IL CASO “UK-RWANDA DEAL”

L’ESTERNALIZZAZIONE DELLE FRONTIERE E VIOLAZIONE DEI DIRITTI UMANI DELLE PERSONE RICHIEDENTI ASILO

Secondo l’Articolo 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948), “[o]gni individuo ha il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni.”

In base al dettato dell’Articolo 1 (2), Convenzione di Ginevra (1951), lo status di persona rifugiata viene garantito alla persona che si trova nel “nel giustificato timore d’essere perseguitata per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure a chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori dei suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi.”.

L’Articolo 4, Protocollo n. 4 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (1963) afferma chiaramente che “[l]e espulsioni collettive di stranieri sono vietate.”.

In occasione della giornata mondiale della persona rifugiata, vogliamo richiamare il principio fondamentale del diritto di asilo e i principi correlati di cui il diritto internazionale dei diritti umani si fa portatore. Ma vogliamo anche trattare una questione che si pone in violazione sistematica di questi principi: l’esternalizzazione delle frontiere e la normalizzazione delle espulsioni collettive di persone che a malapena possono render nota la loro volontà di richiedere asilo nel Paese in cui arrivano.

Benchè l’UE e i suoi Stati Membri non siano privi di responsabilità per le summenzionate violazioni, è particolarmente sconcertante (nonchè discusso e contestato dai diversi attori internazionali e non) la recente “partnership” conclusa dal Regno Unito e dal Ruanda lo scorso 13 aprile circa la gestione di coloro che “arrivano illegalmente nel territorio britannico” – il c.d. Asylum Partnership Agreement (APA).

L’APA è un memorandum d’intesa (in inglese Memorandum of Understanding o MoU) che prevede il trasferimento forzato verso il Ruanda delle persone che arrivano irregolarmente nel Regno Unito, a seguito del quale, il primo si assumererebbe la responsabilità sia della procedura di asilo sia della successiva protezione di coloro che risultano rientrare nella categoria di rifugiati. Il Ruanda, poi, si dovrebbe anche assumere la responsabilità di rimpatriare le persone che, secondo il loro assessment, non necessiterebbero di protezione internazionale. Il MoU ha una durata di 5 anni, con possibilità di rinnovo, e prevede il reinsediamento di un numero imprecisato di richiedenti asilo dal Ruanda al Regno Unito. Tra l’altro, questo accordo ha anche effetto retroattivo, applicandosi a tutte le persone entrate “illegalmente” nel territorio britannico a partire dal 1 gennaio 2022. Proprio per le sue particolarità, ossia spostare la responsabilità dell’asilo dagli Stati di destinazione, nel caso di specie Regno Unito, ai Paesi in via di sviluppo, cioè il Ruanda; e teoricamente fungere da deterrente per la c.d. “immigrazione clandestina”, il MoU rientra nella pratica, ampiamente utilizzata dai Paesi europei, di esternalizzazione delle frontiere.

Il Ruanda, però, non ha accettato di far parte dell’accordo per una presunta solidarietà verso queste persone, che sono alla disperata ricerca di una vita dignitosa, ma a seguito della promessa di ricezione di circa €150,000. Il Premier britannico Boris Johnson ha anche tentato (invano) di proporre l’APA come “un investimento” che il Regno Unito ha deciso di fare per sostenere “lo sviluppo economico e la crescita del Ruanda”.

Le basi di questo accordo (che cela, per nulla velatamente, una c.d. “double agenda” del Governo britannico) si fonda sulla considerazione che il Ruanda sia “paese terzo sicuro”. Peccato che, come riportato da Amnesty International e Human Rights Watch (HRW) – tra gli altri –, il Ruanda nel solo 2021 non sia stato caratterizzato da un ampio rispetto dei diritti umani; anzi! Il partito politico al potere ha continuato a soffocare le voci dissenzienti; lo spazio per l’opposizione politica, la società civile e i media è rimasto serrato; e diverse persone facenti parte dell’opposizione sono scomparse, arrestate o minacciate. La detenzione arbitraria, i maltrattamenti e la tortura nelle strutture di detenzione ufficiali e non ufficiali sono all’ordine del giorno e gli standard di un processo equo vengono abitualmente violati. Inoltre, HRW ha anche documentato che il Ruanda presenta precedenti di uso eccessivo della forza (fino all’uccisione) di persone rifugiate di nazionalità congolese, tra gli altri. Ma non solo: è stato proprio il Regno Unito che solo lo scorso anno ha espresso preoccupazioni circa le violazioni di diritti umani nel Paese, tra cui le continue restrizioni ai diritti civili e politici – e ciò nonostante, lo considera Paese sicuro per le persone richiedenti asilo! Non solo, quindi, si dubita che il Ruanda possa essere effettivamente considerato “Paese terzo sicuro”, ma se sia poi effettivamente in grado di proteggere le garanzie contenute nella Convenzione sui Rifugiati, oltre ai diritti civili, politici, economici e sociali delle persone a cui eventualmente venga garantita protezione internazionale.

