Congresso mondiale delle famiglie: avanti con il passato!

“Ama follemente. E se ti dicono che è peccato, ama il tuo peccato e sarai innocente”.
Shakespeare. Romeo e Giulietta. Verona. 1596.

“Assassine e cannibali le donne che decidono di abortire”; “Ci siamo separati da loro (ndr: gli omosessuali), come dalla peste, perché è contagiosa” (Dimitri Smirnov, arciprete della Chiesa ortodossa russa);
“Alla fine quando questa legge è stata approvata [in Nigeria], il Governo ha detto che […] se si fa attivismo omosessuale, o si progetta un matrimonio gay, si va in prigione. Il Governo prevede dai 3 ai 12 anni di reclusione” (Theresa Okafor, Presidente della Foundation for African Cultural Heritage);
“Preferirei dare mio figlio ad un orfanotrofio piuttosto che ad una coppia dello stesso sesso” (Zeljka Markic, Presidente croata della Associazione Per conto della famiglia);
“L’atto sessuale tra due persone dello stesso sesso è una forma di violenza fisica, usata anche come pratica di iniziazione al satanismo”, “tollerare l’omosessualità equivale ad accettare la pedofilia” (Silvana De Mari, proctologa e scrittrice ultracattolica).
Relatori del World Congress of Families. Verona. 2019.

423 anni dopo la tragedia di Romeo e Giulietta, a Verona, si celebrerà, tra il 29 e il 31 Marzo 2019, la tredicesima edizione del Congresso Mondiale delle famiglie, un evento nato dalla saldatura di gruppi della destra religiosa statunitense e del tradizionalismo ortodosso russo e che, con il tempo, è diventato un vero e proprio collante per le estreme destre di tutto il mondo.

Amnesty International lo ha definito un congresso “ostile ai diritti umani”. Ciò che preoccupa, si legge nel comunicato rilasciato, è in particolare:
– l’affermazione che la “famiglia naturale” composta da un genitore uomo e da un genitore donna sia la “sola unità stabile e fondamentale della società”; quindi, il rifiuto del riconoscimento di diritti civili a nuclei familiari al di fuori della coppia eterosessuale unita in matrimonio;
– l’equiparazione, da parte di alcuni partecipanti stranieri, dell’interruzione volontaria di gravidanza all’omicidio;
– la patologizzazione dell’omosessualità e della transessualità e di tutte le forme di orientamento sessuale e identità di genere non ascrivibili a maschio/femmina eterosessuale;
– il rifiuto del pieno riconoscimento dei diritti civili alle persone che manifestano queste identità.

423 anni dopo la tragedia di Romeo e Giulietta, a Verona, andrà in scena il Medioevo. Come dal 1997, anno della prima edizione, a Praga, ad oggi.

Con una differenza: per la prima volta, a questo evento si opporrà una manifestazione organizzata da associazioni femministe, dal mondo Lgbt e da tutte quelle realtà che considerano prioritaria la tutela dei diritti di ogni essere umano. Sono realtà che intendono contrapporsi a una narrazione che, in nome della c.d. famiglia tradizionale e di una (inesistente) legge naturale, autorizza a violare principi inviolabili – riconosciuti come tali dalla nostra Costituzione e dalle Carte dei diritti internazionali – alla base del nostro Stato: primi tra tutti, la libertà di autodeterminazione in tema di sessualità, maternità e famiglia, risultato di conquiste che si pensavano ormai definitive.

Il sale della democrazia è certamente la garanzia, per tutti, di poter esprimere liberamente il proprio pensiero; tuttavia, ciò opera nei limiti in cui ci si muova all’interno di una cornice di principi e regole di convivenza che danno sostanza a ciò che ogni società è e che non possono essere messi in discussione: pena la negazione del proprio passato, presente e futuro

Riforma europea del copyright

Chiunque sia transitato sui social nei giorni scorsi avrà notato una notevole quantità di commenti sull’approvazione della Direttiva sul copyright da parte del Parlamento Europeo riunito in sessione plenaria. Giusto per fare un esempio, Wikipedia ha oscurato la propria pagina in Italia e in altri Stati come forma di protesta nei confronti di una normativa che riteneva profondamente ingiusta. Oltre agli utenti di internet, va segnalato che anche Google e Amazon hanno manifestato aperta ostilità nei confronti della Direttiva, in particolar modo per le difficoltà tecniche di applicazione..

