QUER PASTICCIACCIO BRUTTO DELLE LISTE DI ATTESA REMS

L’Italia, si sa, è il paese delle code: code per le poste, code per la banca, code per accedere al pronto soccorso. Ed è per questo che – purtroppo– non ci stupisce che anche coloro che hanno diritto a non essere reclusi, ma ad essere curati, siano posti in una lista d’attesa. Peccato che qui aspettare non significhi passare ore in piedi sbuffando finché non viene chiamato il proprio numero… ma essere rinchiusi in una cella nel carcere di Rebibbia.


La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) il 24 gennaio 2022 ha accertato che questa prassi tutta italiana è contraria alla CEDU. In particolare, i giudici di Strasburgo hanno attestato che lo Stato italiano ha violato gli articoli 3 (trattamento inumano e degradante); 5 § 1 (diritto ad essere privati della libertà personale solo se detenuti regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente); 5 § 5 (mancanza di mezzi per ottenere una riparazione con un sufficiente grado di certezza); 6 § 1 (diritto ad un equo processo), e 34 (diritto ad un ricorso individuale) della CEDU.

Stiamo parlando della sentenza Sy contro Italia. È il 2017 e il sig. Sy è accusato di una serie di reati (molestie, resistenza a pubblico ufficiale, percosse). Il 4 settembre 2017 viene sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere dal giudice per le indagini preliminari (GIP) di Roma. Soffre di disturbi della personalità (“caratteristiche miste di personalità antisociale e borderline”, si legge) e di disturbo bipolare, aggravati dall’uso di sostanze stupefacenti. È per questo che il GIP richiede di accertare – tramite una procedura particolare di produzione di prove denominata incidente probatorio – lo stato psicologico di Sy al momento della commissione del fatto, nonché la sua pericolosità sociale.

Facciamo una piccola digressione (da giuristi). L’art. 206 del nostro Codice penale prevede che durante la fase delle indagini preliminari e del giudizio il giudice possa disporre che l’infermo di mente sia provvisoriamente ricoverato in una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) finché non cessa di essere socialmente pericoloso. Il ricovero (anche preventivo) in REMS è una delle misure di sicurezza detentive che ai sensi dell’articolo 215 c.p. possono essere comminate a soggetti ritenuti pericolosi socialmente. Le REMS sono il risultato del travagliato percorso che ha portato alla chiusura definitiva degli ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), strutture dalle condizioni igienico sanitarie, organizzative e clinico-psichiatriche assolutamente inaccettabili. A differenza degli OPG, le REMS nascono come strutture a completa gestione sanitaria, dove viene data priorità al percorso terapeutico dei soggetti che non possono essere riabilitati tramite la detenzione in un carcere ordinario o altri strumenti alternativi (come l’affidamento ai servizi territoriali per la salute mentale). Ciò non toglie che le REMS abbiano comunque lo scopo di controllare la pericolosità del soggetto affetto da patologia mentale che ha commesso un reato. La pericolosità sociale è un concetto fumoso, il cui accertamento spesso fatica ad incastrarsi fra sapere scientifico e sapere giuridico. Ha a che fare con il futuro: ci si chiede se vi è la possibilità che una persona, che ha già commesso reati, ne commetta altri.

Torniamo al nostro caso: il 3 ottobre 2017 il perito deposita la relazione, dove si legge che il Sy, al momento della commissione dei reati si trovava in una condizione di infermità tale da escludere la sua responsabilità. Lo stesso perito dichiara che il sig. Sy dovrebbe essere considerato socialmente pericoloso e che pertanto necessita di trattamento e riabilitazione terapeutica (e non di detenzione). Di conseguenza, il GIP sostituisce la custodia cautelare in carcere con la misura di sicurezza personale provvisoria del ricovero in una REMS per un anno, da attuare al più presto. La misura però non viene eseguita in concreto, in quanto non c’era spazio in alcuna struttura. Il sig. Sy, dunque, rimane in carcere, anche se lì non ci dovrebbe stare.

Il 22 novembre 2017 il sig. Sy viene poi assolto tramite giudizio immediato sulla base della perizia psichiatrica e anche qui gli viene applicata la misura di sicurezza REMS – questa volta in via definitiva – per un periodo di sei mesi. Il 23 dicembre 2017, però, il sig. Sy viene rilasciato in quanto non c’era alcuna struttura specializzata che si potesse prendere cura di lui.

