top of page

Professionismo sportivo: discriminazioni moderne

Immaginate un Paese in cui le donne, nella propria attività lavorativa, siano prive di qualsiasi più basilare tutela giuridica e debbano scegliere, nel 2019, tra svolgere la loro occupazione o creare una famiglia.


Lo Stato di cui si parla è l’Italia, le donne di cui trattiamo sono donne come Sofia Goggia, vincitrice della medaglia d’oro nelle Olimpiadi di Pyeongchang 2018, di un argento ad Åre 2019 e di un’altra medaglia d’oro, stavolta a St.Moritz, nel 2017. Se volgiamo lo sguardo ai Mondiali di nuoto in vasca appena svoltisi in Corea del Sud, parliamo di donne come Federica Pellegrini e Simona Quadarella, entrambe medaglia d’oro, o come Martina Carraro e Benedetta Pilato, medaglie d’argento.


Queste strepitose atlete hanno in comune una cosa: l’aver fatto dello sport il loro lavoro. Si intende dire che la loro professione consiste nell’allenarsi e nel gareggiare, ossia quelle stesse attività che svolgono atleti come Gregorio Paltrinieri (medaglia d’oro ai Mondiali 2019) o Dominik Paris (medaglia d’oro in supergigante ai Mondiali di Åre).


Eppure, per lo Stato italiano, Dominik Paris è professionista mentre Sofia Goggia è dilettante. “Questione d’etichetta”, diranno i meno attenti.


Questa distinzione, basata sulla mera differenza di sesso, comporta il fatto che esclusivamente gli uomini possano godere di tutele giuridiche a fronte del loro impegno lavorativo nel mondo dello sport. Le donne, pur passando le stesse ore sulle fredde piste ad allenarsi duramente, non hanno diritto ad un contratto, né al TFR, né tantomeno alla maternità.


A livello giuridico, la normativa che regola i rapporti tra le società e i professionisti è la Legge n. 91/1981. La stessa lascia poi alla Federazione di ogni disciplina la scelta sulla possibilità di aprire le porte al professionismo, sulla base delle direttive del CONI. A distanza di 38 anni, il CONI ha dato il via libera al professionismo in 6 sole discipline, ora diventate 4, ossia calcio, golf, sci e basket. In ogni caso, il professionismo è riservato ai soli uomini. Una scelta che non può che definirsi palesemente discriminatoria.


Moltissime sono state le manifestazioni di dissenso in questi anni, alle quali si sono unite quelle di ASSIST - Associazione Nazionale Atlete, portavoce del movimento per il riconoscimento del professionismo alle atlete italiane. A mitigare la portata del danno intervengono i corpi militari, che assumono le atlete in cambio di prestigio. Il fenomeno appena illustrato, però, è solo la punta di un iceberg fatto di lacune giuridiche e di vuoti di tutele. Lo sport italiano produce il 2,8% del PIL, eppure non è prevista una normativa chiara ed uniforme che riconosca lo status di professionista a chi sia donna o, in generale, a chi svolga una delle attività sportive diverse dalle 4 sopra menzionate.


Gli addetti ai lavori invocano una riforma totale della materia che tenga conto, per altro, anche di allenatori, dirigenti, istruttori, ossia tutti soggetti che meritano senz’altro di vedere il loro ruolo riconosciuto ed inquadrato in una cornice giuridica ben precisa, di modo che i loro diritti, anche previdenziali, possano essere non solo individuati ma anche tutelati.


Un piccolo spiraglio di luce è rappresentato dal Fondo unico a sostegno del potenziamento del movimento sportivo, previsto dalla Legge di Bilancio 2018, col quale vengono stanziati alcuni fondi in favore delle atlete in maternità. Ma, pur essendoci forti dubbi sulla reale portata dello strumento, essendoci in ogni caso stringenti limiti per accedervi, si nota comunque come questa rappresenti solo una piccola toppa apposta su una ben più grande lacuna normativa.

bottom of page