La questione è piuttosto articolata per via della pluralità degli attori e degli interessi contrastanti. Fino ad oggi Internet è stato relativamente libero, con possibilità per gli utenti di avere accesso ad una quantità pressoché sterminata di informazioni di qualsiasi genere. Per la prima volta, l’Unione Europea sembra voler intervenire energicamente sul punto in modo da fissare alcuni paletti nell’utilizzo dei contenuti in rete.

Una piccola precisazione, prima di addentrarci nella lettura della norma: la definizione ‘Direttiva Copyright’, come molto spesso accade, è impropria. Il Copyright è infatti un istituto giuridico di origine statunitense e regolamenta il diritto di copia sull’opera all’interno di quell’ordinamento. In ambito europeo sarebbe più corretto parlare di diritto d’autore, ma spesso i due termini sono ritenuti intercambiabili.

Cosa c’entra StraLi?
L’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo riconosce la libertà di espressione. Questa può essere limitata, fra gli altri casi, attraverso le misure necessarie per la protezione dei diritti altrui. La nostra convinzione è che i diritti e le libertà fondamentali debbano ricevere la più ampia tutela possibile: il sacrificio di una delle pietre angolari di qualsiasi democrazia non dovrebbe mai avvenire sull’altare di interessi economici, quali sono quelli protetti dal diritto d’autore. Di seguito, analizzeremo gli aspetti più controversi di questa normativa per valutare se effettivamente vi sia il rischio di un’indebita compressione di un diritto o di una libertà fondamentale.

Precisiamo
Andiamo però con ordine: innanzitutto, si tratta di una Direttiva e non di un Regolamento. Questo significa che gli Stati Membri dovranno adesso provvedere a regolare la materia con una legge nazionale (in questo caso entro due anni), ovviamente rispettando quanto stabilito dalla Direttiva medesima e muovendosi nella cornice da questa delineata. Qua sorge il primo problema, perché ogni Stato è libero di articolare la propria legge come meglio crede, senza doversi in alcun modo coordinare con gli altri. Appare chiaro come, in materia di Internet, la creazione di ventisette diverse leggi potrà portare a parecchi problemi applicativi.

La maggior parte delle voci in rete si dichiarano contrarie ed esprimono forti preoccupazioni soprattutto in riferimento a due articoli: il 15, ribattezzato dai detrattori ‘link tax’ e il 17, cosiddetto ‘upload filter’ (in italiano potremmo renderlo come filtro sul caricamento), che nella precedente formulazione erano l’11 e il 13. La versione attuale degli articoli è il frutto di un lavoro di revisione del testo originario, che era stato bocciato in un primo tempo dal Parlamento, ed è pertanto stato modificato con l’aggiunta di diverse esenzioni. L’art. 2, comma sesto, infatti, esclude dall’applicazione della direttiva le enciclopedie online senza scopo di lucro (il riferimento a Wikipedia è abbastanza palese), i repertori didattici o scientifici senza scopo di lucro, le piattaforme open source, i mercati online e altri servizi che vengono elencati.

Linkare selvaggiamente
Introduce l’obbligo, da parte degli Stati, di riconoscere agli editori di giornali i diritti per l’utilizzo online delle loro pubblicazioni di carattere giornalistico. La nuova versione della Direttiva esenta da questa protezione i link, così come i titoli o brevi estratti dagli articoli. Da notare altresì che la protezione è accordata per due anni dalla pubblicazione: trascorso quel periodo, i contenuti saranno nuovamente condivisibili.

Il comma di chiusura prevede che gli Stati debbano, nella legislazione nazionale, avere cura che i giornalisti ricevano una quota adeguata dei proventi percepiti dagli editori. Una considerazione sul punto: l’impianto dell’intera riforma mira a tutelare il diritto d’autore, ma dall’analisi degli articoli sembra piuttosto chiaro che la protezione (leggi: i soldi) verrà accordata agli editori più che agli autori, i quali infatti possono fare affidamento solo sul presente comma e sulla bontà d’animo dei legislatori nazionali. Quanto quest’ultima previsione resterà lettera morta o sarà invece applicata correttamente, lo scopriremo solo col tempo.