Tutto ciò, come è ovvio, si pone in violazione di una serie di strumenti di diritto internazionale che vincolano (o dovrebbero vincolare) il Regno Unito, prima fra tutti la c.d. Convenzione di Ginevra del 1951 che regola la disciplina circa il riconoscimento dello status di rifugiato. Come anticipato, il MoU si applica solo alle persone “le cui richieste non sono state prese in considerazione dal Regno Unito”, essendo state dichiarate inammissibili a causa del loro ingresso irregolare nel Regno Unito. Tuttavia, l’Articolo 31 (1) della Convenzione esenta le persone richiedenti lo status di rifugiato dalla penalizzazione per ingresso irregolare, riconoscendo, così, esplicitamente che la maggior parte di esse non abbia altra scelta che viaggiare in modo irregolare. Trattare la richiesta di asilo di una persona che entra irregolarmente come inammissibile costituisce dunque una sanzione contraria alla Convenzione.

Inoltre, il MoU si porrebbe in violazione del principio di non-refoulement, esplicitato nell’Articolo 33 della Convenzione di Ginevra e Articolo 3 (1) della Convenzione contro la Tortura: sebbene l’accordo stabilisca che le richieste di asilo delle persone trasferite saranno valutate in Ruanda “in linea con la Convenzione sui Rifugiati e la legislazione internazionale sui diritti umani”, il principio di non respingimento si applica non solo in relazione al Paese di origine di una persona, ma anche rispetto a un Paese terzo, come il Ruanda – che, come detto, non brilla di certo per garanzia di diritti fondamentali! (Per ulteriori violazioni di strumenti internazionali rinvenute dall’accademia, si veda qui).

Si potrebbe profilare, poi, una violazione del summenzionato Articolo 4, Protocollo n. 4 della CEDU circa il divieto di espulsioni collettive: secondo la giurisprudenza della Corte EDU, per “espulsione collettiva” si intende “qualsiasi misura che costringa persone straniere, in quanto gruppo, a lasciare il Paese, salvo che tale misura sia adottata sulla base di un esame ragionevole e oggettivo del caso specifico di ogni singolo straniero del gruppo”. E addirittura, è da sottolineare la nozione ampia con cui la Corte intenda le “espulsioni collettive”: sebbene la maggior parte dei casi portati all’attenzione della Corte fossero di individui che si trovavano già sul territorio nazionale (come avverrebbe nel caso delle persone che richiedono asilo in territorio britannico, trasferite in Ruanda), la Corte negli anni più recenti ha riscontrato la violazione dell’Articolo 4 anche quando tali respingimenti sono avvenuti in acque internazionali (si veda la sentenza storica Hirsi Jamaa e altri c. Italia, 2012), ma anche sui confini terrestri (N.D. e N.T. c. Spagna, 2020). La clausola “salvo che tale misura sia adottata sulla base di un esame ragionevole e oggettivo del caso specifico di ogni singolo straniero del gruppo”, però, che potrebbe “salvare” il Regno Unito dalla violazione sistematica della normativa in questione non viene rispettata nel caso di specie: la c.d. prima fase operativa vedrebbe le autorità britanniche coinvolte nella c.d. procedura di “pre-trasferimento”, come denominata dal MoU. Peccato che la procedura non venga descritta dalla partnership e che, comunque, come detto in precedenza, le richieste di asilo verrebbero in ogni caso ritenute inammissibili a causa dell’arrivo irregolare sul territorio britannico. A questo punto della procedura, il Regno Unito richiederebbe al Ruanda il trasferimento delle persone, che avverrebbe a seguito della sua accettazione (ovviamente solo formale – come potrebbe tirarsi indietro?). Ci sono, però, delle eccezioni a questa “procedura di trasferimento accelerato”, che si basano sugli obblighi britannici di rispettare il principio di non-refoulement e altri principi relativi ai diritti umani: il Regno Unito non può dunque trasferire persone di nazionalità ruandese che richiedono asilo; persone seriamente malate; e persone richiedenti asilo LGBTQI+, a seguito del rapporto pubblicato da UNHRC secondo cui a queste persone sarebbe regolarmente negato accesso alle procedure di asilo. E qui, di nuovo, sorgono dubbi su come il Ruanda possa essere considerate Paese terzo sicuro.