Tra il 2018 e il 2019 si ripetono dinamiche simili: il ricorrente commette reati ulteriori, viene arrestato e portato in carcere, viene più volte sottolineato il suo bisogno acuto di cure psichiatriche, fino a quando nel gennaio 2019, dopo un tentativo di suicidio, lo psichiatra del carcere di Rebibbia dichiara che il suo stato di salute è incompatibile con la detenzione ordinaria e che è necessario il trasferimento in un reparto psichiatrico del carcere o in una struttura psichiatrica esterna al carcere. Trasferimento che non è mai avvenuto: la storia si ripete.

A partire dal febbraio 2019, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (DAP) inizia la ricerca di REMS disponibili ad accogliere il sig. Sy, sia nella regione Lazio che fuori regione. Nessuna struttura, però, ha posto. Nel frattempo, il sig. Sy è ancora in una cella del carcere di Rebibbia, struttura gravemente sovraffollata e con serie difficoltà nel gestire persone affette da patologie psichiatriche (come affermato nel rapporto di Antigone e nella relazione del Garante Nazionale dei Detenuti).

Il sig. Sy, tramite i suoi legali, adisce la Corte EDU tramite ricorso urgente: il 7 aprile 2020 la Corte EDU ordina al governo italiano di assicurare il trasferimento del ricorrente in una REMS o in una struttura che fosse in grado di garantire le cure terapeutiche necessarie per le patologie sofferte del ricorrente. Il governo riferisce alla Corte EDU di aver informato il giudice dell’esecuzione, unico soggetto competente ai sensi del diritto penale italiano a dar esecuzione al comando della Corte EDU. Riferisce inoltre di aver fatto più richieste alle strutture REMS presenti sul territorio, senza alcun successo.

Il 4 maggio 2020 arriva l’ennesima perizia psichiatrica: il sig. Sy è ancora pericoloso per la società ed ha bisogno di un trattamento terapeutico adatto. L’8 giugno il giudice dell’esecuzione ordina nuovamente l’applicazione della misura di sicurezza del collocamento in una REMS per almeno un anno. Finalmente, il 27 luglio 2020, il sig. Sy viene trasferito nella REMS Castore di Subiaco (Roma).

Si arriva così ad un nuovo ricorso alla Corte EDU da parte del sig. Sy, questa volta con procedimento ordinario. I legali di Sy paventano la violazione degli articoli 3, 5 § 1, 5 §5, 6, 13 e 34 della CEDU.

L’articolo 3 CEDU, in particolare, impone agli stati parte della convenzione di assicurare che ogni persona ristretta sia detenuta in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana. Ciò comporta che anche la sua salute e il suo benessere debbano essere garantiti tramite le cure mediche necessarie. Nel caso di detenzione di una persona affetta da una patologia psichiatrica, più vulnerabile rispetto alla popolazione detenuta generale, vi deve essere ancora più attenzione da parte dello stato. Non basta che il detenuto riceva assistenza medica nel corso della detenzione: questa deve essere adeguata. In più, l’assenza di una strategia terapeutica globale nel caso di un detenuto affetto da patologie psicologiche o psichiatriche può equivalere ad un abbandono terapeutico contrario all’essenza dell’articolo 3 CEDU.

Nel caso del sig. Sy, la Corte ha dichiarato che, nonostante le indicazioni chiare e inequivocabili sull’incompatibilità dello stato di salute mentale del ricorrente con la detenzione in un carcere ordinario, il sig. Sy è stato ristretto in un carcere per quasi due anni. Egli non ha potuto beneficiare di alcun piano terapeutico globale per curare o prevenire l’aggravamento delle sue patologie ed è stato detenuto in un contesto caratterizzato da condizioni di detenzione inadeguate. Tutto ciò, afferma la Corte, è in violazione dell’articolo 3 della CEDU. Inoltre, l’aver trattenuto (nel periodo dal 21 maggio 2019 al 10 maggio 2020) il sig. Sy in carcere per mancanza di una struttura REMS disponibile ad accoglierlo non è una giustificazione valida e pertanto la detenzione è contraria all’articolo 5 § 1 della CEDU. Infine, lo Stato italiano non ha rispettato la misura provvisoria indicata dalla Corte EDU (che consisteva nell’assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura che fornisse cure terapeutiche adeguate) poiché ciò è stato fatto solo 35 giorni dopo il provvedimento, tempo considerato dalla Corte EDU irragionevole.

