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Qual è lo stato dei diritti di chi produce i vestiti che indossiamo?

Aggiornamento: 29 apr

È appena terminata la Fashion Revolution Week, una settimana di incontri, eventi e confronto per la comunità globale che si occupa di moda sostenibile, ambientalismo e diritti dei lavoratori nell'industria tessile.


L'evento, organizzato dall'associazione no profit Fashion Revolution, cade ogni anni nella settimana del 24 aprile, in commemorazione delle vittime del disastro di Rana Plaza. Il Rana Plaza è stato un edificio di otto piani, locato nella periferia di Dacca, Bangladesh, che ospitava alcune fabbriche d'abbigliamento e diverse migliaia di lavoratori e lavoratrici nell'industria tessile – impiegati per la produzione di grandi catene come Primark, Walmart, H&M e per il gruppo Inditex.


Il 24 aprile 2013, l'edificio subì un cedimento strutturale di entità considerevoli, che portò alla morte più di mille persone e né ferì il doppio, rendendolo il quarto più grande disastro industriale della storia. I problemi dell'edificio erano noti ai proprietari delle fabbriche tessili, che però disposero comunque il rientro dei lavoratori e delle lavoratrici al suo interno per rispettare le consegne e gli standard produttivi. Le vittime furono perlopiù giovani donne.

La settimana è stata ricca di momento di dialogo e confronto da parte delle più importanti personalità e community dedicate alla moda etiche e sostenibile. A otto anni di distanza dal disastro di Rana Plaza tuttavia, qual è il reale stato dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel settore tessile in tutto il mondo?

La pandemia pare aver esacerbato lo sfruttamento e l'abbandono nelle catene di produzione e distribuzione nel settore dell’abbigliamento, in particolare di quello della cosiddetta fast fashion. Già prima della diffusione del Covid-19 avvenuta nel 2020, essa si presentava come uno dei settori più redditizi al mondo e, al contempo, come una delle industrie in cui suoi dipendenti soffrono di più a causa di condizioni di lavoro estremamente precarie.


Orari di lavoro estenuanti per un salario medio bassissimo, esposizione continua a prodotti nocivi per la salute e per l'ambiente, mancanza di sicurezza negli ambienti di lavoro sono solo alcune delle violazioni sistematiche dei diritti di chi lavora nell'industria tessile globale, come riporta anche la piattaforma dedicata di Human Rights Watch.


Considerata anche la posizione geografica della maggior parte degli stabilimenti (che troviamo perlopiù in Asia e in America Latina) e la composizione della loro forza lavoro, segnaliamo che queste condizioni colpiscono perlopiù categorie che si trovano già in una posizione di minoranza o di sistematica discriminazione. Si tratta perlopiù di donne – soggette anche ad abusi e molestie sessuali sul posto di lavoro, come riporta il Global Fund for Women – perlopiù di colore o comunque non bianche, in posizioni economiche e sociali estremamente svantaggiate.

La sicurezza e la stabilità degli edifici dove gli operai e le operaie lavorano sono spesso precarie. Dopo il disastro di Rana Plaza, tentativi di arginare la precaria situazione degli stabilimenti e garantire un ambiente di lavoro sicuro ci sono stati. Un esempio positivo è stato senza dubbio il cosiddetto “Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh” (detto anche the Accord), siglato nel 2013: si tratta di un patto vincolante fra brand, rivenditori e sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici, volto ad assicurare in Bangladesh, un'industria RMG (Ready Made Garment) rispettosa della sicurezza e dei diritti umani.


L'accordo ha introdotto un sistema di monitoraggio e ispezione indipendente degli stabilimenti, nonché comitati interni alle singole fabbriche composti di rappresentanti democraticamente eletti fra i lavoratori ed è stato un notabile esempio di multistakeholder governance. Tuttavia, resta un accordo a termine, localizzato al solo Stato del Bangladesh. Altri Stati produttori, come India, Pakistan e Cina, dovrebbero seguire l'esempio, innanzitutto nell'incoraggiare la sigla di simili accordi tra sindacati indipendenti dei lavoratori e brand, nonché nel tutelare i primi e la loro posizione contrattuale.

