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Riforma europea del copyright

Aggiornamento: 29 apr

Chiunque sia transitato sui social nei giorni scorsi avrà notato una notevole quantità di commenti sull’approvazione della Direttiva sul copyright da parte del Parlamento Europeo riunito in sessione plenaria. Giusto per fare un esempio, Wikipedia ha oscurato la propria pagina in Italia e in altri Stati come forma di protesta nei confronti di una normativa che riteneva profondamente ingiusta. Oltre agli utenti di internet, va segnalato che anche Google e Amazon hanno manifestato aperta ostilità nei confronti della Direttiva, in particolar modo per le difficoltà tecniche di applicazione..


La questione è piuttosto articolata per via della pluralità degli attori e degli interessi contrastanti. Fino ad oggi Internet è stato relativamente libero, con possibilità per gli utenti di avere accesso ad una quantità pressoché sterminata di informazioni di qualsiasi genere. Per la prima volta, l’Unione Europea sembra voler intervenire energicamente sul punto in modo da fissare alcuni paletti nell’utilizzo dei contenuti in rete.


Una piccola precisazione, prima di addentrarci nella lettura della norma: la definizione ‘Direttiva Copyright’, come molto spesso accade, è impropria. Il Copyright è infatti un istituto giuridico di origine statunitense e regolamenta il diritto di copia sull’opera all’interno di quell’ordinamento. In ambito europeo sarebbe più corretto parlare di diritto d’autore, ma spesso i due termini sono ritenuti intercambiabili.


Cosa c’entra StraLi?

L’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo riconosce la libertà di espressione. Questa può essere limitata, fra gli altri casi, attraverso le misure necessarie per la protezione dei diritti altrui. La nostra convinzione è che i diritti e le libertà fondamentali debbano ricevere la più ampia tutela possibile: il sacrificio di una delle pietre angolari di qualsiasi democrazia non dovrebbe mai avvenire sull’altare di interessi economici, quali sono quelli protetti dal diritto d’autore. Di seguito, analizzeremo gli aspetti più controversi di questa normativa per valutare se effettivamente vi sia il rischio di un’indebita compressione di un diritto o di una libertà fondamentale.


Precisiamo

Andiamo però con ordine: innanzitutto, si tratta di una Direttiva e non di un Regolamento. Questo significa che gli Stati Membri dovranno adesso provvedere a regolare la materia con una legge nazionale (in questo caso entro due anni), ovviamente rispettando quanto stabilito dalla Direttiva medesima e muovendosi nella cornice da questa delineata. Qua sorge il primo problema, perché ogni Stato è libero di articolare la propria legge come meglio crede, senza doversi in alcun modo coordinare con gli altri. Appare chiaro come, in materia di Internet, la creazione di ventisette diverse leggi potrà portare a parecchi problemi applicativi.


La maggior parte delle voci in rete si dichiarano contrarie ed esprimono forti preoccupazioni soprattutto in riferimento a due articoli: il 15, ribattezzato dai detrattori ‘link tax’ e il 17, cosiddetto ‘upload filter’ (in italiano potremmo renderlo come filtro sul caricamento), che nella precedente formulazione erano l’11 e il 13. La versione attuale degli articoli è il frutto di un lavoro di revisione del testo originario, che era stato bocciato in un primo tempo dal Parlamento, ed è pertanto stato modificato con l’aggiunta di diverse esenzioni. L’art. 2, comma sesto, infatti, esclude dall’applicazione della direttiva le enciclopedie online senza scopo di lucro (il riferimento a Wikipedia è abbastanza palese), i repertori didattici o scientifici senza scopo di lucro, le piattaforme open source, i mercati online e altri servizi che vengono elencati.


Linkare selvaggiamente

Introduce l’obbligo, da parte degli Stati, di riconoscere agli editori di giornali i diritti per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico. La nuova versione della Direttiva esenta da questa protezione i link, così come i titoli o brevi estratti dagli articoli. Da notare altresì che la protezione è accordata per due anni dalla pubblicazione: trascorso quel periodo, i contenuti saranno nuovamente condivisibili.


Il comma di chiusura prevede che gli Stati debbano, nella legislazione nazionale, avere cura che i giornalisti ricevano una quota adeguata dei proventi percepiti dagli editori. Una considerazione sul punto: l’impianto dell’intera riforma mira a tutelare il diritto d’autore, ma dall’analisi degli articoli sembra piuttosto chiaro che la protezione (leggi: i soldi) verrà accordata agli editori più che agli autori, i quali infatti possono fare affidamento solo sul presente comma e sulla bontà d’animo dei legislatori nazionali. Quanto quest’ultima previsione resterà lettera morta o sarà invece applicata correttamente, lo scopriremo solo col tempo.


