SIAMO STANCHE: LE CARENZE DEL SISTEMA, IL 25 NOVEMBRE E OLTRE

Anche quest’anno, è arrivato il 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Una ricorrenza instauratasi piuttosto di recente, per un fenomeno molto antico: è stata una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite – la numero 54/134 – a introdurla nel 1999. Da allora, le istituzioni nazionali e internazionali così come le associazioni e tutti i soggetti che si muovono nel campo dell’attivismo si muovono massicciamente, al ricorre della data, per organizzare flashmob, convegni, momenti di sensibilizzazione per scongiurare il replicarsi di fenomeni come il femminicidio, la violenza verbale e psicologica, gli abusi che abbiano le dinamiche di genere al centro delle loro motivazioni – insomma, che colpiscano le donne in quanto tali.

I riflettori sul 25 novembre sono aumentati di anno in anno, con campagne sempre più popolari.

Nel frattempo, i numeri sul femminicidio e sulla violenza di genere in Italia hanno continuato a peggiorare.

Il Ministero dell’Interno dichiara, in data 22 novembre, che nel periodo di tempo intercorso fra l’1 gennaio e il 21 novembre 2021, si sono registrate 109 vittime di genere femminile – nel report, “donne” – di cui 93 uccise in ambito familiare-affettivo; di queste, 63 sono state uccise per mano del – sottolineato, maschile – partner o ex partner: sono queste ultime, perlopiù, che trovano nei titoli dei giornali e dei mezzi d’informazione la classificazione di vittima di “femminicidio” – in senso stretto, l’uccisione di una donna in quanto donna. Questo dato aumenta in modo consistente – +8% rispetto a quello dello scorso anno – un aumento costante, che sembra quasi inesorabile.

È preparandoci dunque a un 25 novembre in cui questo dato verrà presentato – come tutti gli anni – nella commozione generale, elencando probabilmente i numeri e i nomi delle vittime di quest’anno, mettendo in campo scarpe e simboli rossi, che viene spontaneo dire una cosa: siamo stanche.

Siamo stanche che ogni anno arrivi il 25 novembre, ogni anno ci siano sempre di più i riflettori puntati su questa ricorrenza, ci siano più eventi, commemorazioni, spettacoli, opinionisti e opinioniste. E che ogni anno, quando arriva il 25 novembre, il dato sul femminicidio – ma anche quelli sulla violenza fisica, verbale, psicologica, sessuale – sia sempre, inesorabilmente, peggiore.

In questi giorni, dopo l’omicidio di Juana Cecilia HazanaLoayza a Reggio Emilia – qui un approfondimento – si è riacceso il dibattito sui gap del diritto penale nel tutelare le vittime di violenza di genere, specialmente di stalking, maltrattamenti e percosse, spesso l’anticamera del femminicidio. Si è parlato di inasprimento delle pene, di assegnare una scorta alle accertate vittime di stalking, di proteggere di più le donne. Ma cosa vuol dire proteggerci davvero?

Siamo stanche che le soluzioni offerte riguardino sempre noi, come ci dobbiamo comportare, dove dobbiamo andare, a chi dobbiamo accompagnarci per essere al sicuro. La proposta di una scorta, che pure, forse, si è resa necessaria, è un fallimento dello Stato e del sistema giudiziario, perché è indice di un sistema che ammette di non essere in grado di fare prevenzione e di fare riabilitazione. È indice di un sistema che, anziché concentrarsi sul monitoraggio e sul percorso riabilitativo dei potenziali autori delle violenze, si è concentrato di nuovo solo sulla vittima. Sul sacrificio della sua libertà – già ampiamente limitata dalla violenza – in nome di una protezione che, evidentemente, non si è in grado di offrire in altra maniera.