L’APA, com’è prevedibile, ha scaturito reazioni di opposizione da ogni lato: avvocat3 inglesi hanno immediatamente iniziato a presentare azioni legali per contestare il contenuto dell’accordo e la sua compatibilità con gli strumenti internazionali vincolanti per il Regno Unito; gruppi attivisti e difensori dei diritti umani hanno iniziato campagne di advocacy e lobby per il ripensamento (se non la cancellazione) della partnership; esponenti delle Commissione Europea hanno condannato l’accordo (non che questo li esimi dalle responsabilità circa la gestione UE del flusso migratorio!); e l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati, Filippo Grandi, ha descritto l’accordo come “all wrong” – tutto sbagliato.

Il primo volo per il Ruanda sarebbe dovuto partire lo scorso 14 giugno 2022. Sarebbe, perchè è su questa base che si inserisce la recentissima decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo che si è pronunciata tramite l’imposizione di interim measures (misure urgenti che, ai sensi della Regola 39 del Regolamento della Corte vengono adottate dalla Corte EDU in presenza di un rischio imminente di danno irreparabile – prima ancora che vi sia una decisione nel merito della questione). Lo stesso 14 giugno la Corte EDU, nel caso K.N. c. Regno Unito di un cittadino iracheno che aveva richiesto asilo il precedente 17 maggio 2022 – richiesta che era stata considerata inammissibile dalle autorità britanniche (poichè entrato illegalmente nel territorio nazionale), nonostante un medico avesse certificato la possibilità che il richiedente abbia subito torture. Il 6 giugno gli era stata notificata l’inammissibilità della sua richiesta e un ordine di allontanamento verso il Ruanda. La Corte EDU, nell’esaminare la richiesta di interim measure, alla luce del rischio reale di subire un trattamento contrario ai suoi diritti umani, e in “assenza di qualsiasi meccanismo legalmente applicabile” per garantire il suo ritorno nel Regno Unito in caso di esito positivo del ricorso giudiziario, ha deciso “nell’interesse delle parti e del corretto svolgimento del procedimento dinanzi ad esse, di indicare al governo del Regno Unito […] che il ricorrente non debba essere allontanato fino alla scadenza di un periodo di tre settimane dalla pronuncia della decisione definitiva nel procedimento di controllo giurisdizionale in corso”, così bloccando in extremis il volo che sarebbe partito da li a poco. Durante lo stesso giorno, ulteriori richieste di interim measures sono state presentate alla Corte, due delle quali sono state accolte (nei casi R.M. c. Regno Unito e H.N. c. Regno Unito), ammettendo che l’allontanamento possa avvenire dopo il 20 giugno, affinchè le richieste di asilo siano considerate dalle autorità “in modo più dettagliato” (questo anche a dimostrazione del fatto che, quindi, la presunta procedura di “pre-trasferimento” sia condotta sommariamente e solo formalmente).

Questo ha, per il momento, bloccato il primo volo diretto verso il Ruanda, ma non sappiamo cosa ci riserverà il futuro. Quello che è certo è che il mondo legale e dell’attivismo continuerà a battersi per far sì che questo accordo e la conseguente violazione sistematica del diritto internazionale e dei diritti umani venga meno. E sicuramente noi di StraLi continueremo a fare la nostra parte affinchè tutti, soprattutto i più vulnerabili, si vedano riconosciuti i propri diritti!

