L’Italia, si sa, è il paese delle code: code per le poste, code per la banca, code per accedere al pronto soccorso. Ed è per questo che – purtroppo– non ci stupisce che anche coloro che hanno diritto a non essere reclusi, ma ad essere curati, siano posti in una lista d’attesa. Peccato che qui aspettare non significhi passare ore in piedi sbuffando finché non viene chiamato il proprio numero... ma essere rinchiusi in una cella nel carcere di Rebibbia.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) il 24 gennaio 2022 ha accertato che questa prassi tutta italiana è contraria alla CEDU. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno attestato che lo Stato italiano ha violato gli articoli 3 (trattamento inumano e degradante); 5 § 1 (diritto ad essere privati della libertà personale solo se detenuti regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente); 5 § 5 (mancanza di mezzi per ottenere una riparazione con un sufficiente grado di certezza); 6 § 1 (diritto ad un equo processo), e 34 (diritto ad un ricorso individuale) della CEDU.
Stiamo parlando della sentenza Sy contro Italia. È il 2017 e il sig. Sy è accusato di una serie di reati (molestie, resistenza a pubblico ufficiale, percosse). Il 4 settembre 2017 viene sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal giudice per le indagini preliminari (GIP) di Roma. Soffre di disturbi della personalità (“caratteristiche miste di personalità antisociale e borderline”, si legge) e di disturbo bipolare, aggravati dall’uso di sostanze stupefacenti. È per questo che il GIP richiede di accertare – tramite una procedura particolare di produzione di prove denominata incidente probatorio – lo stato psicologico di Sy al momento della commissione del fatto, nonché la sua pericolosità sociale.
Facciamo una piccola digressione (da giuristi). L’art. 206 del nostro Codice penale prevede che durante la fase delle indagini preliminari e del giudizio il giudice possa disporre che l’infermo di mente sia provvisoriamente ricoverato in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) finché non cessa di essere socialmente pericoloso. Il ricovero (anche preventivo) in REMS è una delle misure di sicurezza detentive che ai sensi dell’articolo 215 c.p. possono essere comminate a soggetti ritenuti pericolosi socialmente. Le REMS sono il risultato del travagliato percorso che ha portato alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), strutture dalle condizioni igienico sanitarie, organizzative e clinico-psichiatriche assolutamente inaccettabili. A differenza degli OPG, le REMS nascono come strutture a completa gestione sanitaria, dove viene data priorità al percorso terapeutico dei soggetti che non possono essere riabilitati tramite la detenzione in un carcere ordinario o altri strumenti alternativi (come l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale). Ciò non toglie che le REMS abbiano comunque lo scopo di controllare la pericolosità del soggetto affetto da patologia mentale che ha commesso un reato. La pericolosità sociale è un concetto fumoso, il cui accertamento spesso fatica ad incastrarsi fra sapere scientifico e sapere giuridico. Ha a che fare con il futuro: ci si chiede se vi è la possibilità che una persona, che ha già commesso reati, ne commetta altri.
Torniamo al nostro caso: il 3 ottobre 2017 il perito deposita la relazione, dove si legge che il Sy, al momento della commissione dei reati si trovava in una condizione di infermità tale da escludere la sua responsabilità. Lo stesso perito dichiara che il sig. Sy dovrebbe essere considerato socialmente pericoloso e che pertanto necessita di trattamento e riabilitazione terapeutica (e non di detenzione). Di conseguenza, il GIP sostituisce la custodia cautelare in carcere con la misura di sicurezza personale provvisoria del ricovero in una REMS per un anno, da attuare al più presto. La misura però non viene eseguita in concreto, in quanto non c’era spazio in alcuna struttura. Il sig. Sy, dunque, rimane in carcere, anche se lì non ci dovrebbe stare.
Il 22 novembre 2017 il sig. Sy viene poi assolto tramite giudizio immediato sulla base della perizia psichiatrica e anche qui gli viene applicata la misura di sicurezza REMS – questa volta in via definitiva – per un periodo di sei mesi. Il 23 dicembre 2017, però, il sig. Sy viene rilasciato in quanto non c’era alcuna struttura specializzata che si potesse prendere cura di lui.
Tra il 2018 e il 2019 si ripetono dinamiche simili: il ricorrente commette reati ulteriori, viene arrestato e portato in carcere, viene più volte sottolineato il suo bisogno acuto di cure psichiatriche, fino a quando nel gennaio 2019, dopo un tentativo di suicidio, lo psichiatra del carcere di Rebibbia dichiara che il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione ordinaria e che è necessario il trasferimento in un reparto psichiatrico del carcere o in una struttura psichiatrica esterna al carcere. Trasferimento che non è mai avvenuto: la storia si ripete.
A partire dal febbraio 2019, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) inizia la ricerca di REMS disponibili ad accogliere il sig. Sy, sia nella regione Lazio che fuori regione. Nessuna struttura, però, ha posto. Nel frattempo, il sig. Sy è ancora in una cella del carcere di Rebibbia, struttura gravemente sovraffollata e con serie difficoltà nel gestire persone affette da patologie psichiatriche (come affermato nel rapporto di Antigone e nella relazione del Garante Nazionale dei Detenuti).
