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TWAIL: I DIRITTI UMANI A SECONDA DEI PUNTI DI VISTA

I diritti umani così come li conosciamo defluiscono storicamente dall’Occidente del mondo; la loro formulazione e la loro interpretazione tendono a trascurare istanze, prospettive e valori provenienti dal Terzo Mondo. Da questa considerazione nasce ilTerzomondismo nel diritto internazionale, che rileggendole aspira a reinventare le regole del gioco.

Stiamo dando per scontato il concetto di universalità dei diritti umani? Secondo un gruppo di accademichз e professionistз del diritto internazionale, sì. Dalla prospettiva del movimento intellettuale che prende il nome di TWAIL (Third World Approaches to International Law), i diritti umani costituiscono un patrimonio normativo discutibile e che è importante (e necessario) mettere in discussione: questo corpus normativo è oggetto di critica perché non ha tenuto e non tiene conto di adeguati input dai Paesi del Sud globale, così disattendendo la sua originaria promessa di universalità.


Si tratta di un vizio genetico: in primis perché, se ci si chiedesse quali sono i centri in cui in cui le regole del diritto internazionale vengono alla luce, si penserebbe subito a Washington, New York o Ginevra, i luoghi in cui hanno sede le maggiori organizzazioni internazionali. In secondo luogo perché, nella genesi storica del diritto internazionale dei diritti umani, gli Stati europei e nordamericani hanno giocato un ruolo da protagonisti ingombranti.Ci spieghiamo meglio attraverso un esempio che riveste un’importanza cruciale nella prospettiva del TWAIL: la redazione della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. La Dichiarazione, nota per aver codificato per la prima volta i diritti fondamentali, costituisce ancora oggi una stella polare nell’applicazione dei diritti umani. Tuttavia, nonostante la dichiarata aspirazione universalistica, la partecipazione di esponenti dei Paesi del Sud globale alla sua redazione è stata limitata e scarsamente rappresentativa. Quando la Dichiarazione, nata sotto gli auspici dell’ONU, era in cantiere, solo una cinquantina di Stati erano membri delle Nazioni Unite. Di questi ultimi, solo quattro erano del continente africano, all’epoca impegnato a combattere le battaglie di indipendenza dai poteri coloniali.


Non solo: l’UNESCO aveva raccolto un consiglio di studiosз a lavorare sulle basi teorico-filosofiche dei diritti umani, con lo scopo di conferire al testo redigendo una solida legittimità, anche e soprattutto in termini di condivisione globale dei suoi contenuti. Eppure, tra le voci chiamate a conferire in questo momento fondazionale dei diritti umani solo due provenivano dall’America Latina, una dalla Cina, tre da tutta l’Africa. Nonostante la loro presenza minoritaria, queste voci non hanno mancato di evidenziare differenze di posizioni che, però, sono rimaste prive di risonanza nel coro che alla fine ha condizionato e determinato in via definitiva il contenuto del testo. I 48 Stati favorevoli all’adozione della Dichiarazione sono diventati 170 nel 1993, quando in occasione della Conferenza mondiale di Vienna i membri dell’ONU si sono riuniti a rievocare l’importanza dei diritti umani e hanno sancito il dovere di proteggerli per tutti i Paesi del mondo, “indipendentemente dai loro sistemi politici, economici e culturali”.


A partire dalla Dichiarazione, il corpus normativo dei diritti umani è stato di ispirazione europea ed eurocentrica. Per lз esponenti del TWAIL, questi diritti non sono oggettivi, né neutrali, né apolitici, tanto nella loro formulazione quanto nella loro interpretazione e applicazione. Tant’è che, dopo la loro nascita made in West, sono stati trattati come un “regalo dall’Occidente al resto del mondo”: all’indomani della loro genesi infatti sono stati elargiti – calati dall’alto – a popolazioni e continenti, arrivando talvolta a essere strumentalizzati per scopi discutibili. Ad esempio, per giustificare programmi dagli obiettivi politici ed economici tendenzialmente neoliberali e utili a creare un ambiente remissivo, e dunque recettivo, degli interessi economici occidentali. Il paradosso è poi che la soddisfazione di questi interessi finiva spesso per violare quegli stessi diritti umani (delle popolazioni locali) che gli attori occidentali avevano dichiarato di voler proteggere.

In questo stesso quadro, quelle che ancora oggi vengono largamente considerate le “peggiori” violazioni dei diritti umani sono tendenzialmente quelle che l’occhio occidentale identifica come tali, e quasi sempre quelle che riguardano i Paesi del Sud Globale: le culture di questi Paesi tendono a essere stigmatizzate come particolarmente negligenti nei riguardi dei diritti umani e il giudizio occidentale diffuso alla stregua di una verità oggettiva, come se i diritti umani fossero un pacchetto “culture-free”.

Ma è davvero così? Davvero abbiamo a che fare con regole neutre?


