost (sul principio di eguaglianza e sulla inviolabilità della libertà personale).

Tuttavia, è solo con la celebre sentenza Viola c. Italia da parte della Corte di Strasburgo che il meccanismo di scambio tra libertà e collaborazione viene messo in discussione.

In alcuni importanti passaggi della sentenza, la Corte osserva che la personalità di un condannato non rimane fissata al momento in cui il reato è stato commesso, "ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità” (para 125).

Nello specifico, la Corte ritiene che «l’assenza di ‘collaborazione con la giustizia’ determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione (…). Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo» (para 127).

Pertanto, la Corte conclude che, nonostante la significatività dei reati ricondotti all’art 4 bis ord.penit., «la lotta contro questo flagello [la lotta alla mafia] non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti. Pertanto, la natura dei reati addebitati al ricorrente è priva di pertinenza ai fini dell’esame del presente ricorso dal punto di vista del suddetto articolo 3» (para 130).

Sulla scorta di questa decisione, il Parlamento è stato chiamato ad intervenire per modificare le norme sull’ergastolo ostativo. Con il d.l. 162/2022, l’istituto è stato rivisto. Ad oggi, si permette di richiedere la libertà condizionale pur in assenza di collaborazione con la giustizia, previa allegazione degli elementi specifici che dimostrino la mancata persistenza di collegamenti con l’organizzazione criminale del caso.


Diversamente, il regime del 41 bis riguarda le modalità di esecuzione della pena. Regolato, appunto, dall’art. 41 bis dell’ord. penit., l’applicazione di simile regime poggia su due presupposti: uno oggettivo e uno soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, il regime del 41 bis è applicabile ai soli reati ascritti all’art 4 bis ord.penit. Pertanto, anche il 41 bis fa riferimento allo stesso ambito oggettivo dell’ergastolo ostativo.

Dal punto di vista soggettivo, il regime del 41 bis viene giustificato con l’esigenza di troncare i collegamenti tra la persona detenuta e l’organizzazione esistente all’esterno, sul presupposto che questi legami esistano e debbano essere recisi in pendenza di esecuzione della pena, per motivi securitari e quindi per garantire la sicurezza e ordine pubblico.

Sulla base di questi presupposti, il 41 bis giustifica una serie di restrizioni particolarmente gravose sulla libertà personale (già compromessa) e di autodeterminazione del soggetto. Il regime del 41 bis implica l’individuazione di specifiche sezioni adibite esclusivamente alla ricezione delle persone sottoposte a tale misura (nello specifico, ci sono dodici carceri con sezioni adibite in tutta Italia). Costoro trascorrono la detenzione in cella singola; è concessa una visita al mese mentre due sono le ore di aria concesse al giorno e da condividere con non più di tre persone e che, per i motivi di cui sopra, non possono che essere altre persone detenute al 41 bis. Il resto delle ore le si passa chiusi in una cella con un solo punto luce, dal soffitto.

A livello procedurale, il 41 bis viene applicato con provvedimento del Ministro della Giustizia, a prescindere dalla natura della limitazione della libertà e quindi: in caso di ergastolo, reclusione, misura di sicurezza (che non implica una condanna) e durante l’applicazione di una misura cautelare di carattere detentivo (e quindi a processo ancora in corso).

Il provvedimento ha durata quadriennale e può essere prorogato per la stessa durata nel caso in cui le esigenze di sicurezza e ordine pubblico perdurino. Ex adverso, il venir meno dell’attualità delle esigenze può condurre a una revoca della misura. La revoca può essere disposta ancora dal Ministro della Giustizia o dal Tribunale di Sorveglianza (in caso di 41 bis, il Tribunale competente è quello di Roma). Se non operata d’ufficio, le parti interessate (la difesa, la Procura, il DAP) possono presentare richiesta di revoca presso entrambe le istituzioni competenti. Infine, in caso di rigetto dell’istanza, può essere presentato ricorso presso il Tribunale di Sorveglianza, in caso di diniego da parte del Ministro della Giustizia; si pronuncerà invece la Corte di Cassazione, in caso di diniego da parte del Tribunale di Sorveglianza.

Per quanto riguarda le evoluzioni di questo istituto, il regime del 41 bis nasce all’indomani delle stragi di Capaci e Via d’Amelio con lo specifico intento di dissipare le connessioni tra persone detenute e organizzazione mafiosa di appartenenza. Nel 2002, l’ambito di applicazione è stato esteso ai reati richiamati sopra e, specificatamente, ai reati di terrorismo. Inoltre, la durata temporale del provvedimento di emissione, inizialmente fissata a tre anni, è stata portata agli odierni quattro anni. Pertanto, negli anni successivi all’instaurazione del 41 bis si è assistito a una sorta di secolarizzazione dell’istituto, nato, invece, come istituto temporaneo ed eccezionale.

Secondo il XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, al novembre 2021, le persone al 41 bis erano 749, di cui tredici donne. Di questi, ancora oggi, una stragrande maggioranza è in vinculis per reati legati all’associazionismo mafioso.

Cospito corrisponde alla prima persona detenuta sotto regime di 41 bis a rispondere di reati di terrorismo politico.

Al di là dei cambiamenti occorsi negli anni, è importante ricordare la ratio di questo istituto. Come sottolinea Livio Pipino, già magistrato e membro del Consiglio Superiore della Magistratura, non dovrebbe trattarsi di «un trattamento carcerario particolare per detenuti di diversa pericolosità, ma una sospensione del trattamento», una modalità di esecuzione della condanna temporanea ed eccezionale e non la condanna stessa.