Siamo stanche che le soluzioni offerte siano sempre estemporanee e non sembrino mai rispondere a quei problemi, profondamente permeanti la nostra società e il sistema giudiziario, che arrivano prima e conducono alla violenza, all’omicidio. Capita spesso, quando si legge di femminicidio, di trovare molto victimblaming – espressione con cui si indica l’identificazione della vittima di un crimine parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto. Una delle affermazioni che più spesso leggiamo, quando si parla di violenza di genere e femminicidio, è “la vittima non aveva denunciato”. Come se in fondo fossero un po’ responsabili, queste donne ammazzate, per non essersi rivolta all’autorità.

Il rapporto semestrale riferito alla prima parte del 2021, a cura del Dipartimento della Pubblica sicurezza – Direzione centrale della Polizia criminale – Servizio analisi criminale, indica un fatto, che fa sprofondare il cuore. Al 1522 – il numero del servizio pubblico anti-violenza e anti stalking – la maggior parte delle vittime dichiara di non aver denunciato la violenza. Nel 2020 il 14,2% ha sporto denuncia, il 2,7% aveva denunciato, ma ha poi ritirato la denuncia, l’83,1% non ha mai denunciato, percentuale aumentata rispetto agli anni precedenti. Ora, di fronte a questi numeri che sono impressionanti, abbiamo il dovere di chiederci quanta sia effettivamente la violenza sommersa. E di pensare che forse – forse – non è colpa delle donne se non denunciano, e invece tanta ritrosia ha le proprie cause altrove. Ad esempio, nella mancanza di formazione degli operatori e delle operatrici del diritto, del sistema giudiziario e del sistema sanitario nell’affrontare la violenza di genere in ogni sua forma: se ti aspetti di trovarti di fronte qualcuno che non ti crede, come spesso accade, se sai che gli accertamenti saranno troppo lunghi e rischieranno di metterti ancora più in pericolo, se hai anche paura di dover affrontare lo stigma e lo scetticismo altrui, oltre alla violenza che stai già subendo, non denunci. Preghi che non peggiori e basta.

Anche quando decidi di rivolgerti a qualcuno, ecco che rischia di non esserci nessuno. Questo perché, nonostante tutti i 25 novembre dal 1999 ad oggi, i finanziamenti ai Centri Antiviolenza e alle Case Rifugio continuano ad essere regolati da meccanismi poco chiari, nonché scarsi, inadeguati, costantemente oggetto di tagli e rallentamenti. Il report “Cronache di un’occasione mancata” erogato nel 2021 da ActionAid, fra le varie rivela che il Dipartimento Pari Opportunità, nell’ultimo anno, ha impiegato mesi per erogare le risorse per i Centri alle Regioni. A loro volta, a ottobre 2021 le Regioni risultano aver erogato solo il 2% dei fondi ai Centri e agli enti gestori dei servizi di prevenzione e protezione.

Dunque siamo stanche dei convegni e delle scarpette rosse. Vogliamo un sistema che riconosca il proprio dovere di formarsi per capire la violenza di genere, per affrontarla insieme a noi quando ne siamo vittima, che ci prenda sul serio prima che qualcuno ci ammazzi. Che non ci colpevolizzi persino dopo la nostra morte. Che non parli d’amore, o di sesso, o di passione in relazione all’omicidio e alla violenza – perché amore sta a femminicidio come sesso sta allo stupro, cioè zero; che invece, prenda questi fenomeni per ciò che sono: la conseguenza di un sistema patriarcale in cui le donne e le ragazze devono appartenere agli uomini e ai ragazzi. Un sistema di cui fanno parte tuttз, da coloro che le ammazzano, che le picchiano, che le violentano, come anche quello stesso sistema giudiziario che non le aiuta, su tutti i livelli.

Siamo stanche, siamo arrabbiate, vogliamo di più, qualcosa di meglio oltre i convegni, le vostre lacrime e le vostre parole, il resto dell’anno, quando il 25 novembre finisce e ricomincia la paura.

