LA POLONIA CRIMINALIZZA L’INSEGNAMENTO DELL’EDUCAZIONE SESSUALE

La Camera del parlamento polacco ha da poco approvato una proposta di legge, soprannominata “stop pedofilia”, con cui criminalizza, tra le altre cose, l’insegnamento dell’educazione sessuale ai bambini. La parola sul punto ora spetta al Senato.

Tra le sanzioni previste spicca la pena detentiva di 3 anni per chi promuova o approvi l’attività sessuale di un minore, soprattutto nel caso in cui l’imputato agisca all’interno del suo ambito professionale: educatori, insegnanti e medici che siano sorpresi a fornire chiarimenti e consigli in materia di attività sessuale a minori rischiano il carcere.

Come ben saprete, la Polonia è uno dei paesi più conservatori e cattolici d’Europa e le associazioni religiose che hanno sostenuto lo “stop pedofilia” sono le stesse che, nel 2016, erano a favore dell’introduzione di un disegno di legge che prevedeva il divieto pressoché totale delle interruzioni di gravidanza (poi ritirato a seguito delle numerose proteste da parte di movimenti per i diritti umani).

L’influenza religiosa è così forte che nelle scuole pubbliche polacche è previsto l’insegnamento di lezioni di “vita familiare”, per tramandare agli alunni i valori della famiglia tradizionale che comprendono, naturalmente, la denigrazione della donna, l’opposizione all’aborto e la negazione dei diritti delle persone LGBTQI.

In alcune zone zone del paese, soprattutto quelle rurali, le parrocchie appaiono come centri nevralgici della vita sociale e quotidiana, garantendo servizi di assistenza alla popolazione e partecipando alla vita politica della nazione. Nonostante ciò, negli istituti scolastici di alcune città meno conservatrici sono stati avviati dei programmi di educazione sessuale che hanno favorito la nascita di contestazioni da parte del partito di estrema destra del governo e dalla conferenza episcopale polacca, fino alla stesura del disegno di legge in questione.

Le ragioni di questa potente influenza del clero polacco vanno ricercate nella storia passata della nazione: la religione, infatti, ha permesso alla Polonia di liberarsi dal comunismo che si diffuse a macchia d’olio a seguito della vincita dell’Unione Sovietica durante la seconda guerra mondiale. Nel 1989, con il crollo del muro di Berlino, il movimento cattolico ed anticomunista Solidarność, capeggiato da Lech Walęsa, venne ufficialmente riconosciuto, riscuotendo una schiacciante vittoria alle elezioni parlamentari.

In realtà, tuttavia, la religione divenne un fondamento dell’identità nazionale polacca già tempo addietro quando, nel 1979, l’eletto a pontefice Karol Wojtyla visitò la nazione per la prima volta in via ufficiale. Nello stesso anno, Wojtyla visitò anche un altro paese dalla fede fortemente cattolica: l’Irlanda.

Fare un confronto tra le due nazioni risulta interessante perchè ci permette di renderci conto di quanto le direzioni prese dai due paesi siano diametralmente opposte.

Infatti, se in Irlanda la Chiesa sta progressivamente perdendo il suo potere, con il conseguente riconoscimento dell’unione matrimoniale tra individui dello stesso sesso e la legalizzazione dell’aborto, in Polonia la situazione ha preso una piega diversa. Le fazioni conservatrici del governo, infatti, si oppongono fermamente all’immigrazione musulmana, hanno irrigidito le sanzioni sull’aborto e continuano a non riconoscere i diritti fondamentali delle persone omosessuali e di coloro che appartengono alle minoranze religiose. Nel 2009, inoltre, la Polonia ha ratificato il Trattato di Lisbona con una clausola di esenzione nei confronti della Carta sui diritti fondamentali dell’Unione Europea per evitare che il paese perdesse la propria autorità in materia di aborto, matrimoni omosessuali ed eutanasia. 

La preoccupazione rispetto all’insegnamento della sessualità nelle scuole viene giustificata dalle associazioni cattoliche ritenendo che essa danneggerebbe la salute dei giovani, portandoli alla “depravazione” e ad una “sessualizzazione forzata” tramite la stimolazione dell’eccitazione sessuale.