Le esenzioni aggiunte nella versione finale del testo mitigano le critiche che erano sorte in un primo momento, quando sembrava che qualsiasi riferimento ad un articolo dovesse comportare un esborso economico. Ora non è più così, soprattutto la norma è stata scritta per obbligare al pagamento le piattaforme; siamo però sicuri che questo costo, in ultima istanza, non verrà fatto ricadere sugli utenti?


Prendetene e mematene

Traducendo in termini pratici le non semplici parole della Direttiva, quest’articolo richiede che le piattaforme vigilino affinché gli utenti non carichino opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti. Si richiede altresì che le piattaforme ottengano un’autorizzazione per poter sfruttare i diritti d’autore.


Addirittura, le piattaforme che non hanno ottenuto tale autorizzazione sono responsabili per il caricamento di opere protette dagli utenti a meno che dimostrino di aver compiuto i massimi sforzi per: 1) ottenere l’autorizzazione; 2) evitare che accadesse la violazione e 3) essere tempestivamente intervenute.


La Direttiva esonera dal proprio ambito di applicazione le piattaforme che sono attive da meno di tre anni e hanno un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di Euro, sempre che dimostrino di aver comunque fatto il possibile per ottenere l’autorizzazione e di aver agito tempestivamente in seguito alla segnalazione.


Sono fatti salvi i contenuti con finalità da un lato di citazione, critica e rassegna, dall’altro di caricatura, parodia o pastiche. Detto diversamente, si potrà continuare a produrre e far circolare online i meme.


Tirando le somme

In conclusione, occorre rivedere in parte i toni allarmisti che avevano condotto alla grande mobilitazione sul web: non è stato ancora ucciso Internet, sebbene questa riforma abbia palesemente lo scopo di tutelare principalmente gli editori e non tanto gli autori. Nel farlo, il legislatore europeo ha scelto una via discutibile, soprattutto con riferimento all’articolo 17. Come è stato detto, le piattaforme dovranno dotarsi di filtri onde evitare di violare il diritto d’autore e questo può portare a problemi di triplice natura. Il primo, e più intuitivo, riguarda il fatto che non tutte le piattaforme siano in grado di approntare tali filtri per via degli alti costi e dell’oggettiva difficoltà realizzativa. Se i giganti del web, come Google, hanno già segnalato le problematiche, possiamo solo immaginare quanto sia ancor più complicato per chi non dispone delle stesse risorse economiche (specie con riferimento all’ottenimento della licenza). Questo conduce al secondo problema, e cioè al rischio che i pesci piccoli siano in qualche misura messi ai margini del mercato perché non in grado di far fronte alla nuova normativa. Estremizzando l’ipotesi, si potrebbero gettare le basi per un oligopolio legalizzato, e ciò sarebbe quantomeno in contrasto con il duro lavoro svolto dalla Commissaria Vestager proprio contro i colossi di Internet, primo su tutti Google medesimo, multato la settimana scorsa per un miliardo e mezzo di euro. La soglia dimensionale individuata dall’art. 17 è piuttosto bassa e lascia fuori gran parte delle piattaforme: pensate che per non rientrare in quei parametri basta essere operativi da tre anni e un giorno e dover pertanto competere sullo stesso mercato delle multinazionali-balena.


Il terzo profilo critico riguarda più da vicino i filtri e gli algoritmi sui quali saranno basati: inevitabile pensare che in questa fase si annidino le maggiori preoccupazioni per la libertà di espressione in rete, che diventerebbe soggetta ad un controllo preventivo. Per giunta, un controllo operato da codici e non da esseri umani, se non altro in una prima fase, col rischio di chissà quante sbavature, che non sempre saranno corrette attraverso il reclamo, o perlomeno non tempestivamente, provocando di per sé una lesione della libertà espressiva.


StraLi ritiene che, nonostante i passi avanti rispetto alle precedenti versioni, la riforma introduca un sistema di controllo della libertà d’espressione sulla cui concreta applicazione rimangono cupe ombre. Dovendo necessariamente attendere il recepimento della Direttiva da parte degli Stati membri, è prematuro gridare allarmi, ma in futuro l’attenzione di cittadini e operatori del diritto dovrà essere molto alta.


Ad ogni modo, ci teniamo a segnalare che il voto di ieri non rappresenta ancora la definitiva approvazione della Direttiva: in base alle norme procedurali europee, infatti, dovrà ancora essere approvato dal Consiglio Europeo (che riunisce i leader dell’UE), presumibilmente ad aprile, per poi attendere la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

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