A cura di Serena Zanirato

I DIRITTI DELLE GENERAZIONI FUTURE: IL CASO NEUBAUER ET AL. CONTRO GERMANIA

Nell’ambito della climate litigation, ossia l’uso strategico del contenzioso per sostenere la lotta al cambiamento climatico, si è assistito negli ultimi anni ad un incremento di casi basati sui diritti umani. A partire dall’apripista Fondazione Urgenda contro Paesi Bassi, infatti, diverse cause hanno avuto ad oggetto violazioni di diritti umani, come il diritto alla vita o all’integrità fisica, al fine di rivendicare una responsabilità statale all’azione verso il clima, puntando a ottenere più ambiziose ed efficaci politiche di riduzione delle emissioni.

Tra di esse, il recente giudizio di costituzionalità espresso dalla Corte Costituzionale tedesca il 26 aprile 2021 sul caso Neubauer et al. contro Germania si inserisce in questa tendenza.

La causa, iniziata nel 2020 da gruppi di giovani attivist3 tedesc3, insieme ad altr3 minori, e ad un gruppo di cittadin3 del Nepal e del Bangladesh, ha avuto ad oggetto la Legge Federale sul Clima (Bundes -Klimaschutzgesetz) del 2019, accusata di perseguire obiettivi di riduzione delle emissioni insufficienti per scongiurare i peggiori effetti della crisi climatica, e di violare quindi i diritti e libertà fondamentali protetti dalla Costituzione. Nello specifico, i principali diritti rivendicati includono il diritto alla vita ed all’integrità fisica, alla proprietà ma anche ad un “futuro rispettoso della dignità umana” e ad un “ecologico minimo standard di vita” (derivati dalla lettura congiunta degli articoli riguardo la dignità umana ed alla protezione della natura).

Pur riconoscendo l’oggettività della crisi climatica, e i suoi effetti avversi sulla salute, la proprietà e le comunità, la decisione finale non ha però trovato una violazione di nessuno dei diritti sopracitati, ma piuttosto una generale violazione dei diritti e delle libertà fondamentali protette dalla Costituzione per via di un “effetto interferenza” (“Eingriffsähnliche Vorwirkung”). Infatti, la base su cui la Corte fonda il proprio ragionamento è la violazione del principio di proporzionalità della disposizione riguardante la riduzione delle emissioni dopo il 2030. In questo caso la Legge Federale sul Clima, pur perseguendo gli obiettivi di riduzione delle emissioni con degli strumenti legislativi considerati appropriati dalla Corte, finiva per “scaricare” un peso eccessivo sui diritti e le libertà della cittadinanza dopo il 2030, per via del target troppo basso pre-2030. Prevedendo una riduzione del 55% delle emissioni di gas serra (rispetto al 1990) entro il 2030, e lasciando invece da definire i target dopo quella data, di fatto obbligava a misure più drastiche post 2030 per evitare gli scenari peggiori, ripartendo dunque in maniera iniqua tra le generazioni queste restrizioni e risultando incostituzionale.

Uno degli aspetti più interessanti della sentenza si trova nella descrizione dettagliata degli obblighi costituzionali per il legislatore derivanti dall’ Articolo 20(a). Quest’ultimo riguarda “la protezione delle fondamenta naturali della vita e degli animali” e specifica che lo Stato le debba proteggere anche in vista della responsabilità verso le future generazioni. Dopo anni di dibattito sulla possibilità che questo articolo includesse un dovere di azione verso il clima, la Corte ha espresso un giudizio chiaro, confermando una lettura particolarmente ampia dell’art. 20(a), che include un dovere di protezione anche nei confronti dei cambiamenti climatici. L’interpretazione della Corte però non si è fermata a questo, ma ha precisato la derivante necessità costituzionale di puntare alla neutralità climatica ed il fatto che, vista la natura globale della crisi, questa protezione sia da attuarsi necessariamente attraverso la cooperazione internazionale, rispettando ed adattandosi agli obblighi internazionali ed alle ultime scoperte scientifiche. Nel fare ciò, la sentenza riconosce gli obbiettivi individuati dall’Accordo di Parigi come aventi rilevanza costituzionale per il legislatore, vincolandolo a mettere in atto le riduzioni necessarie al fine di rimanere ben al di sotto dei 2° di aumento della temperatura globale individuati dall’Accordo come soglia massima.