Per questi motivi, la Corte EDU ha condannato lo Stato italiano a risarcire il sig. Sy del danno morale subito.

Tiriamo le somme.

Il caso del sig. Sy, purtroppo, non è isolato.

La nostra stessa Corte Costituzionale (sentenza 22 del 27 gennaio 2022) ha affermato che vi sono tra le 670 e 750 persone attualmente in lista d’attesa per essere collocate in una REMS. Il tempo medio di permanenza nella lista è di 304 giorni. Solo in Sicilia, ad esempio, ci sono 172 persone in lista, con un tempo medio di permanenza nella lista di 458 giorni. La Corte Costituzionale, rigettando le questioni di legittimità proposte, ha ammonito il legislatore ad eliminare al più presto “i numerosi profili di frizione con i principi costituzionali” che sono causati dall’applicazione concreta delle norme vigenti in materia di REMS nei confronti degli autori di reato affetti da patologie psichiche. La stessa Corte ha ammesso di non poter dichiarare l’incostituzionalità delle norme che sono alla base della misura del ricovero in REMS, in quanto ciò causerebbe un immenso vuoto di tutela.

Siamo davanti ad un meccanismo difettoso che non permette la tutela del diritto alla salute del malato-reo. Le REMS, ai sensi del dettato normativo, sono a numero chiuso: “non possono essere sovraffollate”. Allo stesso tempo, le strutture disponibili non sono sufficienti a soddisfare il fabbisogno del sistema penale: il risultato è un cortocircuito, dove la violazione dei diritti della persona la fa da padrone.

La macchina del “sistema REMS”, quindi, si è inceppata: ci auguriamo solo che lo Stato italiano abbia ricevuto lo scossone necessario per procedere ad una vera riforma, che non si limiti ad aumentare la capienza delle REMS o a creare nuovi reparti speciali all’interno delle carceri, ma che sia orientata a potenziare le strutture sanitarie territoriali già esistenti, ad assumere più personale (sanitario e non) e a formare quello già assunto. Insomma, serve una riforma che porti una boccata d’aria ad un apparato, quale quello rivolto a coloro che sono ai margini dei margini, che non ce la fa più. Noi di StraLi la aspettiamo con (poca) pazienza.

A cura di Alice Giannini

DIRETTIVA SULLA PROTEZIONE TEMPORANEA: NON È TUTTO ORO QUELLO CHE LUCCICA

Dall’invasione russa dell’Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022 ad oggi, circa 2.9 milioni di persone sono scappate dal Paese riversandosi principalmente nei limitrofi Stati membri dell’UE. Come pronta risposta alla crisi umanitaria in corso e per poter offrire protezione giuridica alle persone in fuga dallo Stato, la Commissione Europea (la Commissione) ha proposto al Consiglio dell’Unione Europea (il Consiglio) di attivare la Direttiva sulla Protezione Temporanea (Direttiva 2001/55/CE) riconoscendo l’esodo degli sfollati ucraini come un “afflusso massiccio”. Quest’ultimo riconoscimento figura come precondizione dell’attivazione della Direttiva ai sensi dell’Articolo 5 della stessa. Per la prima volta dal 2001, anno della sua adozione, la Direttiva sulla Protezione Temporanea è stata unanimemente attivata dal Consiglio il 3 marzo 2022.

In termini generali la Direttiva garantisce protezione temporanea ad apolidi o cittadini di Paesi terzi che non possono rientrare nel loro Paese di origine, o di residenza, a causa di conflitto armato o violenza endemica o di violazioni generalizzate di diritti umani, qualora tale afflusso sia considerato “massiccio” (Articolo 2). In virtù della decisione del Consiglio, la Direttiva si applicherà rispettivamente ai cittadini ucraini residenti nel Paese al 24 febbraio; apolidi o cittadini di Paesi terzi titolari di protezione internazionale o analoga protezione sancita dal diritto interno ucraino al 24 febbraio nonché ai loro familiari previo soddisfacimento delle condizioni enumerate all’Articolo 2(4) della Decisione del Consiglio. Se poi la Direttiva richiede agli Stati membri di concedere la protezione temporanea, o un’analoga protezione ai sensi del diritto interno, nei confronti dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti da molto tempo in Ucraina (Articolo 2(2)), questo non accade per tutti gli altri cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti nel Paese (Articolo 2(3)) per cui gli Stati membri possono non applicare la Direttiva, decidendo quindi o meno di concedere protezione temporanea.