Le esenzioni aggiunte nella versione finale del testo mitigano le critiche che erano sorte in un primo momento, quando sembrava che qualsiasi riferimento ad un articolo dovesse comportare un esborso economico. Ora non è più così, soprattutto la norma è stata scritta per obbligare al pagamento le piattaforme; siamo però sicuri che questo costo, in ultima istanza, non verrà fatto ricadere sugli utenti?

Prendetene e mematene
Traducendo in termini pratici le non semplici parole della Direttiva, quest’articolo richiede che le piattaforme vigilino affinché gli utenti non carichino opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti. Si richiede altresì che le piattaforme ottengano un’autorizzazione per poter sfruttare i diritti d’autore.

Addirittura, le piattaforme che non hanno ottenuto tale autorizzazione sono responsabili per il caricamento di opere protette dagli utenti a meno che dimostrino di aver compiuto i massimi sforzi per: 1) ottenere l’autorizzazione; 2) evitare che accadesse la violazione e 3) essere tempestivamente intervenute.

La Direttiva esonera dal proprio ambito di applicazione le piattaforme che sono attive da meno di tre anni e hanno un fatturato annuo inferiore a 10 milioni di Euro, sempre che dimostrino di aver comunque fatto il possibile per ottenere l’autorizzazione e di aver agito tempestivamente in seguito alla segnalazione.

Sono fatti salvi i contenuti con finalità da un lato di citazione, critica e rassegna, dall’altro di caricatura, parodia o pastiche. Detto diversamente, si potrà continuare a produrre e far circolare online i meme.

Tirando le somme
In conclusione, occorre rivedere in parte i toni allarmisti che avevano condotto alla grande mobilitazione sul web: non è stato ancora ucciso Internet, sebbene questa riforma abbia palesemente lo scopo di tutelare principalmente gli editori e non tanto gli autori. Nel farlo, il legislatore europeo ha scelto una via discutibile, soprattutto con riferimento all’articolo 17. Come è stato detto, le piattaforme dovranno dotarsi di filtri onde evitare di violare il diritto d’autore e questo può portare a problemi di triplice natura. Il primo, e più intuitivo, riguarda il fatto che non tutte le piattaforme siano in grado di approntare tali filtri per via degli alti costi e dell’oggettiva difficoltà realizzativa. Se i giganti del web, come Google, hanno già segnalato le problematiche, possiamo solo immaginare quanto sia ancor più complicato per chi non dispone delle stesse risorse economiche (specie con riferimento all’ottenimento della licenza). Questo conduce al secondo problema, e cioè al rischio che i pesci piccoli siano in qualche misura messi ai margini del mercato perché non in grado di far fronte alla nuova normativa. Estremizzando l’ipotesi, si potrebbero gettare le basi per un oligopolio legalizzato, e ciò sarebbe quantomeno in contrasto con il duro lavoro svolto dalla Commissaria Vestager proprio contro i colossi di Internet, primo su tutti Google medesimo, multato la settimana scorsa per un miliardo e mezzo di euro. La soglia dimensionale individuata dall’art. 17 è piuttosto bassa e lascia fuori gran parte delle piattaforme: pensate che per non rientrare in quei parametri basta essere operativi da tre anni e un giorno e dover pertanto competere sullo stesso mercato delle multinazionali-balena.

Il terzo profilo critico riguarda più da vicino i filtri e gli algoritmi sui quali saranno basati: inevitabile pensare che in questa fase si annidino le maggiori preoccupazioni per la libertà di espressione in rete, che diventerebbe soggetta ad un controllo preventivo. Per giunta, un controllo operato da codici e non da esseri umani, se non altro in una prima fase, col rischio di chissà quante sbavature, che non sempre saranno corrette attraverso il reclamo, o perlomeno non tempestivamente, provocando di per sé una lesione della libertà espressiva.

StraLi ritiene che, nonostante i passi avanti rispetto alle precedenti versioni, la riforma introduca un sistema di controllo della libertà d’espressione sulla cui concreta applicazione rimangono cupe ombre. Dovendo necessariamente attendere il recepimento della Direttiva da parte degli Stati membri, è prematuro gridare allarmi, ma in futuro l’attenzione di cittadini e operatori del diritto dovrà essere molto alta.