Un altro aspetto rilevante della decisione si ritrova in una applicazione del concetto di “sviluppo sostenibile”, che includa un’attenzione verso l’equità intergenerazionale, nei confronti delle generazioni future, così come una intra-generazionale, rispetto alle responsabilità dello Stato tedesco verso l3 cittadin3 dei paesi maggiormente colpiti dai cambiamenti climatici. Seppur il giudizio finale rispetto alle violazioni dei diritti dei cittadini dal Bangladesh e del Nepal sia negativo, infatti, non viene esclusa la possibilità di una responsabilità dello Stato rispetto a possibili eventi avversi generati da una insufficiente azione sulle emissioni anche fuori dai propri confini.

In seguito al giudizio, il Parlamento tedesco ha modificato la disposizione §3(1) della Legge Federale sul clima nell’agosto 2021, introducendo nuovi e più ambiziosi target di riduzione delle emissioni : del 65% entro il 2030 e dell’ 88% entro il 2040, segnando così una vittoria storica per i movimenti per il clima che, si spera, potrà ripetersi anche in altri contesti.

A cura di Anna Rossa

I QUESITI DEL REFERENDUM DEL 12 GIUGNO 2022

Come forse saprete il 12 giugno, oltre a votare in alcuni comuni per le amministrative, si andrà alle urne per votare cinque quesiti referendari proposti dalla Lega e dai Radicali e che hanno superato il vaglio della Corte Costituzionale.

Cerchiamo di fare chiarezza quesito per quesito perché le materie coinvolgono temi molto diversi e altrettanto tecnici.

Quesito 1)

Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n.190)?

Il quesito mira ad abrogare in toto le disposizioni della legge c.d. “Severino” che nel 2012 aveva previsto, in particolare, la “incandidabilità” e il “divieto di ricoprire cariche elettive e di governo” per i soggetti che hanno riportato una sentenza definitiva a una pena superiore a due anni per delitti gravi di mafia e terrorismo o superiore a due anni per delitti commessi da pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione o a una pena per reati per cui è prevista la reclusione non inferiore ai quattro anni.

Va detto che tale incandidabilità non è eterna: perdura infatti fino a che non viene pronunciata sentenza di riabilitazione, rientrando così il soggetto nel pieno diritto elettorale passivo.

Tale testo di legge era stato introdotto dal governo nel 2012 su delega del Parlamento e ha in più occasioni superato il vaglio della Corte Costituzionale (sentenze del 2015 e 2016 in relazione a denunciata violazione dell’art. 3 Cost in relazione alla disparità di trattamento tra candidati alle elezioni nazionali ed amministratori locali, eccesso di delega e irretroattività della norma) e della CEDU (nel 2021 con duplice sentenza in merito alla denunciata irretroattività della norma).

I due articoli più problematici sono l’8 e l’11, che prevedono la sospensione (nei casi di incandidabilità) degli amministratori locali nel caso in cui abbiano riportato anche solo una condanna non definitiva. Sospensione che cessa solo nel caso in cui poi vengano assolti nel successivo grado di giudizio. Tale norma è stata fortemente criticata, non solo dai promotori del referendum. Molti auspicano che il Parlamento si esprima su questo singolo aspetto ritenuto realmente problematico.

In ogni caso, votando “sì” di fatto si ristabilisce la situazione ante tale legge, essendo colpita dal referendum la legge delega al governo. Non sarà più prevista dunque ex lege l’incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive.

Il quesito, pur avendo superato il vaglio della Consulta, appare forse troppo ampio. Sarebbe dunque auspicabile che la legge Severino al più venga ridiscussa nelle aule parlamentari, se del caso eliminando solamente alcune parti di essa.

Quesito 2)

Volete voi che sia abrogato il decreto del Presidente della Repubblica 22 settembre 1988, n.447 (Approvazione del codice di procedura penale) risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.274, comma 1, lettera c), limitatamente alle parole: “o della stessa specie di quello per cui si procede. Se il pericolo riguarda la commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, le misure di custodia cautelare sono disposte soltanto se trattasi di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni ovvero, in caso di custodia cautelare in carcere, di delitti per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a cinque anni nonché per il delitto di finanziamento illecito dei partiti di cui all’art.7 della legge 2 maggio 1974, n.195 e successive modificazioni.”?

Il quesito investe una particolare norma del codice di procedura penale, che disciplina i motivi (le “esigenze cautelari”) che il giudice deve valutare al fine di poter applicare una misura cautelare all’imputato (sono misure che intervengono prima dell’accertamento con sentenza definitiva e hanno lo scopo di eliminare un particolare pericolo disciplinato dal codice).