In modo alquanto interessante – perché diversa dalle altre disposizioni in materia – la Decisione prevede un sistema di solidarietà tra Stati membri tale per cui i potenziali beneficiari di protezione temporanea godono della facoltà di scelta del Paese membro di destinazione (Considerando 3). La Direttiva prevede altresì

la possibilità per gli Stati stessi di validare la protezione riconosciuta in un altro Stato membro in un’ottica di promozione della mobilita intra-europea (Capo VI della Direttiva).

La protezione è offerta per un anno con possibilità di proroga – di 6 mesi in 6 mesi per un periodo massimo di un ulteriore anno – qualora un rimpatrio sicuro e stabile delle persone beneficiarie di tale protezione non sia percorribile per il ricorrere della situazione di pericolo nello Stato di origine o residenza (Articolo 4(1) della Direttiva). La protezione temporanea non pregiudica la possibilità di richiedere il riconoscimento dello status di rifugiato nel Paese membro ospitante (Articolo 3 della Direttiva). Allo stesso modo, coloro che beneficiano di protezione temporanea hanno accesso a diritti in materia lavorativa e sociale (Articoli 12-15).

La pronta risposta del Consiglio permette di raggiungere una notevole conclusione nell’ambito della gestione del fenomeno migratorio in un periodo storico in cui lo stesso appare essere un fenomeno dalla connotazione complessa, perlomeno a livello giuridico, temuto dai Paesi membri dell’UE. L’attivazione della Direttiva, infatti, sembra affermare che il fenomeno migratorio sia in realtà gestibile quando gli sforzi degli Stati membri sono integrati in una strategia congiunta.

Nonostante questo, però, la Direttiva – nei termini di applicazione – non è scevra da problematiche. In primo luogo, l’ampia discrezionalità concessa agli Stati membri nell’applicare la Direttiva nei confronti di cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in Ucraina con un permesso diverso da quello di lungo soggiorno, potrebbe portare in futuro ad un’applicazione discriminatoria nei loro confronti. In particolare, questo potrebbe essere il caso di quei cittadini con un permesso per studio o lavoro e che siano, in qualche modo, impossibilitati a rientrare nel loro Paese di origine. Per questo, quindi, la Direttiva non è definibile come uno strumento giuridico comprensivo.

Un’altra considerazione, riguarda la temporaneità della protezione offerta e della sua natura di arma a doppio taglio, come dimostrano le misure adottate in Turchia in risposta alla crisi migratoria del 2015. In quel frangente, infatti, la protezione temporanea offerta agli esuli siriani – strumento giuridico diverso da quello previsto dalla Direttiva attuale essendo la Turchia non un Paese membro dell’UE – si è rivelata poi essere un punto di stasi: con siffatto permesso, applicato in teoria ma non in pratica, i beneficiari sono stati praticamente ostacolati nel processo di integrazione (la Turchia, per esempio, ha concesso l’accesso al mercato del lavoro ai beneficiari di protezione temporanea 6 anni in ritardo rispetto alla legislazione su tale permesso). In aggiunta, riferendosi sempre al caso turco come esempio, la protezione temporanea non deve diventare uno strumento dall’indefinito rinnovo. Piuttosto, sembra necessario prevedere uno scenario in cui la Guerra non si esaurisce nel breve periodo, di modo da poter offrire agli sfollati una protezione di media-lunga durata. Nonostante, infatti, la protezione – almeno in teoria – preveda il godimento di diritti in materia lavorativa e sociale da parte dei beneficiari, sarebbe auspicabile che l’Unione Europea si impegni per un piano di lunga durata, al fine di garantire l’effettiva inclusione socio-economica degli esuli ucraini nel caso in cui la guerra non cessi nel breve periodo.

Nonostante ciò, e come sopra menzionato, una nota sicuramente positiva riguarda il meccanismo secondo cui i potenziali beneficiari possono effettivamente scegliere il Paese membro in cui richiedere la protezione temporanea. Tale possibilità, che sottolinea “l’umanità” del testo legislativo – quasi praticamente assente in altri testi in materia – sarebbe di giovamento ad entrambe le parti, migranti e Stati ospitanti, nella misura in cui ad un’effettiva equa distribuzione dei migranti ed a una riduzione della pressione sui sistemi di accoglienza si specchierebbe un’effettiva garanzia del diritto alla mobilità dei singoli.