Ciò che colpisce è che, nel 2019, ancora non si sia consapevoli del fatto che non c’è bisogno di lezioni sugli apparati riproduttivi umani per risvegliare l’eccitazione dei minori: i bambini si eccitano in ogni caso, è fisiologico, e ciò di cui davvero hanno bisogno è che i grandi li aiutino a capire come mai questo succede, quali sono le numerose e diverse dimensioni della sessualità, perchè è importante utilizzare i metodi contraccettivi e perchè una donna ha il diritto di scegliere se diventare madre o meno.

È stato infatti ampiamente dimostrato come l’insegnamento dell’attività sessuale sia uno dei più potenti strumenti contro la violenza di genere, la trasmissione delle malattie e la comparsa di gravidanze indesiderate, tanto che ci viene difficile collocarla sullo stesso piano della pedofilia (fenomeno peraltro largamente diffuso all’interno degli ambienti ecclesiastici polacchi).

Negli ultimi 25 anni, sono stati denunciati 625 casi di abusi sessuali su minori da parte di sacerdoti polacchi ma, a quanto pare, il clero non viene assolutamente nominato nel nuovo disegno di legge, e rimangono le scuole laiche ad essere considerate i luoghi più pericolosi in cui lasciare i minori.

Confinare la sessualità nella categoria di tabù non fa altro che incrementare la sensazione di confusione ed imbarazzo che i bambini provano quando si accorgono che il loro corpo, e i loro desideri, subiscono dei cambiamenti: accompagnarli nella scoperta di queste novità è senz’altro utile per disincentivare lo sviluppo di modelli di sessualità pericolosi e violenti.

…E TU NON SAI QUELLO CHE DICI

Il giorno 23 ottobre 2019 la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale l’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario, nella parte in cui non prevede la possibilità di ammettere al beneficio penitenziario del permesso premio i detenuti ergastolani ostativi che non abbiano collaborato con la giustizia, anche laddove siano stati acquisiti “elementi tali da escludere sia l’attualità della partecipazione all’associazione criminale sia, più in generale, il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzatahttps://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20191023170305.pdf.

Ancora una volta, come già era successo dopo la pronuncia di rigetto della Grande Camera della Corte Europea dei diritti dell’Uomo, i giornali hanno dato fuoco alle polveri, alimentando la paura che, da un giorno all’altro, migliaia di mafiosi e terroristi sarebbero stati messi in libertà.

In questo caso, però, c’è stato un articolo che più degli altri ha attirato la nostra attenzione: “Sanno quello che fanno”, a firma di Marco Travaglio, pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” del 24 ottobre. Dal momento che il pezzo vanta più di una grossolana imprecisione, riteniamo sia più semplice procedere analiticamente, in modo tale da fare un po’ di chiarezza intorno ad un tema così delicato.

1. Nella fase di esecuzione della pena vige un principio di cui la Corte Costituzionale ha più volte sancito l’esistenza, estrapolandolo in via interpretativa direttamente dall’art 27 della Costituzione: il principio della flessibilità della pena.

Ma cosa significa, esattamente, flessibilità della pena? Significa che, dopo la condanna e durante l’esecuzione della sanzione penale, le modalità di espiazione della stessa possono concretamente essere modificate in ragione delle decisioni di un giudice ad hoc: il magistrato di sorveglianza. In altre parole, la sanzione penale si modifica nel corso della sua esecuzione per adattarsi ai progressi raggiunti dal detenuto nell’arco del suo percorso di risocializzazione.

Quanto finora detto vale, almeno in astratto, per tutte le specie di pena, e quindi anche per l’ergastolo. Tanto è vero che, grazie alla legge 663/1986, anche gli ergastolani possono accedere ai benefici penitenziari e sperare, dopo 26 anni di detenzione, di riottenere la libertà (diritto fondamentale che può essere limitato, ma mai soppresso, neanche dal potere punitivo di uno Stato).

Attenzione però: “potere” non equivale a “dovere”. E si, perché è il magistrato di sorveglianza ad avere l’ultima parola, decidendo sulla concreta applicazione delle misure alternative. Insomma, che l’ergastolo in Italia non esista è una grossa fesseria, dal momento che la perpetuità dello stesso continua ad esistere in tutti quei casi in cui il giudice ritiene non sussistente il ravvedimento del detenuto. Si materializza, in questi casi, un vero “fine pena mai”, per la gioia di Travaglio e co.