Ad ogni modo, ci teniamo a segnalare che il voto di ieri non rappresenta ancora la definitiva approvazione della Direttiva: in base alle norme procedurali europee, infatti, dovrà ancora essere approvato dal Consiglio Europeo (che riunisce i leader dell’UE), presumibilmente ad aprile, per poi attendere la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

TAMPON TAX

Gli assorbenti come beni di lusso, la period poverty e Laura Castelli

‘È arrivata zia Rose!’, diceva un’amica; l’altra, più possessiva, aveva ‘le sue cose’, la vicina era ‘indisposta’ e quell’altra ancora attraversava quel periodo in cui non poteva fare il bagno e andava al mare coi calzoncini.

Le mestruazioni, questo grande tabù. Lungi dall’essere considerate una normale funzione fisiologica, rappresentano forse, ancora oggi, la più alta barriera nella dialettica uomo-donna.

Ma oltre il discorso filosofico c’è di più.

C’è che gli assorbenti igienici femminili, strumento indispensabile per poter continuare a relazionarsi con il mondo anche ‘in quei giorni lì’, sono tassati con IVA al 22%, percentuale questa riservata ai beni di lusso, dei quali si potrebbe anche fare a meno: vino, sigarette, gioielli (ma anche carta igienica, pannolini e latte in polvere: la battaglia si combatte su più fronti).

Il tartufo, nel frattempo, è sceso al 5%, mentre i rasoi da barba sono da tempo considerati beni di prima necessità, con IVA al 4%. Come a dire che un uomo non può presentarsi in ufficio con la barba di due giorni, ma la donna ben può andarci con i pantaloni maculati di rosso.

Due conseguenze discendono direttamente dalla descritta situazione: una è prettamente di natura economica, l’altra potremmo definirla sociologica.

Le mestruazioni tengono compagnia ad ogni rappresentante dell’universo femminile dai 5 ai 7 giorni ogni 4 settimane. Ogni giorno dovrebbero utilizzarsi 5/6 assorbenti e i pacchetti ‘formato standard’, al costo medio di circa 4 euro l’uno, ne contengono mediamente una quindicina. Il calcolo è presto fatto (non è vero, ci è voluta la calcolatrice): in un anno una donna spende intorno ai 100 euro per l’acquisto degli assorbenti, spesa che in un’intera vita (approssimativamente sono 40 gli anni di fertilità) ammonta all’incirca a 4000 euro. Una somma di non poco conto, che diminuirebbe di circa 1000 euro con l’abbassamento o l’abolizione della tampon tax.

L’altra conseguenza è meno evidente, ma forse ancora più profonda e ha direttamente a che fare con quel tabù culturale di cui si diceva in apertura. A prescindere dal discorso economico, considerare gli assorbenti, di fatto, un bene di lusso, trasmette un messaggio distorto: una donna non sceglie di avere le mestruazioni, né di comprare gli assorbenti. Con la stessa spesa potrebbe acquistare, chessò, una lezione di arrampicata, svariati biglietti per il cinema, un pranzo all you can eat, diversi litri di benzina, un libro. Le mestruazioni sono una funzione fisiologica inevitabile e il mancato inserimento degli assorbenti tra i beni di prima necessità è una grande lacuna nella politica sociale e sanitaria del governo.

Un’ultima considerazione. I più attenti ecologisti potrebbero obiettare che una maggior tassazione sugli assorbenti – che sono, in effetti, tra i cinque rifiuti più presenti sulle spiagge di tutta Europa – potrebbe indirizzare le acquirenti su prodotti più ecosostenibili, come le coppette mestruali. Anche in Commissione Europea serpeggiava la stessa idea, ma nel settembre 2018 gli assorbenti sono stati eliminati dalla lista di prodotti di plastica ‘usa e getta’ sui quali la Commissione proponeva di applicare la cd. ‘responsabilità allargata del produttore’, che prevede che l’azienda si faccia carico delle spese di gestione e smaltimento di simili rifiuti: il rischio che i sopravvenuti maggiori costi finissero per gravare sulle acquirenti finali era più che tangibile.

La protezione dell’ambiente e la lotta alla discriminazione di genere sono discorsi di pari importanza che, tuttavia, vanno affrontati separatamente: all’abbattimento (o quantomeno all’abbassamento) della tampon tax ben può accompagnarsi una campagna di sensibilizzazione sulle alternative agli assorbenti che, peraltro, nel lungo periodo rappresentano un risparmio di spesa considerevole, oltre che una scelta più ecosostenibile.