SE SEI VITTIMA DI VIOLENZA E/O STALKING, CHIAMA IL 1522 O RIVOLGITI A UN CENTRO ANTIVIOLENZA NELLA TUA CITTÀ, GLI OPERATORI E LE OPERATRICI SAPRANNO TENERTI AL SICURO

A cura di Greta Temporin

FACIAL RECOGNITION TECHNOLOGIES IN THE UK: ONE STEP FORWARD TO PREDICTIVE POLICING

‘Predictive Policing’ might sound like movie fantasy at first sight however, it shall be considered one of the latest trends within the context of the so-called ‘Surveillance Society’.

With a focus on facial recognition technologies, if you believe they are merely utilised for commercial applications that could give you ID access to your electronic device or to pass the border on automatic passport checks when you are traveling abroad, again, you are probably underestimating this issue.

What is the status of art in the United Kingdom?

First of all, let’s provide definitions of the tech tools involved.

Facial Recognition Technology (FRT): it is the process by which an individual can be identified or recognised from a digital facial image. Cameras are used to capture these images and an FRT software produces a biometric template in which the individual is aware of the process undertaken (e.g. passport control).

Live Facial Recognition (LFR) or Live Automated Facial Recognition (LAFR): it is different and is deployed in a similar way to traditional CCTV. It is directed towards everyone in a particular area rather than applied to specific individuals. Data is collected in real-time and potentially on a mass scale. There is usually a lack of awareness, choice, or control for the individual in this process (e.g. public surveillance for security purposes).

Cultural and political implications of those technologies are out of scope in this article nevertheless, I would like to raise some awareness on fundamental rights implications and civil liberties currently threatened by law enforcement data-driven practices.

Comparing different jurisdictions on law enforcement and security policies is far from easy, cultural, historical and social factors are unique variables, therefore I would like to provide a snapshot of the current state of the art in the United Kingdom. Specifically, due to the abuse of live facial recognition for public security and surveillance purposes, we can evidence serious concerns on the protection of fundamental rights, meanwhile progressively moving towards a ‘Predictive Policing’ model of law enforcement.

Case study 1: A 14 years old black schoolchild victim of live facial recognition misidentification

In May 2019, a 14 years old black school child in his school uniform was walking down the road in London to attend his classes. He was wrongly identified by a facial recognition system installed for public safety, and immediately surrounded by four undercover police officers. He was questioned, arms held, asked for his phone, and even fingerprinted. After just ten minutes, the police had to release him due to a mismatch report with another person. The child was clearly shocked by the experience, nevertheless the Metropolitan Police – even admitted FRT and LAFR raise significant issues over gender and racial bias – have continued to use it on daily operations.

Case study 2: Innocent people with mental health problems

This case takes place again in London on Remembrance Sunday in November 2017. The Metropolitan Police took advantage of a project for live facial recognition to match dataset records of ‘fixated individuals’ – differently speaking people who frequently contact public figures and are highly likely to suffer from mental illness – despite not being suspected or wanted for any criminal activity. As a result, these individuals have been ejected from the ceremony without reasonable suspicion of any unlawful behaviour, but merely based on data-driven discrimination.

Full insights on both case studies are available on the Big Brother Watch’s report.

What is the current legal framework offered by the English Legal System?

If you try to find a clear legal basis that could justify these practices under the rule of law, well you will be quite disappointed.

No doubt that’s a complex scenario. A series of different issues arise from the abuse of facial recognition technologies such as mass screening of individuals in public spaces, violation of the right to privacy, and most definitely discrimination bias between different people.

And now, the first question from any lawyer would be: what is the legislation at current disposal to justify such measures? The answer is clear: there is no straightforward legal basis for the police’s use of live facial recognition surveillance in the UK.

Note one minor but fundamental detail: one thing is a surveillance camera – as defined in the Protection of Freedoms Act 2012 – and another is Live Automated Facial Recognition (LAFR), for which there is no reference whatsoever. Also, no mention of such technology on the Data Protection Act 2018, and despite its extensive application, it does not provide a basis in law for its use.