E allora, chiamare l’ergastolo ostativo “ergastolo vero” è un errore imperdonabile, per due ordini di motivi: in primis, perché non tiene conto dell’attuale esistenza di ergastoli effettivi e del principio della flessibilità della pena (si veda sopra); in secundis, perché colpevolmente evita di fare i conti con la vera natura dell’ergastolo ostativo: una detenzione perenne e perennemente intramuraria. “Pena di morte viva” la chiamano i detenuti.

Travaglio continua dicendo che “ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora”.

Al di là del lessico paternalistico usato dal giornalista (la pena laica, diversamente dalla penitenza religiosa, non serve a redimere nessuno), una questione merita di essere affrontata: è ormai dato per scontato che il termine “rieducazione” debba essere inteso nel senso di “risocializzazione”, cioè reinserimento nella società. Anche a fronte di un percorso di studio o di lavoro intramurario, quindi, come può una persona tornare a fare parte del consorzio sociale se continua ad essere detenuta? Questo Travaglio non ce lo spiega.

Va da sé, inoltre, che la “rieducazione” non può rappresentare un fine in se stessa: o è risocializzazione o torna ad essere redenzione religiosa.

2. “Un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia”. Uno slogan che spesso coincide con la realtà. Spesso, non sempre.

Collaborare con la giustizia è condizione necessaria per accedere ai benefici penitenziari, ma non sufficiente per ritenere esistente il ravvedimento di cui parlano le norme dell’O.P..

Se si considera che “parlare” rappresenta l’unico modo per uscire di prigione, allora si svela il reale scopo per cui è nato l’art. 4 bis: non quello di realizzare l’ “ergastolo vero” (altrimenti non si giustificherebbe l’esistenza di una “scappatoia”), ma incentivare, fino a costringere, la collaborazione con la giustizia. In questo modo un mafioso cessa di essere tale non perché si è “ravveduto”, ma perché l’associazione criminale non lo accetterà più. Diventerà un “infame”, e il trattamento loro riservato si sostanzia nell’esclusione e nella morte.

Chi parla rischia la propria vita e quella dei propri familiari, e realizza così la seconda ipotesi di effettiva “redenzione” prospettata da Travaglio. Un due per uno, insomma.

3. Il timore che la magistratura di sorveglianza possa essere fatta oggetto di intimidazioni ed attacchi da parte della criminalizzata organizzata è una “non-questione”.

Non perché questo non possa capitare, intendiamoci.

Ma perché sarebbe assurdo che un istituto dichiarato inumano e degradante dalla Corte EDU e incostituzionale (solo in relazione alla concessione dei permessi premio) dai Giudici delle leggi possa essere giustificato in ragione della paura che lo Stato italiano non sia in grado di garantire il libero esercizio della funzione giurisdizionale da parte dei magistrati di sorveglianza. “Come essere messi sotto scacco dalla mafia” parte 1.

Ad ogni modo, ai fini di una piena valutazione delle conseguenze della sentenza della Corte Costituzionale sulla disciplina dell’ergastolo ostativo, bisognerà attendere le motivazioni della decisione.

Una cosa però si può già dire: il fatto che aree di “non-diritto” come quella della “pena di morte viva” vengano lentamente erose rappresenta una garanzia per tutti, anche per Travaglio.

LE PROTESTE DI HONG KONG E LA LEGGE SULL’ESTRADIZIONE

Per poter comprendere le tensioni sociali in corso ad Hong Kong è necessario fare un inquadramento generale sulla situazione del paese.

1. Hong Kong dal punto di vista geo-politico

Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Cina composta dall’isola principale (chiamata Hong Kong), dalla penisola di Kowloon, dai cd. Nuovi territori e da circa altre 200 isole.

Hong Kong è una delle aree più densamente popolate del mondo (pensate, addirittura 7 milioni di persone in poco più di 1000 Km quadrati, per intenderci, Cuneo sono circa 7000 km quadrati).

Il 95% della popolazione di Hong Kong è di etnia cinese, mentre il restante 5% appartiene ad altri gruppi.

Cosa vuol dire che è una regione amministrativa speciale? Che fa parte della Cina ma ha una forma autonoma, sin dal 1997.