Il codice di procedura penale prevede infatti che, oltre a sussistere gravi indizi di commissione di un illecito penale, al fine di applicare una misura cautelare deve verificarsi almeno una delle tre esigenze di cautela che il codice elenca in maniera tassativa: a) il pericolo che l’imputato inquini le fonti di prova (es: contatti i testimoni, distrugga documenti rilevanti per le indagini, etc.); b) il pericolo di fuga dell’imputato, che si sottrae così al giudizio; c) il pericolo di commissione di ulteriori “gravi delitti con uso di armi o di altri mezzi di violenza personale o diretti contro l’ordine costituzionale ovvero delitti di criminalità organizzata” o il pericolo di commissione di “delitti della stessa specie di quello per cui si procede” se trattasi di delitti con pena massima superiore a 4 anni (per applicare una misura cautelare diversa dal carcere) o cinque anni (per il carcere) o in ogni caso per il delitto di finanziamento illecito ai partiti.

Il referendum mira ad abrogare questa ultima previsione della lettera c) e quindi vuole abolire la possibilità di applicare una misura cautelare allorché ci sia il solo pericolo di commissione di reati della stessa specie rispetto a quello per cui si procede (va detto che è l’esigenza di cautela più richiamata dai giudici nelle ordinanze di applicazione delle misure cautelari).

Per esemplificare: se ora, per poter applicare la custodia in carcere ad un soggetto che ha commesso una rapina, per il giudice è sufficiente argomentare (in merito alle esigenze cautelari) circa il pericolo che, se il soggetto fosse rimesso in libertà, potrebbe commettere un’altra rapina, nel caso passasse la riforma il giudice non potrà più applicare la custodia in carcere basandosi su questa motivazione. Dovrà infatti basarsi su gli altri criteri indicati dal codice, quali la sussistenza del pericolo di inquinamento probatorio o di fuga o di commissione dei gravi reati sopra indicati.

Questa norma negli ultimi anni è stata investita da numerose riforme, al fine di circoscrivere il più possibile l’applicazione delle misure cautelari, che effettivamente nel nostro sistema penale sono molto e forse troppo utilizzate (i detenuti in attesa di processo in Italia sono circa un terzo della popolazione carceraria, siamo uno dei primi Paesi in questa speciale e non meritevole classifica).

In particolare, già una riforma del 2015 aveva previsto l’obbligo per il giudice di motivare su “concretezza” ed “attualità” del pericolo sotteso all’esigenza di cautela per la quale si ritiene di dover applicare la misura cautelare.

Alcuni hanno sottolineato che il quesito, seppur animato dal corretto obiettivo di “sfoltire” la popolazione detenuta in fase cautelare, così come impostato, se accolto, potrebbe causare alcune storture impedendo di applicare una misura cautelare in numero davvero notevole di casi. Posto che è l’esigenza di cautela ad ora maggiormente richiamata dai giudici, questo impedimento sorgerebbe anche in casi in cui vi sarebbe un concreto ed attuale pericolo di commissione di reati da parte dell’imputato.

Quesito 3)

Volete voi che siano abrogati: l'”Ordinamento giudiziario” approvato con regio decreto 30 gennaio 1941, n.12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del Consiglio superiore della magistratura”; la legge 4 gennaio 1963, n.1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se e’ idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n.26, recante «Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n.150», nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160, recante “Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’art. 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n.150”, nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, in particolare dall’art.2, comma 4 della legge 30 luglio 2007, n.111 e dall’art.3-bis, comma 4, lettera b) del decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24, limitatamente alle seguenti parti: art.11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art.13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art.13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art.13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, né con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’art.11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art.13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’art. 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art.13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art.13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’art.10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso art.10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il decreto-legge 29 dicembre 2009, n.193, convertito, con modificazioni, in legge 22 febbraio 2010, n.24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’art.13, commi 3 e 4, del decreto legislativo 5 aprile 2006, n.160.”?

Come si nota dall’estrema lunghezza del quesito l’effetto del referendum intende intervenire su plurime disposizioni di legge che regolano e disciplinano l’accesso alle funzioni della magistratura.