Let’s move step by step, running through some recent key developments.

Following a written question of Layla Moran MP to the Home Office about supporting legislation on the use of facial recognition and biometric tracking, the Minister of Policing Nick Hurd MP, responded in September 2017, and I quote: “There is no legislation regulating the use of CCTV cameras with facial recognition”. Subsequently, the police have claimed that its use was guaranteed as an application of the Protection of Freedoms Act 2012 and Data Protection Act 2018, however the Information Commissioner’s Office (ICO) – the UK’s independent authority – has taken distance from such position providing a more detailed one with the Opinion 31 October 2019, Reference: 2019/01, which stresses out the above legislation cannot be considered as a blanket for any facial recognition technology application. In addition, there is an urgent need for better governance policies on the use of individuals’ personal data and data risk assessments on the technologies used, which shall be coordinated by criteria of necessity and proportionality.

Also, the Equality and Human Rights Commission has published a report in March 2020 on Civil and Political Rights in Great Britain to flag how the legal framework authorising and regulating the use of automated facial recognition is still insufficient. It seems to be exclusively based on common law powers which have no express statutory basis as just mentioned above. What is more, there is no national-level coordination, oversight, or regulatory governance to ensure these applications are compliant with data protection laws, including the General Data Protection Regulation (GDPR) in its UK GDPR version, which is still a fully binding source of law in the UK despite Brexit.

A special reference to data protection implications

Considering the human face as a form of biometric data that provides unique, in some terms permanent identification of individuals with sufficient degree of accuracy, data protection, and biometric data represents another relevant point in this discussion. More recently, the ICO has released another Opinion on the use of live facial recognition technology in public spaces in June 2021, that narrows down some key data protection issues that require urgent safeguard such as i) The automatic collection of biometric data at speed and scale without clear justification; ii) The lack of control for individuals and communities; iii) A lack of transparency; iv) The technical effectiveness and statistical accuracy of LAFR systems; v) The potential for bias and discrimination; vi) The governance of watch lists and LFR escalation processes; and vii) The processing of children’s and vulnerable adults’ data.

A milestone case law

R (Bridges) v The Chief Constable of South Wales Police is one of the leading cases with regards to the use of automated facial recognition in the UK. Mr. Bridges won his appeal in August 2020 with the Court of Appeal concluding that there is no adequate legal framework for the use of facial recognition technology.

If at the beginning of 2020 the Metropolitan Police in London was ready to launch new test trials of facial recognition technology, probably reassured by having won their case before the High Court a few months before, the Court of Appeal judgment simply flipped the coin.

The legal issue is focused on whether the current legal regime in the UK is adequate to ensure the appropriate and non-arbitrary use of LAFR in a free and civilised society. The common core was with the LAFR and its implications for privacy and data protection rights. A facial template can be considered biometrical data as an ‘intrinsically private character’ that has the capacity to identify an individual uniquely and precisely.

The Court of Appeal made a unanimous judgment, rising three main reasons where the South Wales Police’s use of LAFR technology was against the law:

  • Breach of Article 8 DPA 2018 (the right to privacy), as it is not ‘in accordance with the law’. As reported in the judgment, there are ‘fundamental deficiencies’ with the legal framework that allow too vast discretion to police personnel on how and where to use such technology
  • Breach of the DPA 2018 because it failed the data protection impact assessment (DPIA) under the combination of s.64 DPA and Article 8 implications on the use of LAFR. In a nutshell: DPIA failed to assess the risks related to the rights and freedoms of individuals, including an adequate strategy to address issues in the legal framework
  • Breach of the public sector equality duty (PSED) for lack of accuracy in the technology to identify bias by design, as the whole purpose of such regulation is ‘to ensure that a public authority does not inadvertently overlook information which it should take into account’

On the same page, note that nothing in the Court of Appeal’s judgment indicates that the use of LAFR should be considered unlawful per se. Despite its multiple misuses and potential discrimination of individuals based on sex, age, gender, or ethnicity, unlike fingerprint or DNA sample, the collection process of face recognition, in general, is not physically intrusive and so sufficiently justified for the ‘prevention and detection of crime’. In other words, until an appropriate legal framework is in place, supported by data protection impact assessment about the use of LAFR on individuals, any use of those systems is unlawful and their use must be stopped immediately.