Prima di tale data era stata una colonia britannica e durante il controllo del Regno Unito aveva un’economia aperta al capitalismo, con un sistema scolastico, legislativo e giuridico modellato su quello inglese.

Nel 1984 il primo ministro cinese e quello britannico firmarono a Pechino la Dichiarazione congiunta sino-britannica, con la quale veniva stabilito che dal primo luglio del 1997 tutti i territori di Hong Kong sarebbero tornati alla Cina, ma quest’ultima si impegnava a non modificare il sistema economico e politico in allora vigente per 50 anni (fino al 2047, quindi).

Nel 2047 pertanto Hong Kong cesserà di avere standard politici, economici e istituzionali diversi e più autonomi rispetto al resto della Cina. E Pechino ha già dimostrato l’intenzione di erodere, anche se in modo quasi impercettibile, il grado di autonomia di Hong Kong.

2. I rapporti tra Cina e Hong Kong e il sistema giudiziario

In base al principio “una Cina due sistemi”, Hong Kong possiede un sistema politico diverso dalla Cina continentale: da un lato viene ribadita l’unità nazionale della Cina, dall’altro Honk Kong conserva un proprio ordinamento giuridico, politico, legislativo e un differente sistema economico.

Per quanto più ci interessa, il sistema giudiziario di Honk Kong è indipendente da quello cinese ed è un sistema di commow law, ovvero basato sul principio del diritto consuetudinario, tipico dei paesi anglosassoni.

Honk Kong gode, in generale, di un alto livello di libertà civili in quanto la Legge fondamentale (quella che stabilisce anche che è una regione amministrativa speciale) si basa sui principi e sulla legge inglese.

3. La cd. rivoluzione degli ombrelli

Ma allora perché i cittadini di Hong Kong protestano?

Perché nel 2014, in vista delle successive elezioni politiche, il governo cinese  aveva proposto una riforma della legge elettorale fortemente antidemocratica. La società civile, capeggiata da due professori universitari, organizzò una manifestazione pacifica che tuttavia sfociò in violenti scontri con la polizia, nel corso dei quali vennero alzati dai manifestanti degli ombrelli gialli per difendersi dai lacrimogeni utilizzati dalla polizia. Per questo da allora si parla di “rivoluzione degli ombrelli”, diventati ormai un simbolo della protesta degli abitanti dell’isola contro il governo di Pechino.

Dopo 79 giorni di occupazione ebbero fine le proteste con “prigionieri” da ambo le parti: 955 manifestanti furono arrestati, mentre 1900 partecipanti denunciarono l’operato della polizia.

Nel giugno 2015 il Parlamento di Honk Kong respinse la legge elettorale proposta dalla Cina ma quest’ultima, con il suo pugno di ferro, nel 2016 annullò l’elezione di due parlamentari filo-indipendentisti.

Nel 2016 le proteste si riaccesero e vi furono gravi scontri tra polizia e manifestanti, mentre nel 2017 venne eletto il nuovo governatore, Carrie Lam, la prima donna a ricoprire questo ruolo.

4. L’emendamento alla legge sull’estradizione

Le tensioni tra Honk Kong e la Cina continentale sono scoppiate nuovamente nel febbraio del 2018, quando un giovane di Honk Kong venne accusato di aver ucciso la propria fidanzata durante una vacanza a Taiwan e i giudici taiwanesi cercarono di ottenere l’estradizione del ragazzo per processarlo nel luogo dove era avvenuto il fatto.

Ma poiché Honk Kong non aveva un accordo di estradizione con Taiwan e il Tribunale di Honk Kong non aveva giurisdizione sui crimini commessi a Taiwan, il ragazzo non poteva essere processato da nessuna parte.

Venne allora invocato l’accordo sull’estradizione in vigore tra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese, la cui applicazione era però esplicitamente esclusa dalla normativa in materia nella regione di Hong Kong, risalente al periodo coloniale.

Allora la Cina propose un emendamento, per consentire l’estradizione caso per caso con paesi non coperti da accordi reciproci. La modifica avrebbe così permesso l’estradizione verso Stati come Taiwan e, soprattutto, verso la Cina continentale.

Nell’emendamento proposto vengono inserite 37 categorie di reati per cui è concedibile l’estradizione, tra cui l’omicidio, l’aiuto al suicidio, la violenza sessuale, il riciclaggio, l’interruzione di gravidanza e molti altri, mentre i reati di tipo commerciale-societario (ad esempio quelli relativi al fallimento) sono stati rimossi dall’elenco dopo le forti pressioni esercitate dal settore imprenditoriale.

