La sentenza Torreggiani c. Italia: un bell’esempio di Strategic Litigation

Aggiornamento: 29 apr

“La carcerazione non fa perdere al detenuto il beneficio dei diritti sanciti dalla Convenzione (si tratta della Convenzione Europea dei Diritti Umani, meglio nota come CEDU, n.d.r.). Al contrario, in alcuni casi, la persona incarcerata può avere bisogno di una maggiore tutela proprio per la vulnerabilità della sua situazione e per il fatto di trovarsi totalmente sotto la responsabilità dello Stato”.

Parole e musica della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che, con la celebre sentenza Torreggiani c. Italia, l’8 gennaio 2013, all’unanimità, condannava lo Stato per aver inflitto alle sette persone ricorrenti un trattamento inumano e degradante.

In breve: i detenuti, all’epoca reclusi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, avevano trascorso lunghi periodi in celle poco illuminate, per nulla areate, senza acqua calda e – ed è questo il punto saliente della questione – avendo a disposizione all’incirca 3 metri quadrati a testa. Meno di quanto spetta, secondo la normativa comunitaria, ad un maiale da allevamento. L’accostamento è forte e lo è volutamente. L’essere umano può accettare di arrivare a considerare un proprio pari come inferiore ad una bestia? Secondo la CEDU no, neanche nelle situazioni in cui le persone sono soggette ad una punizione del tutto legittima.

Il problema del sovraffollamento carcerario rappresenta da decenni una certezza del Bel Paese. Come la nebbia in Val Padana, i panzerotti in Puglia o la pioggia a Pasquetta che rovina la grigliata.

Nel momento attuale la politica esprime quasi unanime consenso verso l’inasprimento delle sanzioni, con particolare riferimento alla detenzione. Finché si resta sul piano meramente teorico, questa prospettiva ha una sua legittimità: esistono forti e convincenti voci contrarie, ma in ultima istanza si tratta di scelte politiche e, in quanto tali, quasi più vicine ad un atto di fede religioso: prevarranno le convinzioni della maggioranza di turno. È invece sul terreno pratico che questa spinta detentiva mostra tutti i propri limiti, poiché deve scontrarsi con la realtà fattuale.

Un solo dato, giusto per farsi un’idea: nel marzo 2018, a fronte di una capienza totale di 50.615 posti, i detenuti nelle carceri italiane si attestavano intorno alle 58.223 unità, numeri in continua crescita a partire dal 2015 (fonte: XIV rapporto sulle condizioni di detenzione a cura dell’Associazione Antigone). Situazione che verrebbe da definire emergenziale, ma non sarebbe corretto, perché rappresenta a tal punto una costante da essere ormai divenuta strutturale, endemica. Il sistema carcerario è avviluppato in una spirale dalla quale sembra non riuscire a venire fuori.

Bene, di questa costante s’è accorta, nel 2013, anche la Corte di Strasburgo, che ha quindi deciso di emettere quella che viene definita ‘sentenza pilota’: non si limita ad imporre allo Stato il pagamento di una somma a titolo di risarcimento ai ricorrenti, ma fissa un termine – dodici mesi – entro il quale l’Italia deve apportare modifiche strutturali agli istituti penitenziari ed adeguarsi così ai dettami ed ai requisiti fissati in Europa.

Ed ecco che dalla tutela del singolo – meglio, dei singoli, vale a dire i sette ricorrenti – si arriva a riconoscere una situazione patologica che colpisce tutta la popolazione detenuta, indiscriminatamente. Oltre al riconoscimento del risarcimento individuale, si giunge ad intimare allo Stato di intervenire globalmente, a beneficio di tutti.

Questa vicenda mostra in maniera esemplificativa come l’azione in favore di una singola violazione possa tramutarsi in una forma di Strategic Litigation e produrre benefici per un intero gruppo di persone, in questo caso la popolazione carceraria.

NB: il Governo reagì alla pesante condanna del 2013 con una serie di decreti legge che, nell’immediato, portarono ad un’incoraggiante riduzione del sovraffollamento, che scese dal 40% all’8%. L’unico dato sopra riportato evidenzia però, per l’ennesima volta, come questi interventi normativi emergenziali non siano idonei ad apportare quei cambiamenti strutturali che Strasburgo ci chiedeva. Missione non compiuta.

In ginocchio per gridare.

Colin Kaepernick e StraLi probabilmente non s’incontreranno mai. Ed è un peccato, perché hanno un obiettivo comune, all’insaputa l’uno dell’altro. In realtà StraLi è a conoscenza delle battaglie di Kaepernick, dubitiamo tuttavia che la cosa sia reciproca.

