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LA COMPLESSA VICENDA DEL "REATO DI TORTURA" IN ITALIA

Aggiornamento: 27 giu 2023

Quale tutela per le vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine?



La Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura: un’occasione per riflettere


Il 26 giugno si celebra la Giornata internazionale delle Nazioni Unite a sostegno delle vittime di tortura, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU in occasione del 50° Anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Al suo art. 5, infatti, la Dichiarazione stabilisce che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Istituita con la risoluzione 52/149, la giornata nasce come un’opportunità per chiedere alla comunità internazionale, e in particolare agli Stati membri dell’ONU, di rafforzare la propria azione a tutela delle vittime di tortura. Ciò, in particolare, alla luce di quanto previsto dalla Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti adottata dall’ONU nel 1984 e ratificata ad oggi da 173 Stati – tra i quali l’Italia.

Ed è proprio per il nostro Paese che questa giornata rappresenta un’opportuna occasione di riflessione, soprattutto alla luce dei recenti episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine avvenuti a Milano e a Verona. Infatti, nonostante l’adozione della convenzione da parte del Governo– così come del suo Protocollo Opzionale dedicato alla prevenzione della tortura – la vicenda dell’istituzione e condanna del reato di tortura in Italia costituisce una questione piuttosto complessa. Nonostante la ratifica del trattato sia avvenuta già nel 1989, in effetti, il reato di tortura viene istituito in Italia solo nel 2017. Ciò, a seguito di un complesso iter parlamentare dove fu messa in luce l’inadeguatezza del sistema italiano a fronte dell’ordinamento internazionale in materia di divieto di tortura (previsto, tra l’altro, dalle Convenzioni di Ginevra, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, dal Patto sui diritti civili e politici e dallo Statuto della Corte Penale Internazionale, tutti ratificati dal Governo italiano), nonché della condanna dell’Italia emessa nel 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito al caso Cestaro, attivista italiano picchiato a Genova durante il blitz della polizia alla scuola Diaz nel 2001. Sotto questi auspici, si arrivò così all’adozione della legge n. 110 del 2017, che introduce nel codice penale i reati di tortura e di istigazione alla tortura rispettivamente agli artt. 613-bis c.p. e 613-ter c.p. In particolare, l’art 613-bis c.p. prevede che “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

Approvate dopo lunghe negoziazioni e numerose modifiche del testo di legge, le disposizioni sono state giudicate da molte persone come insufficienti, seppur un miglioramento rispetto alla situazione precedente la loro adozione. All’indomani dell’adozione, infatti, tali articoli sono stati definiti da parte della politica un “compromesso al ribasso”, e giudicati inadeguati al proprio scopo da molte associazioni attive nella tutela dei diritti umani. In particolare, fu evidenziato come l’art. 613-bis c.p. sarebbe stato difficilmente applicabile dai tribunali italiani, in quanto esso circoscrive il reato di tortura alla presenza di una serie di circostanze specifiche che non rappresentano, di per loro, un’esaustiva rappresentazione del fenomeno così come esso è inteso a livello mondiale.

I limiti dell’art. 613-bis c.p. e l’inadeguatezza del sistema penale italiano in materia di tortura alla luce del diritto internazionale


Ratificata dal Governo italiano con la legge n. 498 del 1988, la Convenzione ONU contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti nasce come strumento per contrastare gli atti di violenza e tortura commessi nei confronti di individui privati della libertà personale da parte di chi è titolare di una funzione pubblica. Così recita infatti l’art. 1 della Convenzione[1], che definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali” al fine di ottenere da essa informazioni o confessioni, di punirla o intimorirla. In particolare, l’art. 1 prevede che tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Ai sensi della convenzione, quindi, la tortura consiste in un reato commesso da un pubblico ufficiale, che si manifesta nell’abuso di potere ossia, precisamente, in un esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima. Ed è proprio per contrastare questo fenomeno che, agli artt. 2 e seguenti, il trattato stabilisce una serie di obblighi in capo ai suoi Stati Parte, i quali si impegnano ad adottare adeguate misure per impedire che tali atti di tortura vengano commessi nel proprio territorio. In particolare, la Convenzione obbliga gli Stati a adottare provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari per tutelare e vigilare sul rispetto della dignità umana degli individui privati della libertà personale, stabilendo come l'ordine di un superiore o di un'autorità pubblica non possa in nessun modo essere invocato a giustificazione della tortura (art. 2). Allo stesso modo, gli Stati sono tenuti a garantire un’adeguata formazione degli agenti della funzione pubblica in materia di divieto di tortura (art. 10), e a esercitare una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio nonché sulle disposizioni relative alla custodia della tutela delle persone arrestate, detenute o imprigionate (art. 11).