Ed è proprio il Parlamento Europeo a confermare la correttezza del ragionamento, con una Risoluzione (non vincolante) del gennaio 2019 su ‘parità di genere e politiche fiscali nell’Unione europea’, dove evidenzia il problema della cd. period poverty – in UK è risultato, ad esempio, che una donna su dieci non può permettersi gli assorbenti ed è costretta a sostituirli con calzini o altri tessuti – e non solo invita gli Stati membri ad abbassare ovvero a eliminare la tassa in questione, ma addirittura a fornire gratuitamente, all’interno delle strutture pubbliche, questi generi di primaria necessità.

Nell’eterna (speriamo di no) lotta alla discriminazione di genere e ai tabù dettati dai retaggi passati, StraLi sostiene la battaglia dell’Associazione Onde Rosa, promotrice della petizione ‘stop tampon tax: il ciclo non è un lusso’, che ad oggi ha già raccolto più di 200.000 firme.

Slapp – Il lato oscuro della Strategic Litigation

StraLi ha l’obiettivo di promuovere la tutela e la salvaguardia dei diritti attraverso lo strumento della Strategic Litigation, come abbiamo spesso raccontato sul sito e sugli altri canali a nostra disposizione. Tuttavia, la Strategic Litigation è per sua stessa definizione una tecnica neutra, che può essere plasmata diversamente a seconda del fine perseguito: la strategia – il ricorso alle aule giudiziarie – è dunque il mezzo fisso, mentre gli obiettivi sono variabili. Come altri prima di StraLi, abbiamo deciso di utilizzare questo strumento per la promozione dei diritti umani, ma vi è chi se ne serve per scopi diametralmente opposti.

Slapp. Un’onomatopea che è diventata famosa grazie ai fumetti (anche se spesso con una ‘p’ sola), evocativa di uno schiaffo dato in pieno volto, che rende pienamente la durezza del gesto e la sua portata violenta e prevaricatrice.

Nel mondo del diritto e dell’attivismo queste cinque lettere rappresentano una sigla: Strategic Litigation Against Public Participation, ossia Strategic Litigation contro la partecipazione pubblica. In questo caso ‘partecipazione pubblica’ è una traduzione leggermente impropria, sarebbe meglio dire contro l’attività pubblica, intesa come qualsiasi forma di aggregazione popolare i cui scopi confliggono con quelli delle grandi multinazionali o degli Stati.

Avendo dalla loro parte il potere economico, questi ultimi tentano di stritolare nella morsa giudiziaria le ben meno abbienti organizzazioni di tutela dei diritti umani e del territorio, che si trovano a dover fronteggiare numerose e costosissime controversie legali.

Chi detiene il potere monetario non è tanto interessato a vincere le cause nel merito, poiché è sufficiente mantenere aperti i vari fronti giudiziali affinché le risorse delle organizzazioni siano a ciò destinate, con inevitabile detrimento delle cause che sono invece il loro primario interesse. Il settore nel quale si sono registrate il maggior numero di controversie con questo fine è quello ambientale: Greenpeace è capofila nel novero delle organizzazioni che hanno ricevuto una sequela di attacchi legali con mero fine intimidatorio.

Sotto questo profilo, basti sapere che la Resolute Forest Products, società che lavora nella produzione di legname, ha intentato nel 2015 una causa contro Greenpeace per l’importo fantascientifico di 300 milioni di dollari canadesi, evocando addirittura il RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations) Act, l’equivalente americano dell’associazione a delinquere di stampo mafioso presente nell’ordinamento italiano. Nell’ottobre del 2017 il Tribunale della California del Nord ha rigettato tutte le accuse, dimostrando ancora una volta come questi attacchi siano il più delle volte privi di alcun fondamento giuridico e vadano piuttosto inquadrati nella logica dei rapporti di forza.

Proprio perché lo SLAPP mira ad annientare uno dei diritti fondamentali, e cioè la libertà di espressione, negli U.S.A. molti Stati si sono dotati di apposita legislazione che mira a difendere tale diritto, in modo che sia concessa a chi si difende la possibilità di recuperare le spese legali sostenute e ad ottenere la condanna dell’altra parte al pagamento di danni punitivi a titolo di risarcimento.

