(Spoiler: parliamo anche di schwa)
“Parole, parole, parole, soltanto parole” cantava Mina nel 1972. Lei cantava di un amore basato solo sulle lusinghe e senza fondamenta solide. Ma le parole, in generale, sono “soltanto” parole?
Di recente, in Italia come all’estero si è dibattuto moltissimo di linguaggio. Il tema centrale della discussione è stato il c.d. linguaggio inclusivo – cioè un linguaggio che si propone di essere scevro di espressioni, immagini e toni che perpetrino stereotipi e discriminazioni verso specifici gruppi di persone. “Ci sono cose più importanti a cui pensare” è una frase ricorrente, quando si parla di parole da usare, da non usare più, o parole da trasformare, qualsiasi sia il tema – da una figura retorica che ormai è riconosciuta come problematica, alla proposta di una nuova declinazione. La “forma”, come viene inteso il linguaggio, non dovrebbe occupare lo stesso spazio che dedichiamo al “contenuto”, nelle nostre battaglie, perché è futile e distrae da “cose più importanti”. Viene da chiedersi però: perché una discussione su qualcosa di, apparentemente, così poco importante genera così tanto infervoramento? Perché ci fa arrabbiare così tanto pensare di utilizzare “ministra” anziché “ministro”, dove lo richiede il genere? O di abbandonare parole ed espressioni con una carica discriminatoria perché tanto “è solo un modo di dire”? Cerchiamo di affrontare insieme alcuni passaggi del dibattito sul linguaggio inclusivo – e di spiegare perché, secondo noi, le parole sono importanti tanto quanto le azioni, quando si parla di diritti.
Il punto di partenza di queste discussioni viene da relativamente lontano. Si inizia a parlare di linguaggio di genere nel 1987, quando la linguista Alma Sabatini curò la pubblicazione de “Il sessismo nella lingua italiana” per conto della Commissione nazionale per le pari opportunità fra uomo e donna. Il testo, che contiene delle linee guida e delle raccomandazioni per contrastare gli stereotipi di genere e il sessismo nel linguaggio, oltre a formulare delle indicazioni sottolinea un concetto fondamentale: quello de “l'importanza della lingua nella costruzione sociale della realtà”. Attraverso le parole, assimiliamo norme, idee e conoscenze che riflettono la struttura sociale in cui viviamo. Lingua e società non sono due entità fra loro indipendenti, ma si influenzano vicendevolmente e sono l’una il riflesso dell’altra, sia in un determinato momento storico, che nello scorrere del tempo e nei cambiamenti che intervengono. Sabatini usò questa importante premessa per poter ripensare il cosiddetto “maschile sovraesteso”, ovvero la tendenza androcentrica della lingua italiana – che è una lingua flessiva con solo due generi, femminile e maschile – a declinare al maschile i termini riferiti alle moltitudini miste (ad esempio, “i politici italiani” per parlare della classe politica italiana). Dal legame fra lingua e società, il saggio sottolinea anche come gli stereotipi di genere sia rinforzati anche dalle differenze fra i significati attribuiti alle differenti declinazioni dei nomina agentis – i nomi professionali, usati per descrivere una persona che svolge una determinata professione – o dal mancato uso del femminile per termini istituzionali e posizione di potere.
Se la lingua è un riflesso della società, anche il dibattito su di essa evolve quando la società lo fa e allarga le proprie discussioni: ecco che, nel momento in cui iniziamo a rimettere in discussione categorie sociali, differenze strutturali e discriminazione sistematica, anche la lingua che abbiamo adottato va ripensata. Questo accade su più livelli, tante quante sono le identità sociali che anche dalla lingua possono essere discriminate – e questi livelli dialogano fra loro e possono sovrapporsi, in ottica intersezionale. Ne tocchiamo alcuni, senza la pretesa di esaurire l’argomento.
Sulle parole s’interrogano anche le autrici del podcast Sulla Razza, Natasha Fernando, Nadeesha Uyangoda e Maria Catena Mancuso, specialmente nella puntata “La parola con la enne” – in cui però, spoiler, parlano anche di altre espressioni del comune linguaggio italiano. Soprattutto, mettono in discussione la carica di queste parole nel loro contesto, sottolineando il legame fra linguaggio e evoluzione sociale, culturale e storica del linguaggio in un determinato entroterra. Lo fanno discutendo della necessità o dell’eventualità di abbandonare o modificare l’utilizzo di espressioni che possono avere forte carica offensiva, come la N-word, anche in relazione all’impatto che esse hanno sulla percezione delle discriminazioni su base etnico-razziale in Italia.
Di parole si parla anche in merito a disabilità e, soprattutto, di come non parlare di disabilità e cambiare la narrazione sul tema proprio a partire dall’abbandono di alcuni termini in favore di altri. Centrale è la distinzione fra il c.d. person-first language, ovvero un linguaggio che metta al primo posto la persona e, solo dopo, come sua caratteristica, la disabilità (ne è un esempio l’espressione “persona con disabilità); e identity-first language, spesso utilizzato da chi fa attivismo: mette al centro la caratteristica (ne è un esempio l’espressione “persona disabile”), proprio per rivendicare l’uso, per spogliarla dai connotati negativi e utilizzarla con orgoglio, nonché per sottolineare lo stato di minoranza discriminata. Ne parla anche il divulgatore e docente Fabrizio Acanfora sul suo blog, sottolineando come la discussione sia lontana dall’essere chiusa; nel farlo però, riprende sempre lo stesso concetto presente anche nel podcast Sulla Razza, ma anche nel lavoro di Alma Sabatini: le parole non sono mai “soltanto” parole, ma condizionano la vita delle persone. Sono reali, materiali.