Secondo la disciplina attuale nella magistratura vi sono due figure: quelle giudicanti (giudici) e quelle inquirenti (pubblici ministeri, P.M.). Ad entrambe le funzioni si accede mediante il medesimo concorso e coloro che lo superano poi possono “passare” da una funzione ad un’altra per un massimo di quattro volte, secondo particolari requisiti di tempo e di luogo.

Il nucleo centrale del quesito referendario riguarda in particolare le norme che regolano il passaggio da una funzione all’altra.

Per effetto del “sì” al referendum, in particolare, una volta passato il concorso il magistrato dovrebbe scegliere una funzione di PM o di giudice non più modificabile nel corso della carriera.

Tale quesito è oggetto di un acceso dibattito. Sintetizzeremo quindi gli argomenti a favore (voto sì) e quelli contro (voto no).

Pro, “si”: evitare che i magistrati svolgano tutte e due le funzioni di giudice e P.M. garantisce una maggiore imparzialità del giudice: poiché il PM è una parte del processo penale, evitare che lo stesso negli anni precedenti abbia svolto la funzione giudicante garantisce maggiore imparzialità dello stesso giudice nel valutare gli argomenti delle parti.

Contro, “no”: la separazione delle funzioni potrebbe minare l’imparzialità dell’organo inquirente (in Italia il PM secondo il codice di procedura deve ricercare anche le prove favorevoli all’indagato), di fatto limitando lo sviluppo e il mantenimento della “cultura della giurisdizione” e creando una sorta di ufficio separato. Si è anche sostenuto che il passaggio da una funzione all’altra rivesta notevole importanza dal punto di vista “formativo” per i magistrati, che così possono comprendere al meglio il funzionamento della magistratura in generale. Alcuni hanno anche rilevato che l’abrogazione in toto della separazione delle funzioni potrebbe avere dei risvolti in tema di tenuta costituzionale del complesso delle norme risultanti dalla riforma, rappresentando le norme oggetto del quesito referendario la diretta applicazione del disposto costituzionale. Su questo aspetto va detto però che il quesito è stato vagliato positivamente dalla Corte Costituzionale.

Quesito 4)

Volete voi che sia abrogato il decreto legislativo 27 gennaio 2006, n.25, recante «Istituzione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei consigli giudiziari, a norma dell’art.1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005, n.150», risultante dalle modificazioni e integrazioni successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art.8, comma 1, limitatamente alle parole “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.7, comma 1, lettera a)”; art.16, comma 1, limitatamente alle parole: “esclusivamente” e “relative all’esercizio delle competenze di cui all’art.15, comma 1, lettere a), d) ed e)”?

Per comprendere tale quesito, non altrimenti intellegibile, occorre sottolineare che il Consiglio Superiore della Magistratura (CSM – l’ organo di autogoverno della magistratura) ha fra le sue funzioni quello di controllare e dare una valutazione (anche in termini di sanzioni) all’operato dei magistrati sulla base delle valutazioni che arrivano dai “consigli giudiziari”, che sono organi ausiliari composti da cariche appartenenti alla magistratura e “laici” (docenti universitari e avvocati) sparsi nei territori. Ad oggi la valutazione della professionalità e della competenza dei magistrati è rimessa solo ai magistrati e non ai componenti esterni alla magistratura, i c.d. “membri laici”.

Il referendum mira ad attribuire la competenza sulla valutazione a quest’ultimi.

Votando “sì” al quesito si introduce dunque tale possibilità di valutazione.

Anche su tale quesito molto tecnico e di opportunità giudiziaria ci sono ragioni pro e contro che ci limitiamo ad esporre qui di seguito.

PRO “si”: l’estensione della valutazione sull’operato della magistratura anche ad avvocati e docenti, oltre a dare un maggior significato alla loro presenza nell’ambito dei consigli giudiziari, garantisce maggiore permeabilità alla critica dell’operato dei magistrati. Secondo tale argomentare la giurisdizione e il suo corretto esercizio deve essere oggetto di critica e valutazione anche da parte di quei soggetti che partecipano e conoscono le problematiche della giustizia.

CONTRO “no”: aprire alla valutazione di soggetti, in particolare per quanto riguarda gli avvocati, che potrebbero essere parti passate presenti o future avanti al magistrato soggetto alla valutazione potrebbe costituire un problema concreto di parzialità di chi valuta ed esporre il magistrato a possibili condizionamenti.