In ogni caso, ciò che sembra certo, e che i Paesi membri, quando vogliono, possono effettivamente abbattere i muri fisici e non della così tristemente detta fortress Europe.

A cura di Maria Giulia Marinari

QUAL È LO STATO DEL DIRITTO ALL’ABORTO NEL MONDO?

È di pochi giorni fa la notizia che il congresso del Guatemala ha approvato la “Legge per la protezione della vita e della famiglia”, o Legge 5272: al centro del provvedimento, oltre a una serie di disposizioni conservatrici come il divieto di matrimonio fra persone dello stesso sesso, c’è anche l’inasprimento delle pene per chi ricorre all’Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG).

In Guatemala era già prevista la reclusione fino a tre anni per chi ricorreva o promuoveva e facilitava l’accesso all’IVG, ma ora le ragazze, donne o persone che cerchino di sottoporsi all’interruzione rischiano fino a dieci anni di carcere; il personale sanitario che esegua o aiuti ad ottenere un intervento rischia pene ancora più alte.

La legge si pone in controtendenza rispetto a molti Paesi dell’America Latina, ma si colloca anche in un panorama globale che, rispetto al diritto all’autodeterminazione di donne e persone che scelgono di o devono ricorrere all’IVG, è sempre più polarizzato. Negli ultimi anni infatti abbiamo assistito o a una progressiva depenalizzazione dell’aborto e a un ampliamento dell’accesso al diritto, oppure a un rifiuto secco e a una risposta aggressiva da parte di governi e istituzioni.

L’America Latina ha in realtà da qualche anno intrapreso molteplici percorsi di depenalizzazione e facilitazione dell’accesso all’IVG. È di pochi giorni antecedente alla decisione del congresso guatemalteco la decisione della Corte Costituzionale della Colombia di depenalizzare parzialmente l’aborto: con una sentenza è stato reso possibile l’accesso all’IVG entro le prime 24 settimane di gravidanza, dopo che diverse associazioni attive nel campo del diritto all’autodeterminazione avevano chiesto alla Corte di esprimersi sulle leggi molto restrittive dapprima vigenti. La svolta in Colombia era stata preceduta da una simile legalizzazione avvenuta in Argentina nel 2020 e in Messico nel 2021. Sempre all’inizio di quest’anno, il Parlamento dell’Ecuador ha depenalizzato il ricorso all’aborto entro le prime 12 settimane in caso di stupro, una misura pur sempre ristretta che però per i gruppi femministi attivi nel Paese è un punto di partenza.

Tuttavia, sono molti i Paesi vicini in cui ricorrere all’IVG è vietato, fra essi Honduras ed El Salvador. Proprio in quest’ultimo Paese, ha fatto scalpore il caso di una donna rilasciata dopo aver scontato dieci anni di detenzione per aver avuto un aborto – secondo le autorità, risultato di un’interruzione di gravidanza praticata illegalmente – come riportato anche da Human Rights Watch.

Nel Nord America e, negli Stati Uniti d’America in particolare, si vive una simile contrapposizione fra provvedimenti estremamente conservatori e una liberalizzazione in favore del diritto all’autodeterminazione. Vi avevamo già parlato, in questo articolo, del caso del Texas e del cosiddetto “heartbeat bill”, la legge del battito cardiaco che vieta al personale medico d’interrompere una gravidanza qualora riscontri attività cardiaca da parte dell’embrione. Nonostante la sospensione della legge da parte di un giudice federale, era stata poi reintrodotta in via temporanea da una corte d’appello.

L’ultima decisione è arrivata anch’essa nei primi giorni di questo marzo 2022: la Corte Suprema dello Stato del Texas ha rigettato l’ultimo ricorso fatto contro una legge che sembra essere stata progettata per sfuggire al giudizio di una corte federale, secondo quanto riportato da The New York Times. La legge del battito cardiaco prevede infatti che la responsabilità dell’enforcement delle disposizioni non ricada sull’autorità statale, quanto sulla cittadinanza – che può citare in giudizio chiunque ne commetta una violazione. Un modello che rischia pericolosamente di essere replicato in altri Stati della federazione.