Are we assisting to a legal ‘paradigm shift’ towards a ‘Predictive Policing’ law enforcement model for the prevention and detection of crime?

All above considered, it is crucial to provide a logical and regulatory explanation on the ratio legis behind the concept of a pre-emptive collection of data with the aim to prevent and detect crime before is committed. As evidenced by Koops, a fundamental change is now undergoing. Criminal law and law enforcement as a direct consequence is shifting from the last resort to a primary tool of social control that could be called ‘criminal risk governance’.

Let’s provide a simple example in criminal law: in the traditional paradigm, once a dead body was found, the police started looking for traces, collecting witnesses and other sources of evidence. Now, before a murder is committed, society is compelled to structure its systems in a way that, should ever a murder be committed, evidence is more likely and immediately available.

We are facing a paradigm shift. Where the current/past paradigm with regards to the use of tech tools for law enforcement was interpreted as an instrument of social control in the quality of ultima ratio, the archetype is slowly being replaced. The balance between repression v. prevention both on individuals and large groups of people is located at a continuum. In the newly evolving paradigm, criminal law is a first resort to control perceived social risks (e.g., I-led policing methods). This shift has not been completed yet, nor it is desirable, nevertheless, the reactive old algorithm is going to be replaced by the preventive one with relevant implications for regulation. As we can see, this evolution seems to be changing step by step the entire approach of criminal law enforcement into the ‘Predictive Policing’ model.

Going with the flow, particularly with the actual use of LRT or LAFR in the UK for law enforcement purposes, is justified by protecting the society common good and ensuring the highest level of security for the community, a fuzzy combination of statutory law, common law principles, case law, and governance policies are tailoring such a framework, but still threatening fundamental rights at their core.

We will stay on the lookout for the next developments.

Edited by Marco Mendola

COP26: PIÙ DOLORI CHE GIOIE

Venerdì 12 novembre ha avuto ufficialmente fine la Cop 26, che si è tenuta a Glasgow.

La Cop – Conference Of Parties – è l’organo direttivo della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), e si tiene ogni anno, con l’obiettivo di implementare il disposto di questa Convenzione.

Nell’ambito delle Cop sono stati compiuti passi rilevanti – almeno formalmente- per contrastare gli effetti negativi derivanti dal cambiamento climatico; si pensi, in primo luogo, al Protocollo di Kyoto, elaborato nel 1997. Inoltre, è noto l’accordo cui le parti sono giunte alla Cop21 di Parigi del 2015, conosciuto appunto come “Accordo di Parigi”.

L’importanza di questo documento risiede nel fatto che la Comunità Internazionale si è impegnata a contenere l’aumento della temperatura globale ben al di sotto dei 2 gradi centigradi, e possibilmente entro 1,5 gradi. Inoltre, sono stati adottati gli “NDC – Nationally Determined Contributes”, cioè un piano da aggiornare e ripresentare ogni cinque anni che delinei la strategia che ogni Paese intende adottare per mitigare (ridurre le emissioni) e adattarsi (ridurre gli impatti) ai cambiamenti climatici.

La Cop26 aveva dunque molte aspettative da soddisfare: avendo saltato un anno per via della pandemia, era il momento in cui tirare le fila dopo Parigi 2015.

Ciononostante, l’accordo siglato a Glasgow non soddisfa appieno le associazioni ambientaliste (Greenpeace lo ha definito un testo debole), e non è riuscito, nonostante sia stato ammantato da una patina di greenwashing, a porsi quegli obbiettivi davvero ambiziosi che sono di anno in anno sempre più urgenti e necessari per scongiurare la catastrofe climatica.