Il sig. Sy, tramite i suoi legali, adisce la Corte EDU tramite ricorso urgente: il 7 aprile 2020 la Corte EDU ordina al governo italiano di assicurare il trasferimento del ricorrente in una REMS o in una struttura che fosse in grado di garantire le cure terapeutiche necessarie per le patologie sofferte del ricorrente. Il governo riferisce alla Corte EDU di aver informato il giudice dell’esecuzione, unico soggetto competente ai sensi del diritto penale italiano a dar esecuzione al comando della Corte EDU. Riferisce inoltre di aver fatto più richieste alle strutture REMS presenti sul territorio, senza alcun successo.
Il 4 maggio 2020 arriva l’ennesima perizia psichiatrica: il sig. Sy è ancora pericoloso per la società ed ha bisogno di un trattamento terapeutico adatto. L’8 giugno il giudice dell’esecuzione ordina nuovamente l’applicazione della misura di sicurezza del collocamento in una REMS per almeno un anno. Finalmente, il 27 luglio 2020, il sig. Sy viene trasferito nella REMS Castore di Subiaco (Roma).
Si arriva così ad un nuovo ricorso alla Corte EDU da parte del sig. Sy, questa volta con procedimento ordinario. I legali di Sy paventano la violazione degli articoli 3, 5 § 1, 5 §5, 6, 13 e 34 della CEDU.
L’articolo 3 CEDU, in particolare, impone agli stati parte della convenzione di assicurare che ogni persona ristretta sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Ciò comporta che anche la sua salute e il suo benessere debbano essere garantiti tramite le cure mediche necessarie. Nel caso di detenzione di una persona affetta da una patologia psichiatrica, più vulnerabile rispetto alla popolazione detenuta generale, vi deve essere ancora più attenzione da parte dello stato. Non basta che il detenuto riceva assistenza medica nel corso della detenzione: questa deve essere adeguata. In più, l’assenza di una strategia terapeutica globale nel caso di un detenuto affetto da patologie psicologiche o psichiatriche può equivalere ad un abbandono terapeutico contrario all’essenza dell’articolo 3 CEDU.
Nel caso del sig. Sy, la Corte ha dichiarato che, nonostante le indicazioni chiare e inequivocabili sull’incompatibilità dello stato di salute mentale del ricorrente con la detenzione in un carcere ordinario, il sig. Sy è stato ristretto in un carcere per quasi due anni. Egli non ha potuto beneficiare di alcun piano terapeutico globale per curare o prevenire l’aggravamento delle sue patologie ed è stato detenuto in un contesto caratterizzato da condizioni di detenzione inadeguate. Tutto ciò, afferma la Corte, è in violazione dell’articolo 3 della CEDU. Inoltre, l’aver trattenuto (nel periodo dal 21 maggio 2019 al 10 maggio 2020) il sig. Sy in carcere per mancanza di una struttura REMS disponibile ad accoglierlo non è una giustificazione valida e pertanto la detenzione è contraria all’articolo 5 § 1 della CEDU. Infine, lo Stato italiano non ha rispettato la misura provvisoria indicata dalla Corte EDU (che consisteva nell’assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura che fornisse cure terapeutiche adeguate) poiché ciò è stato fatto solo 35 giorni dopo il provvedimento, tempo considerato dalla Corte EDU irragionevole.
Per questi motivi, la Corte EDU ha condannato lo Stato italiano a risarcire il sig. Sy del danno morale subito.
Tiriamo le somme.
Il caso del sig. Sy, purtroppo, non è isolato.
La nostra stessa Corte Costituzionale (sentenza 22 del 27 gennaio 2022) ha affermato che vi sono tra le 670 e 750 persone attualmente in lista d’attesa per essere collocate in una REMS. Il tempo medio di permanenza nella lista è di 304 giorni. Solo in Sicilia, ad esempio, ci sono 172 persone in lista, con un tempo medio di permanenza nella lista di 458 giorni. La Corte Costituzionale, rigettando le questioni di legittimità proposte, ha ammonito il legislatore ad eliminare al più presto “i numerosi profili di frizione con i principi costituzionali” che sono causati dall’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di REMS nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche. La stessa Corte ha ammesso di non poter dichiarare l’incostituzionalità delle norme che sono alla base della misura del ricovero in REMS, in quanto ciò causerebbe un immenso vuoto di tutela.
Siamo davanti ad un meccanismo difettoso che non permette la tutela del diritto alla salute del malato-reo. Le REMS, ai sensi del dettato normativo, sono a numero chiuso: “non possono essere sovraffollate”. Allo stesso tempo, le strutture disponibili non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno del sistema penale: il risultato è un cortocircuito, dove la violazione dei diritti della persona la fa da padrone.
La macchina del “sistema REMS”, quindi, si è inceppata: ci auguriamo solo che lo Stato italiano abbia ricevuto lo scossone necessario per procedere ad una vera riforma, che non si limiti ad aumentare la capienza delle REMS o a creare nuovi reparti speciali all’interno delle carceri, ma che sia orientata a potenziare le strutture sanitarie territoriali già esistenti, ad assumere più personale (sanitario e non) e a formare quello già assunto. Insomma, serve una riforma che porti una boccata d’aria ad un apparato, quale quello rivolto a coloro che sono ai margini dei margini, che non ce la fa più. Noi di StraLi la aspettiamo con (poca) pazienza.
A cura di Alice Giannini
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