Quanto al risarcimento delle vittime di tali atti, l’art. 14 stabilisce che ogni Stato deve garantire, nel suo ordinamento giuridico, il diritto ad ottenere riparazione ed essere risarcito equamente ed in maniera adeguata, “inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile”.

Proprio per vigilare sull’adempimento di tali obblighi (si ricordi, infatti, che il trattato costituisce una fonte vincolante per il nostro ordinamento), la convenzione istituisce, all’art. 17 e seguenti, un apposito Comitato contro la tortura (Committee against Torture, “CAT”), al quale gli Stati Parte sono tenuti a presentare periodicamente delle relazioni sulle misure da loro adottate per contrastare la tortura nel proprio territorio. Alla luce di tali relazioni, il Comitato valuta la corretta applicazione del trattato da parte degli Stati membri, prendendo eventuali provvedimenti specifici.

Ed è proprio nel Report CAT/C/ITA/CO/5-6 (“CAT Report”) elaborato nel 2017 dal Comitato per valutare le relazioni presentate dall’Italia che il CAT evidenzia come il sistema penale italiano sia, nonostante la formale adesione del nostro paese a tutti gli strumenti internazionali adottati dalle Nazioni Unite a tutela dei diritti umani, sostanzialmente inadeguato a garantire un’effettiva e adeguata protezione alle vittime di tortura presenti sul proprio territorio.

Come riportato al paragrafo 10 del CAT Report, tale inadeguatezza deriverebbe proprio dall’errata definizione e criminalizzazione del reato di tortura effettuata nel nostro paese. Secondo il Comitato, infatti, il dettato dell’art. 613-bis c.p. è incompleto. Oltre a circoscrivere la fattispecie alla presenza di circostanze specifiche non previste dalla Convenzione (il reato deve essere stata compiuta con crudeltà, mediante più condotte, e deve provocare un verificabile trauma psichico), esso configura il reato di tortura come un reato comune, ossia un reato imputabile a chiunque, e non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece stabilito dalle Nazioni Unite. Per queste ragioni, il CAT critica aspramente la normativa italiana, definendola “significantly narrower than the definition contained in the Convention” (CAT Report, para. 10, enfasi aggiunta), e invitando l’Italia a modificare quanto prima il proprio codice penale così da garantire alle vittime di tortura adeguato riconoscimento – e conseguente tutela.

Oltre a ciò, il CAT Report mette in luce una serie di altri limiti riscontrati nell’ordinamento italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, derivanti anche dall’ambigua definizione della fattispecie ex artt. 613-bis e 613-ter c.p. In particolare, il Comitato evidenzia la poca trasparenza del Governo italiano sul rispetto dei provvedimenti emessi dall’Autorità italiana garante per i detenuti (para. 14), la continua violazione da parte dello Stato di alcune libertà fondamentali in materia di giusto processo (para. 18), l’inadeguatezza delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane (para. 32), nonché l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine (para. 38). Su questo ultimo aspetto, poi, il Comitato si sofferma particolarmente. Il CAT richiede infatti al Governo italiano di garantire adeguati meccanismi di condanna per chi si rende responsabile di tali atti. Questo, precisamente, adottando misure che permettano di identificare le forze dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche, così da garantire efficaci ed imparziali indagini sulla loro condotta.

