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UNA BELLA VITTORIA DI STRALI. É RIEDUCATIVA L'ESPULSIONE COME SANZIONE ALTERNATIVA ALLA DETENZIONE?


Tra le norme che disciplinano l’esecuzione della pena in Italia c’è n’è una in particolare che ha catturato l’attenzione di StraLi, è che forse non ha mai ricevuto l’adeguata attenzione nel mondo degli operatori del diritto.

L’esecuzione della pena è regolata dalle norme contenute nella legge sull’ordinamento penitenziario, ma la disciplina che ha interessato StraLi è contenuta in un'altra norma che figura tra quelle che vanno ad integrare la normativa principale. Si tratta dell’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione, per la prima volta inserita nel nostro sistema nel 1998 e riconducibile al Testo Unico dell’Immigrazione.


Il legislatore del 1998, formulando la oramai famosa legge “Bossi - Fini”, tra le varie norme che disciplinano il fenomeno dell’immigrazione è andato a prevedere, infatti, anche una particolare forma di sanzione alternativa alla detenzione.


L’art. 16 comma 5 della cd. “Bossi – Fini” prevede, per lo straniero che si trova in carcere, un particolare “beneficio”: evitare di scontare gli ultimi due anni di pena e vedersi applicare l’espulsione direttamente dal carcere, tornando comodamente nel proprio paese.

Voi direte che fortunati questi stranieri!


Peccato che la legge, a differenza di tutte le altre misure alternative alla detenzione che sono a richiesta di parte o comunque rinunciabili, prevede l’applicazione in maniera automatica alla mera ricorrenza di (davvero pochi) requisiti:

1) lo straniero è irregolare sul territorio (tutti i detenuti perdono la propria condizione di regolarità proprio perché dal carcere è pressoché impossibile vedersi rinnovare il permesso di soggiorno);

2) lo straniero è identificato;

3) lo straniero non CONVIVE (dal carcere la convivenza può risultare complicata… sic!) con un cittadino italiano.


Peraltro, molto spesso, l’espulsione scatta quando il destinatario ha già scontato quasi integralmente la propria condanna: l’effetto paradossale è che l’espulsione non si sostituisce al carcere, già vissuto per intero, bensì alla libertà! Di fatto, da un lato questo comporta il venir meno del potenziale vantaggio (anche economico) del Paese nel ridurre la popolazione detenuta e dall’altro l’inaccettabile applicazione di una doppia sanzione per lo stesso reato.

La conseguenza è unica e diffusa: quando uno straniero entra in carcere oltre ad espiare la pena verrà anche espulso nella quasi totalità dei casi.


Ciò anche a fronte del fatto che tale misura è applicata con un provvedimento adottato de plano, cioè senza alcun tipo di interlocuzione con il destinatario e con il suo difensore, e da questi impugnabile solo in un brevissimo lasso di tempo (10 giorni): una tempistica estremamente limitante, a volte nemmeno sufficiente perché il soggetto possa riuscire ad informarne il proprio avvocato ed avere con questi un colloquio, anche a fronte di quelle limitazioni carcerarie ed ostacoli burocratici che, ad esempio, spesso rendono fattualmente impossibile per uno straniero anche solo richiedere il rinnovo del proprio titolo di soggiorno.


La domanda che ci viene spontanea è: che senso ha espiare una pena con tutte le connesse finalità rieducative (quelle che la Costituzione impone) sapendo che il soggetto non potrà dimostrare sul territorio italiano di aver efficacemente concluso il proprio iter rieducativo?

Peraltro l’espulsione rappresenta, a ben vedere, il vero contenuto afflittivo della sanzione considerato che nel 90 % dei casi viene applicata a soggetti che non hanno più alcun legame con il territorio di origine e hanno famiglia e lavoro in Italia.


Ancora, di fronte a questa norma automatica ed attenente la libertà personale qualche giurista probabilmente si chiederà: questa norma in quanto automatica pregiudica ogni valutazione del caso concreto e non rispetta numerosi principi costituzionali che informano la sanzione penale, quindi sarà stata almeno in parte oggetto di limatura da parte della Corte Costituzionale?


E invece no.


Nel 2004 (la sentenza è la numero 226) la Corte Costituzionale si è dedicata all’analisi di questa disposizione concludendo, piuttosto frettolosamente, sulle numerose eccezioni di illegittimità costituzionale (nessun contenuto rieducativo, applicazione automatica etc…) che non sarebbero state accoglibili in quanto la norma in discorso avrebbe natura amministrativa e non penale e dunque non sarebbe “coperta” dalle garanzie del diritto penale.

Sottolinea infatti la motivazione, richiamando un precedente, come “affermata la natura amministrativa dell’espulsione, la Corte ha ritenuto non pertinenti i profili di illegittimità costituzionale allora prospettati in base al presupposto che l’espulsione integrasse gli estremi di una sanzione penale”.


