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SCIENCE NOT SILENCE

Aggiornamento: 29 apr

L'emergenza climatica è uno dei principali problemi del nostro tempo. Tutti ne parlano: c'è chi lo fa sostenendo che i dati scientifici che trattano della crisi ambientale siano una bufala, chi ne scrive in modo preoccupante per sensibilizzare l'opinione pubblica, chi, come Greta Thunberg, ha dedicato la propria quotidianità alla salvaguardia del nostro pianeta.

Tuttavia, se volgiamo il nostro sguardo a come le cose stanno andando ci renderemo conto che una piena presa di consapevolezza della situazione è ancora lontana, e che azioni quotidiane “ambientaliste” fanno fatica a concretizzarsi.


Espen Stoknes, uno psicologo e politico norvegese del Green Party, ha cercato di analizzare il problema per capire quali siano le barriere psicologiche e comunicative che impediscono alle persone di impegnarsi seriamente nella lotta al surriscaldamento globale. Un esempio: i giornali ci parlano degli effetti negativi del cambiamento climatico come se fossero distanti, nel tempo e nello spazio, ed è come se questa barriera della distanza giustificasse la nostra riluttanza nel mettere in atto dei comportamenti pro-environment.


La soluzione? Mostrare ai destinatari dell'informazione delle immagini che raccontino ciò che accade sotto casa loro, alle persone che vivono non distanti da dove abitano, e non solo fotografie che ritraggono lo scioglimento di ghiacciai all'estremo del globo terrestre.


Un'altra grande barriera psicologica è quella della condanna: uno studio dell'Oxford Institute of Journalism ha dimostrato che oltre l'80% delle notizie che riguardano il cambiamento climatico viene divulgato utilizzando il registro comunicativo del disastro. Far credere alle persone che tutto sia ormai perduto non fa altro che suscitare sentimenti di terrore e disperazione, che non portano altro che a paralisi ed abbattimento. Una strategia efficace sarebbe quella di utilizzare la regola del “3:1”: per ogni minaccia resa nota comunicare anche tre consigli di supporto per evitare le conseguenze negative della minaccia stessa e favorire la ricerca di soluzioni.


Un altro ostacolo è rappresentato dalla barriera della dissonanza cognitiva: tutti sappiamo che, ad esempio, l'utilizzo di carburanti fossili impatta negativamente sulla salute del nostro pianeta ma questa consapevolezza si scontra con quello che siamo costretti a fare, o che comunque finiamo per fare, ogni giorno. Si crea così una dissonanza cognitiva all'interno del nostro cervello, così potente che per fuggire dal disagio che crea in noi finiamo per auto-giustificare le nostre azioni con il fine di alleviare lo stress psicologico che nasce da tale dissonanza.


Per abbattere questo muro, iniziamo a parlare di abitudini più semplici, più piccole, come bere dalla borraccia anziché comprare decine di bottiglie di plastica ogni settimana: chiedere alle persone di cambiare in modo graduale le proprie abitudini quotidiane le rende più consapevoli e meno vittime di azioni di rinuncia.


Un'altra cosa che noi umani siamo spesso portati a fare è negare: quando sentiamo parlare dell'impatto che le nostre azioni quotidiane hanno sull'ambiente, molti di noi si sentono in colpa e hanno paura e, per difenderci dalla negatività di questi sentimenti, percorriamo la via del diniego, vivendo come se il problema non esistesse. Le fonti di informazione dovrebbero metterci di fronte alla realtà dei fatti in modo chiaro e limpido: esprimersi con un generico “tonnellate di CO2”, per molte persone, significa poco o, comunque, non rappresenta un qualcosa di tangibile. Piuttosto, sarebbe più utile parlare di soluzioni innovative che permettono, ad esempio, di tenere sotto controllo le azioni ambientali rendendoci consapevoli di quante emissioni di carbonio sono state risparmiate grazie alle nostre scelte quotidiane.


Infine, la barriera dell'identità: le notizie che ci raggiungono vengono costantemente filtrate dalla nostra identità culturale e personale. È questo il motivo per il quale tendiamo ad accettare solo informazioni che confermino idee e valori preesistenti nella nostra testa, trovando davvero molto difficile mettere in atto cambiamenti radicali nel nostro modo di vivere. Non ha senso, quindi, parlare del cambiamento climatico che avviene nel mondo “in generale”: sarebbe più utile utilizzare una narrazione che parli di storie personali, che celebri le persone che vivono l'esperienza, piccola ma appagante, di sentirsi parte di quella fetta di popolazione mondiale che sta aiutando il pianeta. Se i media ci parlassero in questo modo, forse, troveremmo più facile riconoscerci in quelle persone senza avere paura che il nostro senso di identità personale venga minacciato.


L'influente quotidiano britannico The Guardian, partendo appunto dall'assunzione della gravità della questione ambientale, ha deciso pochi giorni fa di cambiare lo stile comunicativo con cui parlare della crisi climatica. L'obiettivo, dichiarato dalla direttrice Katharine Viner, è quello di comunicare i dati in modo più chiaro ed accurato, così che venga favorita la presa di consapevolezza da parte dei lettori e stimolata la messa in atto di azioni pratiche.


Degli esempi? Al posto del termine “cambiamento climatico” verranno utilizzate espressioni come “emergenza climatica”, “crisi climatica” o “catastrofe” (quest'ultima davvero funzionale alla luce di ciò che abbiamo detto poco fa?). Il “global warming” verrà soppiantato dal “global heating” per sottolineare l'intensità e la gravità del fenomeno e gli “scettici” del clima verranno chiamati “negazionisti” per descrivere più accuratamente la personalità di chi continua a screditare l'emergenza ambientale a dispetto delle numerose evidenze scientifiche.


I cambiamenti del Guardian riguarderanno anche le immagini a corredo degli articoli, al fine di comunicare visivamente le conseguenze negative del global heating. Le linee guida per la scelta delle foto sono diverse: mostrare persone reali, situazioni di vita quotidiana su cui la crisi ambientale ha avuto un impatto fortemente negativo, luoghi, situati nelle vicinanze dei destinatari delle informazioni, in cui siano avvenuti importanti cambiamenti climatici. Inoltre, è di fondamentale importanza considerare il pubblico a cui ci si rivolge: le immagini che ritraggono gli effetti del cambiamento climatico in zone “lontane” sembrano suscitare scarse risposte emotive tra chi segue la destra politica, mentre quelle che suggeriscono soluzioni avrebbero un impatto emotivamente positivo per le persone di qualsiasi orientamento politico.


Infine, andrebbero evitate le contraddizioni: come fa notare Fiona Shields, photoeditor del Guardian, i media britannici, l'estate scorsa, hanno scritto numerosi pezzi sull'emergenza suscitata dalle anomale ondate di caldo e dalle condizioni meteorologiche non stagionali. La pubblicazione di questi articoli, tuttavia, era accompagnata da fotografie che ritraevano persone che giocavano con l'acqua e si recavano al mare, riducendo in modo incongruente la dimensione della gravità con cui il testo trattava della questione.


Noi ci auguriamo senz'altro che la nuova decisione del quotidiano britannico sortisca l'effetto desiderato e che, nel caso in cui ciò accadesse, molti altri media seguano il suo esempio.

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