Il Texas non è l’unico che ha preso una drastica posizione restrittiva sull’IVG. Anche la Florida ha recentemente votato per il divieto al ricorso all’interruzione di gravidanza dopo le prime 15 settimane nella maggior parte dei casi, fatto salvo il caso di grave pericolo per la salute della persona in gestazione o grave malformazione del feto – esclusi quindi i casi di stupro o incesto. Il disegno di legge deve ora passare il vaglio del Senato della Florida, ma s’inserisce in una serie di provvedimenti dello Stato che non hanno colpito solo i diritti riproduttivi e l’autodeterminazione, ma i diritti delle minoranze in generale.

In questo contesto, è lo Stato della California a porsi come capofila degli Stati che invece si battono per un’IVG sicura e accessibile a chiunque: fra i provvedimenti di cui si discute, un supporto economico per coprire costi di viaggio e spese di persone che, da altri Stati, vogliano recarsi in California per l’interruzione. Tuttavia, questo esempio si colloca in uno scenario che, a livello federale, rischia di farsi sempre più critico anche e soprattutto per la posizione della Corte Suprema degli Stati Uniti, ad oggi a maggioranza conservatrice. Interrogata sulla legittimità della legge sul diritto all’aborto dello Stato del Mississipi – anch’essa estremamente restrittiva, l’accesso all’IVG è vietato dopo le 15 settimane di gestazione salvo poche eccezioni – e su altre disposizioni in materia di diversi Stati, la Corte sembra ormai aver intrapreso un percorso a sostegno delle posizioni più conservatrici. Quel che si teme è il ribaltamento della storica sentenza “Roe vs Wade”, la vera fonte di garanzia del diritto all’aborto nel sistema giuridico statunitense.

In Europa, lo scenario sembra altrettanto polarizzato: vi abbiamo parlato, in passato, della lotta delle istituzioni e del governo polacco contro il diritto all’aborto e del movimento d’opposizione alle norme introdotte, “StajkKobiet”, Lo Sciopero delle Donne – in questo post. Il movimento è tornato a protestare in piazza di recente, dopo che una donna in stato di gravidanza è deceduta in ospedale: nonostante evidenti complicazioni, il personale sanitario si era rifiutato di effettuare l’interruzione.

Quanto all’Italia, nonostante il diritto all’IVG sia previsto dal 1978 con l’entrata in vigore della nota legge 194/78, continuiamo a chiedersi quanto l’accesso a questo diritto sia effettivo. È possibile, infatti, ricorrere all’IVG entro i primi 90 giorni di gestazione o successivamente, se per motivi di natura terapeutica. Tuttavia, il riconoscimento di questa possibilità non rende semplice il percorso per accedere al diritto: l’istituto dell’obiezione di coscienza, previsto all’art. 9 della legge tranne che per casi in cui l’interruzione sia “indispensabile per salvare la vita della donna in imminente pericolo”, è solo il più grosso scoglio rispetto a questo esercizio. Alla scarsità e alla disparità territoriale del personale sanitario obiettore si aggiungono anche le carenze del sistema sanitario, i lunghissimi tempi di attesa e l’accertamento delle motivazioni valide per abortire previste all’art. 4 della legge. Esse infatti possono solo costituire “serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute, o alle sue condizioni economiche, o sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento, o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito” e ad accertarle è sempre il personale sanitario.

Una piccola vittoria è arrivata quando, a inizio anno, il governo della Germania ha accolto le rivendicazioni dei movimenti femministi ed ha annunciato di voler depenalizzare l’informazione sull’accesso all’IVG, risalente a una legge di epoca nazista. Ma questo non è abbastanza.

Il tema vero è che, anche a fronte di questa carrellata di situazioni, il dibattito sul diritto non solo alla salute, ma all’autodeterminazione, non dovrebbe essere polarizzato. L’accesso a un’interruzione di gravidanza sicura e libera dovrebbe essere un diritto riconosciuto. Non dovremmo ritrovarci a gioire per notizie come quelle che arrivano da El Salvador o dalla Germania, positive se decontestualizzate, ma che risultano un premio di consolazione, rispetto allo stato dell’IVG nel mondo.