In particolare, il fallimento più grande si è verificato l’ultimo giorno di negoziazioni: l’India ha proposto l’emendamento di sostituire la progressiva eliminazione (phase-out) del carbone con la sua riduzione (phase-down). Inoltre, nonostante sia stato mantenuto nel testo l’impegno della comunità internazionale a contenere l’aumento della temperatura globale entro 1,5 gradi centigradi, gli NDCs presentati dagli Stati non paiono sufficienti al raggiungimento di detto scopo. Altro obbiettivo che figurava già nell’Accordo di Parigi, ed è stato fortunatamente “salvato” nel testo siglato a Glasgow, è quello di ridurre le emissioni di diossido di carbonio del 45% entro il 2030. Tuttavia, anche in questo ambito gli attuali NDC non sono sufficienti; anzi, come sottolinea ClientEarth, anche se gli attuali NDC venissero completamente implementati, il livello di emissioni entro il 2030 sarà addirittura aumentato (rispetto a quello del 2010).

Altra nota dolente riguarda i fondi stanziati per i Paesi in via di sviluppo per l’adattamento e la mitigazione delle conseguenze negative del cambiamento climatico. Infatti, in precedenza erano stati assicurati 100 miliardi di dollari all’anno; tuttavia, l’accordo non riporta questa promessa, lasciando i Paesi in via di sviluppo, che hanno contribuito in maniera esigua all’attuale situazione climatica con il loro scarsissimo numero di emissioni, e sono quelli più a rischio, in una situazione precaria e pericolosa. Positivo invece deve ritenersi il riferimento ai combustibili fossili, che sono stati per la prima volta (per assurdo che possa sembrare) nella storia delle Cop menzionate in un accordo ufficiale.

Dal punto di vista politico, è stata accolta con favore la presentazione di un documento congiunto Cina-Usa, che, pur non essendo adeguato alla sfida che si pone, auspica una collaborazione futura della quale si sente il bisogno.

Dal punto di vista della strategic litigation, ClientEarth sottolinea che l’avvenuto riconoscimento del ruolo fondamentale delle popolazioni indigene e dei giovani nell’azione climatica può costituire un’ottima base per instaurare procedimenti legali contro i Governi che non raggiungano gli obbiettivi che si sono preposti nell’ambito della Cop26 (ed in futuro).

In conclusione, dato che le decisioni nell’ambito della Cop26 devono essere prese all’unanimità, non si può non notare che vi era elevata probabilità che il testo finale non fosse molto ambizioso ma anzi sostanzialmente moderato, dovendo mettere d’accordo tutti i 197 Paesi partecipanti.

La pressione dei giovani, delle organizzazioni ambientaliste, delle popolazioni indigene e dei Paesi in via di sviluppo è stata fondamentale per il raggiungimento delle vittorie ottenute -seppur pallide. Tuttavia, molto ancora rimane da fare per raggiungere l’auspicato obbiettivo del contenimento dell’aumento di temperatura entro 1,5 gradi centigradi, e la società civile, con gli strumenti della pressione politica, dell’attivismo, e anche della strategic litigation ha un ruolo fondamentale in questa partita.

A cura di Virginia Cuffaro

IL DECORO DEL MASCHILISMO

È di qualche settimana fa l’ordinanza del sindaco di Terni che vieta un “abbigliamento indecoroso o indecente in relazione al luogo ovvero di mostrare nudità, ingenerando la convinzione di esercitare la prostituzione”.