La California è uno degli Stati che hanno adottato una legge anti-SLAPP, ma in altre giurisdizioni non è presente un’analoga tutela. La necessità di emanare un provvedimento specifico è determinata dal fatto che queste cause abbiano il solo scopo di intimidire le persone o le organizzazioni di cui fanno parte, privandole pertanto di una libertà cruciale, quella di esprimersi. La Costituzione statunitense riconosce e protegge la freedom of speech attraverso il primo emendamento, ma è opinione condivisa che tale tutela non sia sufficiente: di fronte a comportamenti prevaricatori è necessario garantire qualcosa in più, in modo da scoraggiare in futuro spregiudicate iniziative legali.

Anche la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo riconosce la libertà di espressione, all’art. 10, ma il ragionamento di cui sopra resta valido: i tribunali hanno bisogno di uno strumento che possa salvaguardare in maniera ancor più pregnante ed efficace una delle pietre angolari della società contemporanea.

Sia in qualità di giuristi che come semplici cittadini, non vogliamo rassegnarci all’idea di un mondo dove un soggetto economicamente più forte possa ridurre al silenzio un altro solo attraverso l’esercizio della propria forza, peggio ancora se avvalendosi di organi, quali i tribunali, che sono preposti al rispetto delle leggi e a garantire l’eguaglianza tra gli esseri umani, senza distinzione alcuna.

Diritto all’ambiente: dalla piazza al Tribunale con la Strategic Litigation

Non vi parleremo di Greta Thunberg, la formidabile sedicenne svedese dalle lunghe trecce gli occhi azzurri e poi, candidata al Nobel per la pace: Greta, con i suoi scioperi del venerdì, ha chiesto e chiede ai ‘grandi’ che guardino a dove sta andando il Pianeta e facciano qualche cosa per invertire immediatamente la rotta.

Oggi vogliamo parlarvi di un’altra storia.

Anno domini 2015, Oregon, USA: ventuno ragazzi di età compresa tra gli 8 e i 19 anni citano a giudizio, tra gli altri, nientepopodimeno che il Presidente Trump e l’ex Presidente Obama per non aver vietato o quantomeno limitato le attività produttive più inquinanti – si tratta, in particolare, dell’uso eccessivo del carbon-fossile con conseguente sprigionamento di anidride carbonica, tra i principali responsabili del surriscaldamento globale –, così violando il loro diritto ad un clean environment.

I ragazzi – tutti colpiti personalmente dagli effetti dei cambiamenti climatici, quali incendi e alluvioni – parlano di trattamento discriminatorio tra cittadini, centrando il punto: saranno loro, infatti, a fare maggiormente le spese di queste (non)scelte politiche, fatte in un periodo in cui sono ancora privi del diritto di voto e quindi del mezzo per influenzare in qualche modo i governanti. Li rappresenta in giudizio, pro bono, l’Associazione di avvocati ‘Our Children’s Trust’, con il supporto del climatologo James Hansen.

I primi tribunali aditi respingono le richieste per mancanza di un vero e proprio diritto leso, fino a che, nel Novembre 2016, il giudice federale Ann Aiken afferma che “there is no doubt that the right to a climate system capable of sustaining human life is fundamental to a free and ordered society. The access to a clean environment is a fundamental right”’.

Inizia così il processo Juliana v. United States, ad oggi ancora lungi dall’essere concluso, ma già importantissimo per questo primo, fondamentale, riconoscimento.

Una vittoria costringerebbe gli Stati Uniti d’America a cambiare le proprie scelte politiche sull’ambiente, oltre ad aprire un capitolo tutto nuovo: la possibilità per i cittadini di influenzare, tramite azioni legali fondate su violazioni di singoli diritti fondamentali, le scelte dei Governi su un tema così importante.

Le scelte dei ‘grandi’, per dirla alla Greta Thunberg.
Per dirla alla StraLi, ecco un gran bell’esempio di Strategic Litigation.

E mentre ci infiliamo la giacca leggera per raggiungere la fiumana di studenti in piazza per il primo grande climate strike in Italia, desideriamo lanciare un appello. L’azione di piazza è fondamentale ma abbiamo un altro strumento a disposizione che, come dimostra il caso dei ventun ragazzi americani che sono riusciti a portare in aula il Presidente degli Stati Uniti, può essere altrettanto potente: la Strategic Litigation.

