Il 25 novembre ricorre ogni anno a ricordarci i connotati violenti della discriminazione nei confronti delle donne. Nella giornata eletta dall’Assemblea Generale dell’ONU quale memento annuale della lotta alla violenza di genere, sorge spontaneo soffermarsi a riflettere sull’evoluzione che tale fenomeno attraversa e le oscillazioni che lo riguardano. Di anno in anno, siamo portati a chiederci quale sia il bilancio rispetto all’anno precedente, se vi sia stata una variazione nei dati, se possa dirsi che questi dati riflettano il diffondersi di una cultura che fa del rifiuto della violenza la propria imprescindibile premessa. Nell’accostarsi a tali valutazioni, appare di particolare rilievo inserirle nella cornice legislativa del panorama internazionale: mentre gli strumenti messi a disposizione dal panorama nazionale tendono ad essere più noti e fruibili, si tende spesso a trascurare il contesto più ampio offerto dal diritto internazionale.
Al contrario, è proprio in tale contesto che, sulla scia delle istanze femministe degli anni Settanta, i diritti delle donne hanno acquisito rilievo autonomo e precipuo anche da un punto di vista legislativo. Divenuti consapevoli delle discriminazioni che colpiscono le donne in maniera sproporzionata, gli Stati hanno formalmente preso l’impegno di assicurare la parità sostanziale, oltre che formale, di ogni essere umano dinanzi alla legge e, a tal fine, rimuovere attivamente gli ostacoli che lo impediscano.
Era il 18 dicembre 1979 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), tutt’oggi il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne. La cifra distintiva della Convenzione, nonché il suo maggior pregio, è quella di aver offerto per la prima volta una definizione di “discriminazione nei confronti delle donne” condivisa da tutti gli Stati parte, che abbraccia “ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, quello di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, e su una base di uguaglianza tra l’uomo e la donna, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in ogni altro campo” (art. 1 CEDAW). Attraverso questo strumento, gli Stati firmatari della Convenzione hanno condannato “la discriminazione nei confronti delle donne in tutte le sue forme”, convenendo di impegnarsi a garantire l’applicazione effettiva del principio di uguaglianza tra uomo e donna attraverso l’introduzione, o la modifica, di strumenti legislativi adeguati, che assicurassero la piena adesione e la conformità a tale obbligo da parte di autorità, enti pubblici e istituzioni (art. 2).
Il Comitato CEDAW è stato introdotto con l’intento di assicurare l’interpretazione e l’applicazione uniforme della Convenzione a livello globale. A tal fine si è dotato dello strumento delle Raccomandazioni Generali, delle quali si è servito per chiarire e definire la portata della Convenzione, colmando talune lacune lasciate nel testo dall’acerbità del dibattito in tema di diritti umani delle donne sul finire degli anni Settanta. Le Raccomandazioni Generali, tra le altre cose, descrivono le forme che può assumere la discriminazione nei diversi ambiti della vita sociale, lavorativa e politica, indicando misure concrete che gli Stati sono incoraggiati a intraprendere per contrastare questo fenomeno. Queste comprendono la conduzione di indagini e la raccolta di dati statistici, la promozione di programmi di formazione per i membri dell’apparato giudiziario e di polizia, la promozione di campagne di sensibilizzazione, l’istituzione di programmi di riabilitazione per gli autori di violenza, programmi di informazione e di educazione, servizi di supporto alle famiglie delle vittime (para. 24 Raccomandazione Generale n. 19).
Altrettanto significative, tra le mansioni affidate al Comitato, sono le Comunicazioni. A seguito dell’adozione del Protocollo Facoltativo alla CEDAW nel 2000, le cittadine degli Stati firmatari che lamentino una mancata protezione dei propri diritti da parte delle autorità statali possono sottoporre la questione al Comitato, ricevendo da quest’ultimo un parere non vincolante. Anche attraverso questo strumento, il Comitato non ha mancato di evidenziare che, alla luce delle disposizioni della Convenzione, si richiede agli Stati non solo che assicurino alla donna una risposta istituzionale adeguata e tempestiva, ma anche che assumano l’adeguata diligenza nell’impedire la commissione di tali atti da parte di privati, nel condurre le relative indagini, e nell’assicurare pieno risarcimento quando dovuto.
Gli obiettivi prefissati dalla CEDAW sono stati ripresi da una serie di strumenti legislativi successivi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è riunita nuovamente nel 1993 per adottare la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne e istituire la figura della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Violenza contro le Donne, le sue Cause e le sue Conseguenze. Il Consiglio d’Europa ha adottato ad Istanbul nel 2011 la Convenzione sulla Prevenzione e la Lotta contro la Violenza nei confronti delle Donne e la Violenza Domestica (la c.d. Convenzione di Istanbul).