L’ordinanza è stata interpretata dai più come un divieto di indossare minigonne e scollature importanti, quindi come volta a vietare (alle donne) di vestirsi come vogliono, nonché come obbligo di vestirsi in modo da non attirare l’attenzione altrui. Il testo dell’ordinanza si è, quindi, ben prestato ad essere identificato come capro espiatorio di una politica locale (ma spesso anche nazionale) ancora dallo stampo maschilista e patriarcale, anche alla luce di quanto riferito dallo stesso sindaco di Terni a seguito della pubblicazione dell’ordinanza e delle conseguenti critiche che questa ha attirato.

Il sindaco ha sostenuto che il testo dell’ordinanza non fosse volto a vietare alcun tipo di abbigliamento ma, meramente, a fornire alle forze dell’ordine “uno strumento per intervenire e impedire fenomeni odiosi come lo sfruttamento della prostituzione”, tuttavia, ci si chiede se la lotta alla prevenzione e alla repressione dello sfruttamento della prostituzione debba partire (o anche solo passare) dalla censura di determinati capi di abbigliamento, quelli, appunto, indecorosi o indecenti (non è questo il luogo e il tempo per sindacare, invece, la stessa criminalizzazione dello sfruttamento della prostituzione o della prostituzione in sé, legale in altri Paesi). In questo senso si ritiene quindi di evidenziare come, da un lato, la definizione di cosa sia indecoroso o indecente sia rimessa al tempo e allo spazio (abbigliamenti indecorosi anni fa, oggi, risultano accettabili e lo stesso si può dire per capi un tempo indecenti) e, dall’altro, come il portare un vestito corto nulla (o poco) dica sulla persona che indossa quel vestito.

Allo stesso tempo, la lettura dell’ordinanza non può che suggerire come vengano vietati tutti quegli abbigliamenti che lasciano scoperto il corpo. Abbigliamenti che, come noto, sono identificabili (anche) nelle gonne particolarmente corte, in magliette, top o body con scollature importanti, in quanto abiti che lasciano intravedere ampie porzioni di corpo (che rimane, quindi, nudo). Sostanzialmente, quindi, viene inibito alle donne di indossare tutti quegli abiti che potrebbero lasciarle scoperte, impedendo quindi la possibilità per le stesse di esprimere la propria personalità attraverso gli abiti. Il comune sembra volere i suoi abitanti vestiti in modo austero, composto e, aggiungo io, forse, li vuole anche un po’ noiosi, grigi.

Ancora una volta l’attenzione al corpo delle donne appare fuori luogo e impregnata di una mentalità maschilista, patriarcale e, francamente, anche un po’ retrograda. L’intero testo dell’ordinanza non è condivisibile laddove traccia una connessione univoca fra un abbigliamento provocante e l’esercizio della prostituzione, quasi a suggerire che se s’indossa una minigonna, una scollatura o qualcosa di simile, sia lecito dedurre che la persona stia esercitando il mestiere più antico del mondo, quasi a evidenziare che “una donna per bene” non indossa minigonne o scollature. E invece.

Invece la storia della minigonna è lunga, complessa e rappresenta, da sempre, un simbolo di emancipazione femminile (e non solo). La minigonna appare, la prima volta, nei primi anni sessanta a seguito della richiesta delle donne londinesi di poter indossare una gonna più corta di quelle tradizionali e che potesse lasciare loro maggiori possibilità di movimento. Successivamente, già negli anni ’70 si passò dall’idea della minigonna come simbolo di emancipazione della donna (finalmente libera nei movimenti delle gambe) a simbolo della donna-oggetto per poi tornare in auge dagli anni ’80 in avanti. E oggi?

A partire dal 06 giugno 2015 è un simbolo di emancipazione e solidarietà per le donne oppresse. È stato, infatti, il governo tunisino di Ben Othman a stabilire la giornata mondiale della minigonna il 06 giugno, invitando tutte le concittadine tunisine a riunirsi, in minigonna, come segno di solidarietà per le donne oppresse. All’origine della protesta, un episodio di discriminazione accaduto a una ragazza algerina a cui era stato impedito di sostenere gli esami scolastici perché la sua gonna era ritenuta troppo corta.  La giornata mondiale della minigonna è, forse, poco conosciuta ma urla un messaggio fondamentale: ognuno deve essere libero di vestirsi come meglio crede, senza dover vivere con l’ansia di essere, in alcun modo, giudicato per i centimetri di pelle che decide di mostrare.