Restringere i casi in cui l’IVG è un servizio garantito o, addirittura, criminalizzare l’interruzione non interviene sulla necessità di donne, ragazze e persone di ricorrere ad essa. L’esigenza resta: ciò che invece scatta, in questi casi, sono forme di IVG illegali, di fatto meno sicure e con conseguenze che sono dannose o fatali. Conseguenze che possono essere evitate in una qualsiasi struttura ospedaliera attrezzata e formata a fornire il servizio – come dichiara anche Amnesty International.

L’accesso a un’interruzione volontaria di gravidanza sicura è un diritto: lo è alla luce del diritto alla vita e alla salute, a tutela della dignità di ogni persona che si trovi ad averne bisogno. È essenziale una battaglia globale contro provvedimenti discriminatori, che violino questi diritti e ledano la dignità umana.

A cura di Greta Temporin

RICHIEDENTI PROTEZIONE: OGNI DUE ANNI NUOVE REGOLE

Il diritto dell’immigrazione è una materia che, per sua stessa natura, vive in costante evoluzione. Tuttavia, le recenti modifiche normative intervenute in quest’ambito non sembrano state guidate dalla necessità di adeguare il diritto ai mutamenti del fenomeno migratorio, bensì dal succedersi di partiti di ideologie differenti.

I governi cambiano e, a seconda dei rapporti di forza e delle maggioranze, le leggi che regolano la permanenza e l’ingresso delle persone migranti si modificano radicalmente.

Nell’ottobre 2018 l’entrata in vigore del decreto legge 113/2018, conosciuto come decreto Salvini, ha ristretto pesantemente i diritti di ingresso e permanenza delle persone migranti sul territorio italiano. Tra le modifiche più note, si ricorda l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, concesso in presenza di motivi oggettivi, legati al Paese d’origine – come una situazione di pericolo diffuso o, per esempio, una carestia – o soggettivi, legati alla persona – ad esempio, quando al rimpatrio consegua un’impossibilità a reperire farmaci salvavita, una lesione del diritto alla vita privata e familiare, o ancora in caso di comprovata integrazione sul territorio.

Parallelamente, il decreto introduceva un novero di casistiche predeterminate in ragione delle quali veniva concesso un nuovo permesso di soggiorno per casi speciali: tali casistiche, però, non esaurivano affatto la molteplicità di casi prima coperti dai motivi umanitari, restringendo così di molto l’applicabilità dell’istituto.

Due anni e un governo dopo, la materia è stata nuovamente modificata dal decreto 130/2020: a fronte dei numerosi dubbi di costituzionalità sollevati in relazione al decreto Salvini, il legislatore è intervenuto ripristinando esplicitamente il rispetto degli obblighi costituzionali e internazionali.

In quest’ottica, tra le altre modifiche, il decreto ha esteso il divieto di respingimento o espulsione ai casi in cui la persona rischi di subire trattamenti inumani e degradanti, conformandosi così all’art. 3 CEDU e alla ormai consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Sempre allo scopo di attuare i principi comunitari, il nuovo decreto prevede espressamente il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale laddove sia necessario per garantire il rispetto della vita privata e familiare: così facendo si torna a tenere in considerazione l’elemento dell’integrazione sociale che il decreto Salvini aveva ingiustamente escluso, elemento di valutazione essenziale tenuto conto della lunghezza della procedura.

Il continuo modificarsi delle leggi che regolano la materia, soprattutto perché verificatosi in un breve lasso di tempo, pone diversi problemi: da una parte, naturalmente, il proliferare di norme contrastanti e il loro continuo sostituirsi l’una all’altra non può che generare una grande confusione tra le persone che dovrebbero beneficiarne.

Dall’altra, cambiamenti normativi così ravvicinati pongono inevitabilmente il problema della temporanea coesistenza di regimi giuridici diversi: ad oggi, infatti, dal momento che spesso passano diversi anni tra il momento della domanda giudiziale e la decisione definitiva, all’interno del medesimo Tribunale esistono casi ai quali viene applicata la normativa pre-Salvini, casi a cui si applica il decreto legge 113/2018 e casi a cui andrà applicato il nuovo d.l. 130/2020.

Il tema si era posto già in relazione all’applicabilità del decreto Salvini: sin dalla sua entrata in vigore, infatti, molte Commissioni Territoriali avevano iniziato ad applicare le nuove disposizioni anche alle domande pendenti. In questo modo, trovandosi a decidere, ad esempio, su una domanda di protezione che era stata presentata ben prima dell’entrata in vigore del decreto, applicavano le norme sopravvenute e giudicavano il caso senza indagare sulla sussistenza dei presupposti per il riconoscimento di un permesso per motivi umanitari.