Il nome di Kaepernick non è molto famoso in Italia, mentre negli Stati Uniti si parla di lui da diversi anni: prima perché era un possibile astro nascente del football americano, poi perché una volta entrato a far parte della NFL, la lega professionistica, si è affermato come ottimo giocatore.

Ha due tratti distintivi: è afroamericano e ha a cuore i diritti delle persone di colore, tutt’oggi vittime di uno strisciante razzismo di cui la società statunitense sembra non riuscire a disfarsi. Dall’alto della sua posizione di stella della lega, decide di mandare un forte segnale di protesta: durante una delle partite di avvicinamento alla stagione 2016, mentre suona l’inno, resta seduto in panchina. Il gesto non passa inosservato e viene ripetuto nei successivi incontri. In un Paese come gli Stati Uniti occupa le prime pagine dei giornali, viene attaccato con l’accusa di vilipendio alla bandiera e tradimento della patria. Lui decide di aggiustare il tiro e per rispetto verso i militari, anziché star seduto, comincia ad inginocchiarsi. Diventa un’icona del movimento Black Lives Matter, viene coniata l’espressione take the knee e molti atleti delle altre leghe professioniste americane, attivi e ritirati, si faranno immortalare nell’atto d’inginocchiarsi o lo compiranno a propria volta durante le partite, con tanto di velenose polemiche con Donald Trump.

Al termine di quella stagione, Kaepernick decide di avvalersi di una clausola del proprio contratto e si svincola dalla squadra con cui aveva giocato. Nonostante il suo indiscusso valore, nessun proprietario si fa avanti per offrirgli una collocazione nella propria squadra. Kaepernick ritiene che la NFL abbia deciso di boicottarlo per via delle sue posizioni ritenute scomode, rispetto alle quali non ha intenzione di fare un passo indietro, e cita per danni la lega medesima.

Venerdì scorso le parti hanno raggiunto un accordo. Nonostante sia sottoposto a un forte vincolo di riservatezza, si mormora che la somma pattuita ammonti a diverse decine di milioni di dollari. Kaepernick ha vinto la sua prima battaglia: anche se rischia di essere valutata come una questione soltanto monetaria, non deve passare in secondo piano la forte valenza di questo accordo, tanto sul piano simbolico quanto su quello dei diritti umani. Kaepernick è ormai il volto più noto degli attivisti statunitensi e in occasione del Super Bowl, la finalissima del campionato di football, molte personalità di spicco hanno manifestato la propria vicinanza alla sua causa.

Desta qualche perplessità la scarsa copertura mediatica che la notizia ha ricevuto in Italia: mentre negli Stati Uniti gli atleti prendono spesso posizione in materia di diritti civili, sembra che nel nostro Paese ci si limiti a qualche dichiarazione di facciata e sterile iniziativa, senza che si riesca a fare davvero breccia nel dibattito. Basti pensare che un mostro sacro della pallacanestro americana come Kareem Abdul Jabbar ha scritto un editoriale sul Guardian a commento della vicenda, che equivarrebbe in Italia a un articolo su Repubblica firmato da Gigi Riva.

Il diritto alla protesta sembra aver ottenuto una sorta di riconoscimento a posteriori proprio da parte di chi in un primo momento aveva cercato di metterlo a tacere: il raggiungimento di un accordo evita che la pronuncia di un tribunale lo sancisca in modo inequivoco e dall’altra parte sottrae la NFL dall’attenzione – non sempre benevola – che un simile caso genera. Tuttavia, proprio queste due osservazioni dimostrano chiaramente come la lega si trovasse in una posizione quantomai scomoda, pressata dall’opinione pubblica da un lato e col rischio di una condanna giudiziale dall’altro.

La stagione NFL si è da poco conclusa e il campionato ricomincerà soltanto in agosto; da venerdì però sono trapelate le prime indiscrezioni sulle franchigie interessate a Kaepernick, che potrebbe finalmente tornare a giocare.

La vicenda che abbiamo narrato in maniera concisa, perché molto altro ci sarebbe da dire, mostra in modo emblematico come le violazioni dei diritti umani si verifichino quotidianamente, in ogni campo e settore. Strali ha l’obiettivo di promuovere battaglie legali contro la violazione dei diritti umani e dare risonanza a casi, come quello di Colin Kaepernick, che rappresentano un’evidente violazione degli stessi. Ci auguriamo, pertanto, che questa rappresenti la prima pagina di una nuova era sul fronte dei diritti non solo negli Stati Uniti, ma nel mondo intero.

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