L’Italia, dal canto suo, sembra avere non pochi problemi con le minigonne (e, mi permetto, anche con quello che queste rappresentano). È solo del 2020 la protesta di alcune studentesse di un liceo di Roma cui era stato suggerito dalla preside di non indossare minigonne in quanto ai professori sarebbe potuto “cadere l’occhio” e del 2021 l’ordinanza del comune di Terni che avvicina chi indossa una minigonna a una prostituta.

Ancora, è di poco tempo fa (anche) il video di Montemagno in cui questo si lascia andare a semplificazioni e banalizzazioni del ruolo svolto dalle influencer, nonché a consigli (mai da alcuna richiesti) su quali contenuti sarebbe meglio mostrare sul proprio profilo Instagram. Montemagno suggerisce di evitare di condividere solo foto del proprio corpo, ci incentiva (grazie!) a non lasciare come unico biglietto da visita dei nostri profili la nostra apparenza. Eppure. Eppure, ancora una volta ci troviamo di fronte a un uomo che vuole imporre la sua visione della donna (e del corpo della donna) all’intero universo femminile.

L’Italia sembra non aver (ancora) superato l’idea per cui una donna che mostri le gambe o una scollatura sia, in qualche modo, da censurare, coprire, nascondere, così come un abbigliamento succinto possa incentivare pulsioni sessuali da parte di chi guarda il corpo della donna.

Ricordo, tuttavia, che la malizia sta negli occhi di chi guarda e non, invece, di chi indossa un determinato capo. E allora, naturalmente, il problema (se di problema si può parlare, s’intende) non è nelle donne che indossano capi che le lasciano più o meno nude ma in chi, guardando un paio di gambe, o una scollatura, oggettifica e sessualizza la persona che indossa quei capi, confinandola a un giudizio di inadeguatezza e indecenza (per riprendere i termini di cui all’ordinanza del comune di Terni). Perché lasciare scoperte le gambe (o le spalle o la scollatura) dovrebbe, necessariamente, suggerire l’indecenza del comportamento di chi le indossa, perché un abito corto è indecente? Non è (forse) più indecente il pensiero di chi, trovandosi di fronte a una minigonna, ritiene di poter trarre un giudizio sulla convenienza o meno di questa? Non è indecoroso chi, di fronte a un vestito succinto, non riesce a “non farsi cadere l’occhio”?

Mi sento di dire, a Montemagno, al sindaco di Terni e alla preside di Roma (ma a tutti quelli che si fermano davanti a una foto in costume o a una minigonna per strada) che non siamo solo le foto che postiamo o i vestiti che indossiamo. Vi è altro (e oltre) all’immagine estetica (e ai centimetri di corpo che lasciamo intravedere), noi siamo responsabili di quello che siamo, non di quello che altri interpretano alla mera luce di quello che vedono. Ogni uomo è un’isola (diceva qualcuno) e ogni isola non è solo la prima spiaggia che incontriamo al nostro arrivo. È scoperta e mistero dell’entroterra. Banale (e superficiale) sarebbe pretendere di conoscere un’isola (o una persona, o una donna) fermandosi alla prima spiaggia (o alla prima foto o alla prima minigonna).

Retrogrado e maschilista è credere che all’aumentare dei centimetri di pelle lasciati intravedere da un vestito diminuisca la decenza di una persona. Indecorosa è una società dove prima di preoccuparci di educare a non giudicare un libro dalla copertina si preoccupa di invitare i libri a premunirsi di un certo tipo di copertina, poco importa, a quanto pare, se la sostanza è poca, l’importante è salvare le apparenze.

A cura di Carlotta Capizzi

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