In sostanza, è stata la stessa Corte Costituzionale, nel 2004, ad apporre una bella “etichetta” sulla norma, svincolandone l’applicazione a tutte le garanzie che afferiscono al diritto penale (e quindi, teoricamente, a qualsiasi disposizione che riguardi la libertà personale di un individuo).

Una operazione “etichettante” della Corte che ci permettiamo di criticare in quanto palesemente volta a salvare la normativa che al tempo sarebbe servita a svuotare le carceri (certo, obiettivo pregevole, ma conseguibile anche potenziando altre (vere) misure alternative alla detenzione).


L’espulsione come sanzione alternativa secondo la nostra opinione dovrebbe rientrare tra le sanzioni penali (così in realtà si era pronunciata anche una sentenza della Corte di Cassazione per chi volesse leggerla è la n. 30474/04) e ciò sulla base degli oramai noti “criteri Engel”, con i quali sin dal 1976 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (la sentenza è: Engel and others v. The Netherlands, Application no. 5100/71; 5101/71; 5102/71; 5354/72; 5370/72, Judgment, Strasbourg 8 June 1976) ha chiarito come non si possa qualificare una sanzione, o un procedimento, in termini meramente formali ma come s’imponga il riconoscimento della natura sostanziale ad essi sottesa.


Che l’espulsione prevista sia nella sostanza una sanzione, lo si ricava facilmente e facendo applicazione di dai tre criteri indicati dalla sentenza Engel: 1) dal nome: “sanzione alternativa alla detenzione”; 2) dalla natura dell’illecito dal quale discende la sua applicazione: è la conseguenza della commissione di un reato; 3) dall’estremo e concreto grado di afflittività: vieni espulso dal territorio e non puoi fare rientro per dieci anni.


E allora, se nella sostanza è una sanzione allora deve rispettare i principi del diritto penale e si profilano numerosi vizi di legittimità costituzionale.


1. L’espulsione non ha alcun significato rieducativo e performante in ordine al percorso risocializzante del condannato, anzi interviene a recidere quello intrapreso con la prima parte della condanna, e contrasta in maniera palese con il vincolo rieducativo che la Costituzione, ex art. 27, impone ad ogni pena del sistema penale e penitenziario italiano.


2. L’applicazione di tale sanzione alternativa, comporta una indubbia disparità di trattamento rispetto ai percorsi di pena (detentiva ed extra moenia) cui possono accedere i condannati italiani e stranieri ‘regolari’, con conseguente violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost.


3. L’espulsione introdotta dalla legge cd. “Bossi-Fini”, come visto, si applica nei confronti del detenuto straniero in maniera rigidamente formale, senza alcuna considerazione del suo vissuto, della sua storia personale e dell’evoluzione del suo percorso. Diversamente da ogni altra sanzione personale penale, non ha rilevanza, in questa sede, se egli abbia aderito al trattamento penitenziario, se abbia ottenuto benefici e misure premiali, se abbia un lavoro, se si sia adoperato per il proprio reinserimento, così ponendosi in contrasto con l’art. 3 Cost. in termini di irragionevolezza legislativa.


4. Inoltre, posto che la sanzione viene applicata tramite decreto di espulsione emesso dall’Ufficio di Sorveglianza competente a livello territoriale e con possibilità dell’interessato di far sentire la propria opinione solo a mezzo di eventuale opposizione (da presentare inderogabilmente nel termine di 10 giorni), presenta profili di automaticità del tutto in contrasto con l’imprescindibilità del contraddittorio che dovrebbe, al contrario, imperare con riferimento all’applicazione di una misura tanto afflittiva come quella in esame già nella fase prodromica alla relativa applicazione, così finendo per porsi in contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione nonché con l’art. 117 co. I Cost. in riferimento all’art. 6 Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, ove viene stabilito che debba essere garantito, in ogni procedimento giurisdizionale, all’interessato di “disporre del tempo e delle facilitazioni necessarie a preparare la sua difesa”.


5. I divieti di espulsione che la legge prevede sono troppo stringenti e non permettono di salvaguardare alcuni diritti costituzionalmente rilevanti quali salute, famiglia, lavoro.


Questa in sintesi la questione che Strali a suo tempo, tra le sue prime battaglie, decise di affrontare.


Nell’anno 2018 abbiamo sollevato per la prima volta la questione di legittimità costituzione con riferimento all’espulsione dello straniero quale misura alternativa alla detenzione.

Il Tribunale di Sorveglianza di Torino, però, non ha ritenuto di mandare la questione alla Corte Costituzionale aderendo all’interpretazione prevalente, al momento, della giurisprudenza rispetto alla natura amministrativa della normativa.