Un approccio ancor più critico nei confronti del nostro ordinamento è stato adottato, più recentemente, dal Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani o Degradanti del Consiglio d’Europa (European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment o “CPT”). In seguito alla sua visita periodica nel nostro Paese avvenuta nel marzo/aprile 2022, il CPT ha infatti pubblicato il Report CPT/Inf (2023) 5 dedicato alla valutazione del sistema italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, per valutarne l’impatto anche a seguito della pandemia da Covid 19. Anche in questo caso, l’Italia è stata severamente criticata dal Comitato, che si esprime con grande preoccupazione in merito agli abusi subiti dagli individui privati della libertà personale da parte delle nostre forze dell’ordine. Nella sezione A.2 del documento, infatti, si legge come il CPT abbia ricevuto, durante la sua visita, innumerevoli segnalazioni di violenze subite da arrestati e detenuti da parte di pubblici ufficiali, e in particolare di agenti della Polizia di Stato e dei Carabinieri. In particolare, il Report si concentra ai paragrafi 12.i/.ii e 16 sui casi di Milano e Torino, teatro nel biennio 2021/2022 di una lunga serie di violazioni (in particolare, abuso di autorità e lesioni ex artt. 608 e 582 c.p.) perpetrate a danno di persone arrestate e detenute da parte di Polizia e Carabinieri. Violazioni che, stando al Comitato, non avrebbero trovato giustizia nelle aule dei tribunali italiani. Per questo, il CPT insiste affinché l’Italia garantisca un’adeguata formazione dei suoi pubblici ufficiali, che dovrebbero essere istruiti ad utilizzare la forza solo e soltanto se strettamente necessario, e in ogni caso mai in maniera eccessiva. Oltre a ciò, il CPT ricorda al Governo italiano la necessità urgente di garantire adeguati ed efficaci meccanismi di identificazione delle forze dell’ordine, quali codici identificativi alfanumerici ben visibili sulle uniformi degli agenti e body cam – ciò, a tutela sia degli agenti che delle vittime. Infine, il CPT richiama l’Italia al rispetto di quanto previso dall’art. 6 CEDU, il quale sancisce una serie di libertà fondamentali riconducibili al “diritto umano al giusto processo”. Tutto questo insistendo su come, ad oggi, in Italia si verifichino troppe situazioni in cui individui privati della libertà personale sono sottoposti ad abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine il cui comportamento, oltre che “unlawful” e “unprofessional” (para. 14), consisterebbe in una vera e propria violazione del divieto di tortura sancito dal diritto internazionale, da prevenire e condannare con gli adeguati mezzi.

Una questione irrisolta: quale tutela per le vittime di abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia?


Alla luce di tutto ciò, si capisce perché la questione relativa alla tutela degli individui vittime di violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia rappresenti, ad oggi, una questione quantomai delicata.

Spesso al centro del dibattito politico, infatti, la questione si è manifestata in tutta la sua problematicità nel 2001 a seguito dei drammatici fatti della Diaz, che hanno acceso i riflettori della comunità internazionale sul caso italiano, e costituisce ancora oggi uno degli aspetti più critici del nostro ordinamento. Oltre a porre in essere una serie di problemi di legittimità costituzionale, infatti, l’inadeguatezza della protezione garantita dallo Stato italiano alle vittime di soprusi da parte dei pubblici ufficiali rappresenta ad oggi un manifesto caso di violazione da parte dell’Italia del diritto internazionale, e in particolare del vasto arsenale di strumenti dedicati alla tutela dei diritti fondamentali e della dignità umana adottati dalle Nazioni Unite e dal Consiglio Europeo – tutti sottoscritti dal nostro Paese.

Per questo, è importante che esistano giornate come oggi che, pur di valore simbolico, rappresentano occasioni importanti per riflettere sul punto. Il 26 giugno ci ricorda come sia più che mai urgente tutelare il reato di tortura nel nostro Paese, anzi rafforzarlo. Ciò, a maggior ragione, alla luce dei recenti drammatici fatti di Milano e Verona, nonché a fronte della proposta dell’attuale Governo non di integrare, bensì di abrogare gli artt. 613-bis e 613-ter c.p.. Se questo provvedimento fosse approvato, infatti, il reato di tortura di cui al nostro codice penale, invece di adeguarsi al diritto internazionale, finirebbe addirittura per sparire dal nostro ordinamento, lasciando agli organi giudicanti la sola possibilità di applicare le aggravanti generiche di cui all’art. 61 c.p.[2], di fronte ad abusi commessi da pubblico ufficiale. Quanto alle ragioni invocate dagli esponenti di Fratelli d’Italia firmatari della proposta, infatti, tali disposizioni priverebbero le forze dell’ordine “dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell'attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell'iniziativa delle Forze dell'ordine” (fonte: ANSA). Ed è con questa affermazione, che ci sembra piuttosto sconcertante alla luce del quadro internazionale delineato ai paragrafi precedenti, che vi lasciamo.

Costanza Rizzetto per StraLi




[1] “1. Ai fini della presente Convenzione, il termine "tortura" indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.” Art. 1, para. 1, Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti.

[2] “Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: […] 9) l'aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, […]” Art. 61, codice penale


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