StraLi è decisa a seguire l’esempio statunitense. Vogliamo supportare chi, nell’immediato futuro, porterà davanti ai giudici casi individuali di violazione del diritto ad un ambiente salubre per provare, anche in Italia, ad invertire la rotta. In concreto, abbiamo bisogno di persone che abbiano subito danni di qualunque genere connessi ai cambiamenti climatici, che abbiano voglia di cambiare qualcosa e che abbiano voglia di farlo per tutti. Fatevi avanti!

Controverse agevolazioni

Aggiornamento: 29 apr

La Legge 30.12.2018, n. 145, introduce il diritto ad un’agevolazione contributiva in favore dei datori di lavoro che assumano cittadini in possesso di due requisiti: innanzitutto laurea magistrale con la votazione di 110 e lode e con una media ponderata di almeno 108/110; in aggiunta, il titolo dev’essere stato conseguito entro la durata legale del corso di studi e prima del compimento del trentesimo anno di età (c.d. “eccellenze”).

Ad avviso di Strali sono due i profili di incongruità da considerare:

  1. Per la prima volta tale agevolazione viene concessa all’azienda e non direttamente al soggetto che con merito si distingue; ciò porterà il datore di lavoro a scartare chi, pur dotato di eccellenti capacità e con ottimi risultati, non ha avuto la possibilità di concludere il percorso di studi in tempo – perché impegnato a lavorare per pagarsi gli studi, per esempio – il tutto in nome di una pura questione di vantaggi economici. In passato, i benefici venivano accordati direttamente alla persona (tramite borse di studio o vantaggi fiscali), premiando così il merito ma senza creare iniquità tra candidati in sede di assunzione, come è corretto che avvenga.
  2. Di norma, i benefici contributivi vengono correttamente accordati al datore di lavoro che assuma chi si trovi in condizioni di svantaggio sociale e/o economico, da determinarsi attraverso criteri oggettivi quali, ad esempio, l’iscrizione in liste di disoccupazione, l’età anagrafica, lo stato di detenzione. Il profilo della cosiddetta eccellenza è invece determinato da criteri ingiustificatamente disomogenei e non oggettivi. Un 110 ha evidentemente valori diversi a seconda dei fattori personali cui abbiamo accennato sopra e non è accettabile che la votazione e la conclusione del percorso di studi entro il termine legale possano essere criteri determinanti per l’ottenimento di sgravi contributivi. Ciò determinerebbe quindi gravi discriminazioni che, per di più, non avverrebbero sulla base del merito valutato caso per caso, bensì facendo ricorso a criteri aprioristici.

La norma in questione è inaccettabile. Oltre a non vedere il senso di ribaltare il beneficio che (giustamente) dovrebbe andare al soggetto meritevole e non all’azienda, la riforma favorisce discriminazioni nel mercato del lavoro determinando una violazione che, a parere di StraLi, si scontra con il principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 della nostra Costituzione, nella parte in cui proibisce distinzioni sulla base di condizioni personali e sociali.

Perché l’illegittimità della norma venga meglio compresa, ecco una situazione che verosimilmente potrebbe verificarsi d’ora in avanti: un datore di lavoro ha di fronte il curriculum di due soggetti. Il primo è in possesso dei requisiti di legge per ottenere il contributo mentre il secondo, pur essendo parimenti competente, ha dovuto lavorare per mantenersi, terminando il percorso di studi sei mesi più tardi del termine indicato dalla norma. Il datore di lavoro probabilmente non chiamerà nemmeno a colloquio il secondo candidato, sapendo che il primo gli porterà un vantaggio economico. Il secondo candidato non solo non verrà premiato ma, al contrario, penalizzato nell’ottenimento di un lavoro.

Appare evidente come questa norma, lungi dall’avere un effetto premiale, introduca invece un’ingiusta ed ingiustificata distinzione. Il merito di un candidato emergerà in sede di valutazione da parte del datore di lavoro e non dev’essere fissato dalla legge in base a parametri decisi arbitrariamente.