Il reato commesso deve inoltre essere punito con almeno 7 anni di reclusione, non deve avere carattere politico e non deve essere punito con la pena di morte.

5. La procedura.

Se il dipartimento di giustizia determina che tali condizioni sono soddisfatte, il caso passa al direttore generale di Hong Kong, che può decidere se porre il veto o procedere con la richiesta di estradizione. A questo punto, l’indagato può richiedere un controllo giurisdizionale, con il diritto di presentare ricorso presso il Tribunale supremo della città.

I critici della legge sull’estradizione affermano che tale modifica di tale legge avrebbe concesso alla Cina continentale di processare gli accusati in un paese in cui non è garantito il giusto processo, e non solo.

Secondo i movimenti e i gruppi a difesa dei diritti umani, l’emendamento sarebbe infatti il primo passo per un’entrata a gamba tesa della Cina nel sistema giuridico di Honk Kong.

Il sistema giuridico cinese infatti viene definito “opaco”, senza garanzia di un processo equo, con detenzioni arbitrarie, confessioni forzate, procedimenti politici e l’uso della tortura e altri trattamenti crudeli.

Gli avvocati di Hong Kong hanno sottolineato che la proposta di legge non dispone di sufficienti garanzie per consentire processi equi e la protezione dei diritti fondamentali. Ad esempio, mentre l’emendamento afferma che gli indagati non dovrebbero essere estradati per reati di natura politica, l’onere della prova è posto sull’indagato che deve dimostrare se la richiesta di estradizione è politicamente motivata.

Inoltre, secondo l’Ordine degli avvocati di Honk Kong, i Tribunali non hanno il potere di esaminare se l’indagato riceva una protezione di base dei diritti umani e dispongono di poteri di revisione ristretti, potendo solo verificare se vi siano prove prima facie sufficienti per condannare l’indagato.

“La corte non può proteggere l’imputato e l’imputato non può proteggersi”, dice un avvocato di Honk Kong. “Quindi chi può proteggere l’imputato?”

E ciò anche in quanto il soggetto che prende la decisione finale su qualsiasi richiesta di estradizione sarà influenzato dalle decisioni cinesi, dato che è stato nominato proprio dal governo di Pechino.

5. Oggi

Il 23 ottobre 2019, a seguito delle ripetute e violente proteste degli ultimi mesi, il governo Cinese ha ritirato la proposta di riforma della legge sull’estradizione. Un primo grande risultato per i manifestanti, ma sembra che la fine dei contrasti politici con il governo di Pechino sia ancora molto lontana.

RIGHT TO HOPE: LA SENTENZA CEDU SULL’ERGASTOLO OSTATIVO

Nei giorni scorsi la stampa italiana ha riportato sulle prime pagine dei giornali la notizia del rigetto della richiesta del Governo italiano di rinvio alla Grande Camera della Corte Edu del caso Viola c. Italia, già deciso con sentenza dalla Sezione Prima della Corte il 13 giugno.

Con questa decisione, i Giudici di Strasburgo hanno affermato la incompatibilità dell’istituto dell’ergastolo c.d. “ostativo” con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), il quale vieta la sottoposizione di qualsiasi soggetto a trattamenti inumani e degradanti.

Diverse volte la Corte EDU si è espressa sulla compatibilità della pena perpetua con i principi sanciti dalla CEDU: il caso principale in materia è Kafkaris c. Cipro, la cui sentenza ha chiarito che l’ergastolo non costituisce una pena inumana e degradante a patto che esistano degli strumenti giuridici che consentano di superare la perpetuità della pena.

Nel 2013 la Grande Camera pronunciò un’altra sentenza in materia di ergastolo “realmente” perpetuo: la decisione del caso Vinter c. Regno Unito. Tale pronuncia ha sancito l’esistenza del “Right to Hope”, il diritto alla speranza, in applicazione del quale ogni Stato firmatario della Convenzione deve prevedere un organo che, dopo un determinato periodo di tempo dalla condanna, valuti se esiste ancora la pericolosità sociale del detenuto, oppure se il suo percorso di risocializzazione ha dato dei risultati. In quest’ultimo caso, le modalità di esecuzione della pena devono essere concretamente modificate.