Quest’ultima ha mutuato il gergo usato dalla CEDAW, e si è dotata a sua volta di un meccanismo di controllo, il GREVIO, che valuta in maniera indipendente il rispetto da parte degli Stati degli obblighi da essa derivanti. Le valutazioni svolte periodicamente da questo Gruppo di Esperti mettono in luce diversi aspetti di criticità, tra cui spicca il permanere di zavorre culturali che impediscono il pieno esercizio dei propri diritti da parte delle donne.
A fronte di tale panorama legislativo, sorge spontaneo chiedersi quale impatto effettivo abbiano tali strumenti nella vita quotidiana delle donne. In tal senso è abbastanza significativo che, come notato dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, in base alle indagini effettuate dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), nessun Paese dell’Unione Europea abbia ancora conseguito pienamente la parità di genere. Peraltro, abbastanza tristemente, oltre dieci anni dopo la sua approvazione, ancora non tutti gli Stati membri dell’Unione Europea hanno aderito alla Convenzione di Istanbul.
Questa arretratezza è particolarmente vera per l’Italia che, pur a fronte di una attività legislativa all’apparenza adeguata, si scontra con il permanere di barriere tangibili ed invalicabili che ostacolano le donne nel pieno esercizio dei loro diritti. Nonostante l'esistenza di spinte contrarie che puntano all'evoluzione della situazione, i dati parlano chiaro: resta difficile per le donne essere credute (o non ri-vittimizzate) quando denunciano violenza sessuale o maltrattamenti, resta difficile ottenere provvedimenti cautelari effettivi che le tutelino dai loro aggressori, e ancor più confidare in un giudizio equo dinanzi all'organo giudicante e vedere riflesso anche in ambito civile, nelle cause relative all’affidamento della prole, l’esito dei giudizi che condannano i loro partner violenti in ambito penale. Sebbene la Cassazione aderisca ormai in maniera granitica all'orientamento che include il consenso quale elemento caratterizzante il reato di violenza sessuale, la nostra legislazione lo ritiene tanto marginale da non averlo ancora incluso nella definizione della fattispecie di reato (art. 609-bis c.p.). Per quanto riguarda il femminicidio, parossismo di questa mancata tutela, i dati restano allarmanti e, la prima metà di 2021, si parla di circa uno ogni quattro giorni.
Per la sua visione antiquata e stereotipata della violenza di genere in ambito giudiziario, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo più volte, a partire dalla storica sentenza Talpis v Italia. L’anno scorso, in particolare, la Corte EDU ha censurato il “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante” adottato dalla Corte d’Appello di Firenze nella decisione di un caso di violenza sessuale di gruppo che assolveva gli imputati per mancanza di credibilità della persona offesa.
Nonostante l’emanazione della l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, con il precipuo intento di introdurre nel nostro ordinamento un regime di particolare tutela, di carattere sostanziale e processuale, nei confronti delle donne vittime di violenza, permangono radicati gli stereotipi di genere, i quali esplicano la loro brutalità non soltanto nella commissione dei reati, ma anche, e più gravemente, nella risposta istituzionale dei soggetti che, a fronte di tali reati, dovrebbero assicurare protezione e tutela alle persone offese.
Mentre gli strumenti predisposti a livello internazionale abbisognano di un intervento attivo da parte dei legislatori nazionali, affinché sia dato corso agli obblighi assunti, è altresì vero che senza tali strumenti la strada da percorrere sarebbe ancor più lunga e tortuosa. Essi, infatti, definiscono il contenuto minimo che tutti gli Stati parte sono tenuti ad assicurare alle donne di tutto il mondo, impongono lo standard al di sotto del quale non può propriamente parlarsi di tutela.
Tuttavia, da sole, le fonti di diritto non bastano: serve un ripensamento sistemico circa la capacità del sistema giudiziario di comprendere il fenomeno della violenza di genere e predisporre adeguati strumenti di tutela in tal senso, tanto successiva quanto preventiva. Ciò non può che avvenire, necessariamente, nella fase dell'educazione e della sensibilizzazione, a tutti i livelli e in tutti gli aspetti della vita. Secondo il meccanismo che è proprio dei diritti umani, l'individuazione di ciò che “ci si augura sia" è necessario ad individuare il punto di arrivo, e di nuova ripartenza, ovvero il raggiungimento di un ideale in cui nessuna convenzione e nessuna carta saranno più necessarie.
Il 25 novembre commemora la lotta alla violenza di genere di carattere fisico. Tutti gli altri giorni dell’anno continuano a combatterla su tutti i fronti. A cura di Sarah Lupi
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