41 bis, tra profili di criticità ed evoluzioni giurisprudenziali


Il regime di 41 bis, nato in un momento storico di aspro conflitto tra Stato e mafie, realizza condizioni di vita insostenibili per chi vi è sottoposto, con un grado di efficienza che è, quantomeno, discutibile. In quest’ottica si comprende il tentativo di numerose personalità ed associazioni legate al mondo del diritto, che chiedono la revoca del 41 bis in quanto strumento di maltrattamento e tortura, operato direttamente dallo Stato.

A tal proposito, tanto quanto l’ergastolo ostativo, anche il regime di 41 bis è stato attenzionato da corti nazionali e internazionali.

Con la sent. 376/1997, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che già dal momento dell’emanazione della legge istitutiva il regime di 41 bis, il nuovo istituto aveva ingenerato criticità sul profilo dell’aderenza ai principi costituzionali contenuti agli artt. 3, 13, 24 e 27 della Costituzione. Tuttavia, ne ha ribadito la legittimità nella misura in cui le esigenze di sicurezza e ordine pubblico fossero concretamente giustificate.

La Consulta si è successivamente pronunciata più volte, andando a limare le restrizioni imposte ai detenuti in regime di 41 bis. Ad esempio, con la recente sentenza del 24 gennaio 2022, n. 18, la Consulta si è pronunciata sulla illegittimità della sottoposizione a censura della corrispondenza tra persa detenuta e difesa.


A livello sovranazionale, e similmente a quanto espresso dalla Consulta, il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, dopo aver svolto una visita nelle carceri italiane nel marzo 2019, ha sottolineato nel report 2020 la necessità di operare sempre in concreto un bilanciamento delle ragioni di sicurezza e ordine pubblico, con il perdurare del regime del 41 bis e la correlata limitazione dell’efficacia rieducativa della pena sulla persona detenuta.

Infine, enorme risonanza ha avuto la pronuncia, sempre del 2019, nel caso Provenzano c. Italia, con cui la Corte di Strasburgo è stata chiamata a valutare l’opportunità di prolungare il regime di 41 bis in caso di deterioramento della salute fisica e mentale del soggetto.

In un passaggio di rilievo, la Corte, tenuto conto delle esigenze di sicurezza e ordine pubblico legato alla criminalizzazione e sradicamento del fenomeno mafioso, «ribadisce che il rispetto della dignità umana è l’essenza stessa della Convenzione e che l’oggetto e la finalità della Convenzione, strumento destinato a proteggere i singoli esseri umani, impongono che le sue disposizioni siano interpretate e applicate in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed effettive (..). A tale riguardo, la Corte ritiene che sottoporre un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive (…), applicate dalle autorità penitenziarie a loro discrezione, senza fornire motivi sufficienti e pertinenti basati su una valutazione personalizzata della necessità, compromette la sua dignità umana e comporta la violazione del diritto di cui all’articolo 3.» (para 152).

In sintesi, la Corte di Strasburgo pone l’accento sul rischio di discriminazione legato a certi automatismi e ribadisce che il rispetto per la dignità della vita umana deve riverberarsi sul trattamento penitenziario.

Il 24 febbraio la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della difesa di Cospito (al quale la Procura Generale della Cassazione aveva dato un parere favorevole) in merito al perdurare nel suo caso del regime del 41 bis.


Non sono ancora state pubblicate le motivazioni di tale sentenza, la quale evidentemente dovrà motivare in aderenza ai principi che sono stati richiamati sopra probabilmente rilevando come nel caso sussista proporzionalità tra il perdurare del regime, pur nelle condizioni di salute della persona detenuta e le necessità di politica criminale sottese all’istituto. Per quanto riguarda invece la questione dell’ergastolo ostativo , la Corte di Appello di Torino, nello stesso caso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente alla proporzione della pena e, in particolare, rispetto alla valutazione della gravità del fatto ai fini della modulazione della stessa, come previsto dall’art. 133 del Codice penale.

Al di là delle specificità di carattere giuridico ciò che si auspica è che entrambi gli istituti vengano interpretati con criteri costituzionalmente orientati, sostituendo meccanismi automatici che poggiano su logiche di politica criminale facendo tendere l’istituto al principio di rieducazione della pena di cui all’art 27.3 della Costituzione.


Va detto che l’esistenza stessa del regime dell’ergastolo ostativo è messo in discussione e denunciato da diverse personalità nel mondo del diritto, la rivendicano le storie dei nostri Bobby Sands e Ebru Timtik, che, hanno intrapreso lo sciopero della fame per denunciare le condizioni indecenti di detenzione e che sono morti, lottando, dimenticati dallo Stato. L’ha recentemente ripetuto di fronte al Parlamento Europeo la parlamentare MEP Clare Daly che un simile sistema non può vigere incontrastato in uno dei Paesi dell’Unione Europa.

La domanda che poniamo conclusivamente, pur nella estrema complessità della materia è la seguente: è veramente nei doveri di uno Stato perpetrare un sistema di estrema privazione della libertà per fini securitari, sistema che, peraltro, ha dimostrato un certo grado di fallacia, tenuto conto dell’operato ancora saldissimo delle organizzazioni mafiose?


Questa riflessione è più che mai doverosa e necessaria, per non svuotare di significato la validità di una società che si fonda sullo stato di diritto.


A cura di Silvia Tassotti

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