La disciplina dell’ergastolo ostativo, prevista per i reati di cui all’art. 4-bis comma 1 dell’Ordinamento Penitenziario, si pone pertanto in contrasto con quanto affermato dalla Cedu. In assenza di collaborazione con la giustizia, questa norma vieta automaticamente l’accesso dei detenuti ergastolani a tutti i benefici penitenziari (inclusa la liberazione condizionale); in altre parole, nei loro confronti viene ad esistere l’unica ipotesi presente nel nostro ordinamento di pena effettivamente perpetua e da scontare interamente all’interno dell’istituto penitenziario (con buona pace del principio della flessibilità della pena che ancora dovrebbe vigere nel nostro sistema di esecuzione penale).

L’art. 4-bis dell’Ordinamento Penitenziario fu introdotto all’inizio degli anni ’90 come strumento utile al contrasto della criminalità organizzata, in un periodo in cui la storia italiana fu segnata dall’escalation della violenza mafiosa. Le leggi che successivamente lo modificarono, motivate anch’esse da vere o presunte emergenze, introdussero nel novero dei reati ostativi anche delitti che nulla hanno a che vedere con la mafia ed il terrorismo (diversi delitti di natura sessuale e il favoreggiamento dell’immigrazione ed emigrazione clandestina, tra gli altri).

Chiamata a pronunciarsi su questo tema, la Corte Costituzionale si è spinta ad affermare che “appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita” (sentenza 306/1993).

Insomma, il principio secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla risocializzazione del condannato (art. 27 Cost.) si applica, ma non a tutti.

Perché, a meno che non collabori con la giustizia, il detenuto ergastolano ostativo viene condannato a morire in carcere? Perché viene considerato ancora inserito all’interno della organizzazione criminale e quindi pericoloso per la società. Il concetto è pressappoco questo: chi è mafioso (o terrorista) lo sarà per sempre, a meno che non collabori con la giustizia.

Le criticità sono evidenti: il rischio di punire più per ciò che si è, piuttosto che per ciò che si è fatto; la disumanità di una detenzione senza fine e perennemente intramuraria.

Al fine di fare un po’ di chiarezza, bisogna precisare che la collaborazione con la giustizia non sempre costituisce una prova sicura del cambiamento di vita del detenuto, ma spesso rappresenta il modo attraverso cui la persona coglie l’unica occasione che ha di uscire di prigione. Inoltre, la disciplina dell’art. 4-bis non tiene in considerazione tutta una serie di ipotesi che giustificano l’assenza di collaborazione: il timore di mettere in pericolo la propria famiglia; il rifiuto di scambiare la propria libertà con quella di qualcun altro denunciandolo ai magistrati; l’enorme difficoltà di dimostrare di non possedere ulteriori informazioni sui fatti per cui si è stati condannati (come è possibile dimostrare l’inesistenza di qualcosa?).

Non stupisce, allora, il contenuto della pronuncia della Corte EDU, semplicemente perché riafferma un principio cardine del nostro sistema di esecuzione penale: è il magistrato di sorveglianza che deve valutare caso per caso la legittimità della continuazione dell’esecuzione della pena, non la legge attraverso l’applicazione di un automatismo.

Insomma, sono privi di fondamento gli allarmismi diffusi da molti giornali e magistrati in questi giorni. La sentenza dei Giudici di Strasburgo restituisce il potere decisionale ai suoi legittimi titolari, non prevede la scarcerazione di alcun mafioso.

Il “Right to Hope” appartiene a tutti. Che sia un giudice (quello di sorveglianza) a decidere sulla sua applicazione.

Dona ora e sostieni il cambiamento!

Forse non riusciremo a ognuno degli innumerevoli torti che si verificano ogni giorno in ogni angolo del pianeta, però vogliamo provare a lasciare un’impronta. Vogliamo farlo un caso strategico alla volta, un diritto alla volta. E lo facciamo attraverso ciò che ci riesce meglio: il contenzioso strategico, l’advocacy e la divulgazione!

In questo percorso, ogni piccolo contributo può fare la differenza.

Il tuo può diventare uno dei tanti, fondamentali tasselli che ci aiutano nel perseguire la nostra missione.

Dona ora!

img-sostienici