Anche in questo caso, però, il semplice quesito referendario senza un intervento normativo appare “monco”, in quanto se passasse il “sì”, secondo alcuni, rimarrebbe da ridisciplinare, rendendola elettiva, la nomina dei membri non togati (oggi avviene su indicazione dei Consigli dell’Ordine degli Avvocati del distretto) e, magari, prescrivere in maniera maggiormente dettagliata gli obblighi di astensione dei membri laici, così ovviando alle critiche pure ragionevoli dei fautori del “no”.

Quesito 5)

Volete voi che sia abrogata la legge 24 marzo 1958, n.195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art.25, comma 3, limitatamente alle parole “unitamente ad una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. I magistrati presentatori non possono presentare più di una candidatura in ciascuno dei collegi di cui al comma 2 dell’art.23, né possono candidarsi a loro volta”?

Il quesito incide nuovamente sull’organo di autogoverno della magistratura il CSM di cui abbiamo brevemente parlato in relazione al quesito 4).

Per quanto interessa il presente quesito va detto che tale organo, oggetto di numerosissime polemiche negli ultimi tempi, è composto, oltre che dal Presidente della Repubblica che lo presiede, dal primo presidente della Corte di cassazione e dal Procuratore generale della Corte costituzionale e da membri elettivi, per due terzi eletti da tutti i magistrati di ogni ordine e grado e per un terzo eletti dal Parlamento riunito in seduta comune.

Il referendum mira a cambiare il sistema di elezione della maggioranza di due terzi eletti dalla magistratura.

Al momento in effetti un magistrato, per essere eletto nel CSM, deve presentare, oltre alla propria candidatura, una lista composta da 25 a 50 firme. Il referendum mira ad abolire tale necessità, così consentendo candidature anche singole.

Si esporranno di seguito in maniera ragionata alcuni argomenti in relazione a tale proposta referendaria, sempre con l’obiettivo di fornire un aiuto nella scelta rispetto a tale quesito.

Lo stato attuale dell’elezione dei componenti della magistratura nel CSM tramite la presentazione di candidature accompagnata da liste si è detto che determina il formarsi di “correnti” sostenute dai “partiti” della magistratura, così impendendo che un singolo soggetto possa presentare la propria candidatura senza il supporto delle correnti. In tal modo sarebbe limitata la candidabilità di magistrati molto rispettati sul territorio, ma privi di legami con le “correnti”.

Va detto però, per citare alcune ragioni per il no, che allo stato attuale non è detto che un soggetto candidato non inserito in alcuna corrente sia effettivamente limitato nella presentazione della propria candidatura, anzi: in passato sono state plurime le candidature di soggetti non appartenenti ad alcuna corrente. D’altra parte se l’obiettivo è quello di eliminare il potere delle correnti il referendum dovrebbe, anche in questo caso, essere accompagnato da una complessiva riforma del sistema elettivo del CSM, non incidendo esclusivamente sull’individuazione dei candidati, ma altresì sull’elezione degli stessi, momento nel quale il peso delle correnti torna ad essere comunque rilevante.

Alcune informazioni utili per il voto:

Per la validità della consultazione referendaria popolare è necessario che si rechino alle urne metà delle persone aventi diritto al voto più uno. Questo è quanto stabilisce l’articolo 75, IV comma della Costituzione che testualmente recita: “La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.

Se dunque non si recherà alle urne (a prescindere dalla validità del voto poi espresso) il 50% più uno delle persone aventi diritto il referendum non sarà ritenuto valido e non passeranno i quesiti.

Si può ovviamente esprimere per ogni quesito una diversa preferenza per il sì o per il no ed anche annullare la scheda, ma in questo caso il voto, pur nullo, sarà valido ai fini della costituzione del quorum.

Rimane ambiguo e non disciplinato il caso in cui l’elettore si presenti al seggio e non voglia ritirare una o alcuna delle schede relative ad alcuni quesiti ai quali non si intende esprimere una preferenza (così non formando il quorum su quel singolo quesito). Non pare essere oggetto di specifica disciplina questo caso e quindi di per sé da considerarsi un atto consentito che dovrà essere comunque oggetto di verbalizzazione da parte del presidente del seggio (alcune prefetture in questo caso hanno suggerito di chiedere proprio la verbalizzazione del mancato ritiro di una scheda).

A cura di Emanuele Ficara

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