In realtà, la pratica dei diritti umani è diversificata nel mondo. Non è un fatto nuovo: nonostante la loro codificazione una tantum, è pacifico che questi diritti si siano evoluti nel corso del tempo, espansi e ristretti nella loro interpretazione. Eppure, tendiamo a non accettare con la stessa facilità che possano mutare anche spazio, a seconda del contesto culturale e dell’eredità di tradizioni e costumi dei popoli. Ma che vogliamo riconoscerle o no, queste differenze esistono: succede infatti che, mentre i diritti umani codificati sono quasi esclusivamente diritti individuali, l’idea stessa di diritto soggettivo è invece del tutto estranea al costume confuciano: in cinese nessuna parola corrisponde al concetto occidentale di diritto soggettivo o del singolo, e al suo posto viene privilegiata la “relazione sociale fondamentale”. Nelle culture asiatiche, l’enfasi è rivolta verso l’armonia sociale, il bene della collettività, il senso di appartenenza a un gruppo e la religione intesa come parte della sfera pubblica; al contrario, il modello occidentale privilegia la libertà individuale e considera il singolo centro di imputazione pressocché esclusiva dei diritti.


L’aver assunto la prospettiva occidentale come quella “corretta” e averla oggetivizzata ha lasciato dunque in eredità la tendenza a prioritizzare i diritti individuali, come la libertà di pensiero e di religione, rispetto a quelli collettivi, come il diritto allo sviluppo e all’autodeterminazione. La stessa cosa è successa con i diritti civili e politici rispetto a quelli economici, sociali e culturali. Nell’approccio terzomondista, invece, gravi violazioni dei diritti umani come la malnutrizione e la scarsa scolarizzazione hanno riacquistato urgenza e dignità.

Questa tendenza è particolarmente evidente quando si parla di diritti delle donne: le mutilazioni genitali ed il velo suscitano sempre rinnovata indignazione e ripugnanza mentre l’assenza o la cattiva qualità dell’istruzione, la povertà estrema, la salute, la distribuzione del potere economico tra i generi rimangono ai margini. E così i fari del mondo sono instancabilmente puntati sul burqa delle donne afghane mentre, nel silenzio generale, lo sfruttamento compulsivo da parte di imprese europee delle risorse naturali della Nigeria accorcia la vita delle donne nigeriane e rende loro estremamente difficile nutrire le famiglie di cui sono costrette a farsi carico. Universalizzare la prospettiva occidentale tende perciò a introdurre una gerarchia nei e tra i diritti umani, e infine a sottovalutarne alcuni sulla base della loro conformità al modello culturale occidentale.


La gerarchia dei diritti si sviluppa trasformandosi in gerarchia nel diritto: l’art. 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia, l’organo giurisdizionale delle Nazioni Unite con sede a L’Aja, nell’elencare le fonti del diritto internazionale annovera, oltre al diritto positivo e a quello consuetudinario, i “principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili”, con ciò introducendo esplicitamente una distinzione tra Stati civili e Stati che civili non sono, e ricollegando solo agli ordinamenti giuridici dei primi la possibilità che i loro principi siano considerati internazionalmente validi.

La gerarchia nel diritto finisce poi per generare una gerarchia tra le persone: è stato sotto gli occhi di tutti (e denunciato da molti) come gli strumenti giuridici messi in campo dall’Europa per rispondere all’esodo ucraino causato dall’aggressione russa non ha avuto precedenti. L’Europa infatti non è mai stata così efficiente nel rispondere alle masse migratorie provenienti dall’Africa o dal Medio Oriente, neppure quando numericamente più esigue, determinando così un doppio standard nel sistema europeo di accoglienza e nella protezione di migranti umanitari sulla base del Paese di provenienza.


In questo quadro di rapporti non sempre equi, lз esponenti del TWAIL si sono assuntз il compito di decolonizzare e reinterpretare il diritto internazionale e i diritti umani. Ma c’è di più: la loro opera non si esaurisce nella dimensione negativa, distruttiva di dogmi e tradizioni. La loro missione è, anche e soprattutto, creativa e reinventiva di nuovi spazi di convergenza, inclusività, cooperazione, mutuo rinforzo.

Per lз professionistз dei diritti umani questa non è la fine, non è la negazione dei diritti umani e il trionfo del relativismo assoluto: le norme internazionali possono – e devono – essere viste come un orizzonte infinito di possibilità, a cui guardare con uno sguardo che sia effettivamente inclusivo. Alla base dei diritti umani ci sono valori comuni a tutte le società del mondo, ma la loro interpretazione è polimorfa, e ogni versione egualmente difendibile. Senza le voci dal Sud globale, il diritto internazionale dei diritti umani non potrà mai dirsi effettivamente internazionale: dar loro spazio e integrarle è una sfida pratica non semplice, richiede apertura allo scambio, sensibilità interculturale, rispetto.

Ma si tratta di uno sforzo naturale, e forse anche dovuto, per una disciplina fondata sull’eguale dignità di ogni essere umano.


A cura di Loide Cambisano

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