All’inizio del 2019 c’è stata una seconda occasione ma, purtroppo, viene rilevata la carenza di interesse alla proposizione della questione di legittimità in quanto nelle more di un rinvio disposto dal Tribunale di Sorveglianza la carcerazione del detenuto era stata portata a termine.


Arriva, poi, la segnalazione di un terzo caso, ATER, e con esso l’occasione di contestare la normativa in discorso ancora una volta, proprio come le tecniche della strategic litigation insegnano.


Si tratta di un detenuto tunisino che vive in Italia da circa venti anni e ha una moglie e due figli piccoli sul territorio, ha un lavoro che lo attende fuori dal carcere ed ha un percorso carcerario esemplare, come attestato più volte nel tempo dagli stessi preposti interni al carcere.

Nei suoi confronti è stata disposta l’espulsione come sanzione alternativa alla detenzione e, come visto, stando ai rigidi requisiti formali della norma, dovrebbe essere espulso a prescindere.


StraLi decide di occuparsi del suo caso e solleva nuovamente questione di legittimità costituzionale della norma.


In particolare, si pone l’accento sull’automatica applicazione della norma anche nel caso in cui il detenuto o soggetto attinto da provvedimento di espulsione conviva con parenti, anche non cittadini italiani, ma regolari da anni sul territorio.


Nell’elenco dei divieti di espulsione è previsto solo il caso di inespellibilità per la condizione dello straniero che conviva con moglie o figli cittadini italiani.

Noi riteniamo, però, che il legame familiare dovrebbe prevalere sicuramente su esigenze di logistica giudiziaria (“ci sono troppi detenuti quindi espelliamone alcuni”) e finanche di politica criminale ed a prescindere dalla qualifica formalistica data dalla “cittadinanza italiana”. Diversamente, la diversa tutela del rapporto parentale determina una inaccettabile discriminazione tra figli di serie A e figli di serie B, il cui nucleo è tutelato diversamente a seconda del colore del passaporto.


In soccorso alle nostre argomentazioni, come spesso accade, accorre la giurisprudenza della CEDU in relazione all’articolo 8 della Convenzione.

In alcune pronunce della Corte EDU, in effetti, si riscontra il principio di diritto secondo il quale, a prescindere dal requisito della cittadinanza, lo straniero abbia diritto a vedere riconosciuto il vincolo familiare e quindi non subire un provvedimento di espulsione che nei fatti vada a comprimere tale diritto.


Tale giurisprudenza non è correttamente recepita nel nostro ordinamento e sono all’ordine del giorno pronunce che confermano l’espulsione dello straniero a prescindere da ogni valutazione sullo status famigliare dello stesso.


Nel caso di Ater, abbiamo dunque richiesto una interpretazione conforme a tali parametri che, tramite l’art. 117 Cost. (clausola di inclusione delle normative europee ed internazionali nella nostra legislazione), dovrebbero pacificamente fare ingresso nel nostro ordinamento.


Il tribunale di Sorveglianza di Torino ha accolto tale interpretazione emanando un provvedimento evidentemente reso sulla base di un'interpretazione della legge conforme alla Costituzione ed alla Convenzione Europea dei Diritti dell'uomo: lo straniero non può essere espulso se genitore di figli minori residenti in Italia, anche se non (ancora) italiani.


Il Tribunale, in effetti, considerato che lo straniero ha una famiglia composta da moglie e due figli minori presenti sul territorio da più di dieci anni e che “il nucleo famigliare abbisogna del suo supporto emotivo pratico ed economico” e che potrebbe comunque essere concessa la cittadinanza al nucleo famigliare ha ritenuto che ciò costituisca “ragione ostativa all’espulsione ex art. 19 T.U. Immigrazione”.


Un provvedimento giusto, penserete. Eppure, basandosi esclusivamente sulla lettera della legge, non sarebbe stato possibile.


E’ stato fatto un passo per spostare i confini di quella lettera verso una maggiore umanità ed un provvedimento coraggioso e innovativo ci ha dato ragione.


Un ultimo aspetto va valutato: il provvedimento non ha una forza vincolante ovviamente rispetto a casi analoghi, anzi molto spesso differenti giudici adottano impostazioni ermeneutiche anche incompatibili l’una con l’altra.


E’ certo però che un primo passo verso la cristallizzazione in via locale di un principio interpretativo è stato fatto: i casi simili sono molti e il provvedimento reso ha il pregio di aderire ad una interpretazione ed applicazione (rectius disapplicazione) della norma conforme a parametri e principi costituzionali, interpretazione che dovrà essere richiesta e fatta valere da ogni operatore del diritto nella prospettiva di migliorare la qualità della legge.


E’ questo l’obiettivo che ci prefiggevamo, un piccolo step nel lungo percorso fuori e dentro le aule di giustizia che la strategic litigation rappresenta e che ci spingerà ad agire in futuro, su questa come su altre zone di mancanza di tutela dei diritti fondamentali, con sempre maggior convinzione.

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