Infine, arriviamo al dibattito che forse ha fatto più notizia in tempi recenti: quello sullo schwa e sul linguaggio che superi il binarismo di genere. Qualche premessa: distinguiamo fra sesso, inteso come insieme di caratteristiche biologiche e anatomiche, e genere, cioè un costrutto sociale. Parliamo di ruoli o stereotipi di genere quando pensiamo a tutti quei comportamenti che la società attribuisce a un determinato genere. Parliamo invece di identità di genere quando parliamo della percezione interiore di un singolo soggetto rispetto al proprio genere di appartenenza – qui un glossario curato da GLAAD. Il binarismo di genere è un sistema che classifica il genere – e anche il sesso, spesso sovrapponendo appunto questi due concetti – unicamente secondo due categorie mutualmente esclusive, il maschile e il femminile, a cui vengo associati anche ruoli e caratteri specifici. Tuttavia, l’identità di genere non percorre solo due “binari”. Oltre al maschile e al femminile, esistono innumerevoli identità non binarie. Le persone non binarie non si riconoscono nelle categorie binarie di maschile e femminile: quando si parla di identità non binarie, si utilizza un termine ombrello sotto il quale diverse, specifiche identità. Qui s’inserisce la proposta dell’uso dello schwa - (ǝ), al plurale (з). La piattaforma Italiano Inclusivo spiega nel dettaglio l’utilizzo di questo simbolo grafico rispetto alle varie casistiche. Noi, qui, ci limitiamo a dire che lo schwa, sia al singolare che al plurale, corrisponde a un suono vocalico neutro, non presente nell’italiano classico ma utilizzato in diversi dialetti (ad esempio, lo ritroviamo in Curre Curre Guagliò). La proposta che prevede l’introduzione dello schwa nella lingua italiana lo applica perlopiù a due situazioni: di fronte a moltitudini miste, in sostituzione del maschile sovraesteso (ad esempio, “з politicз italianз”), e quando si parla di un soggetto non definito nel genere. (ad esempio, “unǝ verǝ amicǝ non mente”). In tutti gli altri casi non si utilizza – in presenza di espressioni già gender-neutral, ad esempio, o quando parlando in prima persona si afferma un’identità di genere maschile o femminile. Da molte persone che si occupano di sociolinguistica – fra cui troviamo Vera Gheno – la proposta dello schwa per una lingua più inclusiva dal punto di vista del genere è apprezzata per diverse ragioni. In primo luogo, rispetto all’asterisco (politic* italian*) lo schwa ha un suono; è preferibile anche rispetto alla -u (politicu italianu), perché il suono -u in alcuni dialetti è già associato al genere maschile. Tuttavia, ha anche dei limiti: non è presente sulla tradizionale tastiera QWERTY dei computer, o in quelle dei telefoni; e, più importante, può effettivamente creare problemi nella lettura a persone neurodiverse. Dunque, la proposta dello schwa ha pro e contro: probabilmente, può essere convincente in alcuni contesti, mentre in altri va, per ora, evitata. Tuttavia, anche il dibattito sullo schwa muove dalle stesse premesse che, abbiamo visto, essere largamente condivise: la lingua non è neutra. ma anzi l’origine dei nostri modelli culturali. Quando le persone parlano, scrivono, ascoltano, leggono, lo fanno in un modo che è socialmente determinato. Al tempo stesso, il linguaggio produce degli effetti e ha numerose ricadute sulle società. La selezione delle parole e il modo in cui costruiamo la lingua hanno il potere di influenzare la percezione di un determinato evento. Ed è questo che unisce il dibattito sullo schwa a quello su tutte le istanze che riguardano il linguaggio inclusivo: rispondono a un’esigenza. Nel caso dello schwa, l’esigenza di persone che sono state e tutt’ora vengono sistematicamente discriminate dal nostro sistema giuridico e sociale – ricordiamo che le identità non binarie non sono ancora riconosciute e c’è chi ne mette costantemente in discussione la validità – e che vengono discriminate anche dalla lingua corrente. Lo schwa è una proposta – sottolineiamo, una proposta – per provare a superare questo scoglio: è imperfetto, come modello, e potrebbe essere superato da una soluzione diversa in futuro. Ma l’esigenza alla base resta ed è valida. In generale, come associazione che si occupa di diritto – le famigerate “vere battaglie” – riconosciamo l’importanza della parola nel nostro operato. La nostra attività, del resto, è fondamentalmente caratterizzata dal linguaggio, nelle aule di tribunale o nelle piattaforme di divulgazione come questo blog. I diritti che difendiamo sono delineati tramite l’uso del linguaggio, come anche le leggi contro cui ci battiamo o che miriamo a cambiare. Nel riconoscimento di questo legame bidirezionale che intercorre fra linguaggio e diritto, sottolineiamo anche la fondamentale importanza di prestare ascolto alle comunità che cerchiamo di supportare e alle loro esigenze – che sono sempre presenti, quando esse parlano e propongono sul linguaggio. Per questo motivo, ci impegniamo affinché la nostra comunicazione sia il più possibile inclusiva: siamo disposti a cambiare, sperimentare, togliere e aggiungere sempre nel più profondo rispetto della lingua, intesa come entità viva e materiale, come delle persone e delle storie dietro ogni nostra battaglia.
A cura di Greta Temporin
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