Dopo numerosi interventi dottrinali e giurisprudenziali, la Cassazione è arrivata a esprimersi sul punto (sentenze n. 29459 e n. 29460 del 2019) confermando l’irretroattività della normativa alle domande pendenti al momento dell’entrata in vigore del decreto legge.

In altre parole, se la persona ha depositato la propria domanda prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini, le modifiche normative che il decreto ha introdotto non sono applicabili al suo caso.

Il problema della coesistenza di regimi giuridici disomogenei si è però ripresentato velocemente: a poco più di un anno dalle pronunce della Suprema Corte, infatti, la materia è stata di nuovo modificata dal decreto 130/2020.

A differenza di quanto avvenuto con il decreto Salvini, in questo caso è stata predisposta una norma transitoria all’interno del decreto stesso[1], secondo la quale le nuove disposizioni devono essere applicate retroattivamente ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del testo. Tale principio di retroattività, tuttavia, trova applicazione soltanto se tali procedimenti sono pendenti davanti alle Commissioni Territoriali, al questore o alle sezioni specializzate dei Tribunali[2].

Questa precisazione del testo che limita la sua applicabilità alle domande pendenti non in relazione alla data di presentazione bensì all’organo decisore, è alquanto particolare e presenta senz’altro alcuni problemi applicativi.

Secondo il nuovo decreto, infatti, le modifiche normative sono da applicare a tutte le domande pendenti se ci si trova davanti alla Commissione, al questore o alle sezioni specializzate. Se invece la domanda pendesse, ad esempio, innanzi alla Corte di Cassazione, al Tribunale in sede di rinvio o al Giudice di pace, si dovrebbe applicare il regime previgente. Già così la situazione è abbastanza complessa e pare realizzarsi un’ingiustificata disparità di trattamento.

A ciò va però aggiunta un’ulteriore domanda: in caso ci si trovi davanti alla Corte di Cassazione, al Tribunale in sede di rinvio o al Giudice di pace, quale sarebbe il regime previgente?

La risposta più immediata sarebbe il decreto Salvini. Ma come abbiamo spiegato prima, tale decreto non è applicabile alle domande pendenti presentate prima della sua entrata in vigore e quindi:

– se la domanda è stata presentata prima dell’entrata in vigore del decreto Salvini si applicherà la formulazione antecedente al 2018, e quindi si potrà, per esempio, riconoscere un permesso per motivi umanitari;

– se invece è stata presentata dopo l’entrata in vigore del decreto allora si applicherà il trattamento restrittivo previsto dal d.l. Salvini.

In sintesi, alle domande pendenti innanzi alla Commissione Territoriale, al questore o al Tribunale (non in sede di rinvio) si applica sempre il nuovo testo del d.l. 130/2020, a prescindere da quando sono state presentate.

Invece, davanti a qualsiasi altro organo decisore si applicano oggi tre regimi giuridici differenti a seconda che la domanda sia stata presentata prima del decreto Salvini, dopo il nuovo d.l. 130/2020 o nel periodo trascorso tra le due modifiche.

La situazione descritta, oltre che al limite dell’assurdo, crea evidentemente dei casi di ingiustificata disparità di trattamento: a situazioni analoghe verranno applicate normative diverse, di cui alcune molto più favorevoli di altre, esclusivamente in base alla fase processuale in cui versa la domanda e alla sua data di presentazione.

A cura di Elena Garelli

NOTE

[1]Art. 15 d.l.130/2020 Disposizioni transitorie: 1. Le disposizioni di cui all’articolo 1, comma 1, lettere a), e) ed f) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali, al questore e alle sezioni specializzate dei tribunali, con esclusione dell’ipotesi prevista dall’articolo 384, comma 2 del codice di procedura civile; 2. Le disposizioni di cui all’articolo 2, comma 1, lettere a), b, c), d) ed e) si applicano anche ai procedimenti pendenti alla data di entrata in vigore del presente decreto avanti alle commissioni territoriali. [2]Si analizza in questo momento solo il caso di cui all’art. 15 co.1 poiché il comma 2 si riferisce solo ad alcune procedure speciali per il riconoscimento della protezione internazionale per alcune categorie di soggetti vulnerabili e non presenta profili di particolare problematicità.

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