È notabile il caso che ha posto di nuovo la Cina sotto i riflettori per il trattamento riservato alla minoranza etnica degli Uiguri, turcofoni prevalentemente di religione islamica perlopiù insediati nel Nord-Est del Paese. La minoranza era già al centro della discussione e delle rivendicazioni internazionali, in quanto sistematicamente perseguitati dallo Stato cinese – tanto che si è parlato, a proposito, di genocidio culturale, oltre che di sistematiche violazioni di diritti umani.


Nel 2020 inoltre è emerso che numerosi brand e produttori nell'industria della moda hanno continuato a rifornirsi di cotone e filato proveniente dallo Xinjiang, regione autonoma cinese in cui hanno vissuto e vivono tutt'ora la maggior parte delle persone di etnia Uigura. È stato illustrato come la produzione avvenga perlopiù attraverso lo sfruttamento del lavoro forzato di queste persone, come riportato anche dalla campagna Abiti Puliti.


In generale poi, il Covid-19 ha inasprito le condizioni in cui gli operai e le operaie tessili si trovano a vivere e lavorare. In seguito all'improvviso calo della produzione avuta nel 2020 e alla nuova difficoltà di spostamento delle materie prime, dovuta alla riorganizzazione del lavoro e alla chiusura delle frontiere, molti brand hanno deciso di risparmiare andando a tagliare proprio sulle categorie più deboli della catena produttiva. Milioni di lavoratori e lavoratrici negli stabilimenti tessili, in particolare quelli locati nel subcontinente indiano e nel Sud-Est asiatico, hanno visto il proprio posto di lavoro a rischio o hanno affrontato un licenziamento senza preavviso.


Molti di loro sono stati costretti a recarsi comunque a lavoro in condizioni igienico-sanitarie non all'altezza per la prevenzione della diffusione del virus Covid-19. Infine, innumerevoli brand hanno sospeso i pagamenti dei salari, protraendo questa situazione per svariati mesi e ponendo la sopravvivenza dei propri dipendenti e delle loro famiglie a rischio, come riportato anche da Human Rights Watch.


Come può agire il singolo consumatore in difesa dei diritti di chi dall'industria tessile subisce tali ingiustizie ed è esposto a soprusi e abusi?


Scelte individuali etiche possono essere fatte ricercando brand sostenibili – caratteristica che può essere controllate generalmente sul sito web di ogni produttore. Se essi presentano in maniera chiara e trasparente ogni passaggio della propria catena di produzione, indicando gli stabilimenti in cui i materiali vengono trattati e i prodotti fabbricati, nonché i Paesi in cui sono collocati, offrono una garanzia a chi acquista.


Tuttavia, le scelte individuali, per quanto consapevoli, non sono sufficienti. È necessario dare voce alle vittime di questo modello produttivo incentrato sullo sfruttamento, condividerne le storie e contribuire a fare pressione sui brand. Questo si può fare aderendo alle campagne e alle iniziative sempre più numerose, che mettono al centro proprio i lavoratori e le lavoratrice e amplificano la loro voce.


Fra queste, segnaliamo il movimento Who Made My Clothes, noto proprio a questo scopo dopo il disastro di Rana Plaza, e la campagna #PayUpFashion, volta a domandare salari dignitosi e pagamenti eseguiti nelle tempistiche previste all'industria dell'abbigliamento. Donare e supportare le organizzazioni che difendono i sindacati dei lavoratori in ciascun Paese produttore e contribuiscono a metterli in network è un passo importante, che ogni consumatore può compiere, per unirsi e domandare insieme il rispetto dei diritti umani.


A cura di Greta Temporin

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