Legittima offesa? Al via la “licenza di uccidere”

Aggiornamento: 29 apr

Fortemente voluta dal Governo con l’obiettivo di intensificare il “diritto all’autotutela”, la riforma della legittima difesa non è immune da critiche, che arrivano a definirla vera “licenza di uccidere”. Ma cosa prevede esattamente? StraLi cercherà di spiegarlo, sottolineando i principali aspetti critici della sua futura applicazione.

Innanzitutto, una piccola ma dovuta digressione procedurale: nel momento in cui scriviamo la legge è stata approvata dalla Camera e deve ora superare il vaglio del Senato. Il testo che analizziamo e cui faremo riferimento è pertanto quello in discussione nell’aula di Palazzo Madama.

Entrando nel merito della riforma, tra i nodi più problematici segnaliamo la PRESUNZIONE DI PROPORZIONALITÀ: nella nuova legittima difesa domiciliare sussisterà SEMPRE il rapporto di proporzione tra l’aggressione subita e la reazione della vittima. Una forzatura già proposta nel 2006 (gov. Berlusconi III) cui i giudici italiani non si sono mai piegati, ritenendola irrazionale e contraria all’accertamento nel singolo caso concreto che sempre dovrebbe esserci da parte del giudice. Oggi il Governo fa un nuovo tentativo con l’introduzione dell’avverbio “sempre” che tuttavia ora come allora risulta incostituzionale. Secondo StraLi, in questo modo si elimina qualsiasi bilanciamento tra il “diritto all’autotutela” e l’incolumità individuale del supposto aggressore. Più in generale, riteniamo le presunzioni assolute sempre arbitrarie, irrazionali, e potenzialmente lesive del principio di uguaglianza.

Per chiarire meglio, ecco un esempio eloquente che trova riscontro in recenti fatti di cronaca: ad una tenue aggressione patrimoniale (immaginiamo nell’ordine di poche decine di euro), come un tentativo di furto, si potrà rispondere con una grave lesione dell’incolumità personale o anche arrivando ad uccidere l’aggressore in maniera preordinata e tale condotta resterà insindacabilmente impunita. La vita umana vale davvero così poco?

Altro aspetto che suscita perplessità è la PRESUNZIONE DELLA NECESSITÀ DIFENSIVA: la nuova norma prevede che di fronte ad una intrusione posta in essere con violenza o minaccia di uso di armi o di altri mezzi di coazione fisica si possa respingere l’aggressore con ogni mezzo. Affinché scatti la legittima difesa è dunque sufficiente che l’aggressore minacci di utilizzare un’arma e non è neppure richiesto che la minaccia sia rivolta direttamente alla persona. Secondo il legislatore la violazione di domicilio arriva a giustificare non solo un’aggressione alla persona, ma qualsiasi reazione.

Siamo davvero sicuri che non sia necessaria una valutazione basata sul caso specifico che valuti come e con che mezzi l’aggredito può difendersi? Vale davvero tutto, in una sorta di combattimento tra cittadini fomentato dallo Stato?

Gli ultimi due aspetti della riforma che rischiano di rivelarsi fortemente problematici riguardano, in primo luogo, la modifica alla disciplina dell’ECCESSO COLPOSO: non sarà punibile colui che eccede colposamente i limiti della legittima difesa (con una reazione cioè spropositata) se si trova in una situazione di minorata difesa o “in stato di grave turbamento”. Questa clausola rafforzerà la presunzione assoluta di proporzionalità (tra offesa e reazione) e pare pensata proprio per escludere ogni responsabilità in capo a chi reagisce ad una aggressione, senza dare alcun peso alla proporzione tra le due azioni.

In secondo luogo, la modifica alla disciplina delle CONSEGUENZE CIVILI: nei casi di legittima difesa domiciliare è esclusa la responsabilità civile, mentre nel caso di eccesso colposo è prevista la corresponsione di una indennità in caso di procurata lesione. Il risultato sarà di trattare in maniera identica situazioni diverse, e di giungere al paradosso per cui chi agisce in grave stato di turbamento dovrà corrispondere un’indennità mentre chi lo fa con lucidità no.

Concludiamo questa piccola panoramica esortandovi ad analizzare il testo della riforma, chiedendovi quanto possa essere positivo un totale sacrificio della discrezionalità dei giudici di fronte a queste casistiche. Ancora, domandiamoci chi sarà davvero penalizzato da questa norma, l’aggressore o l’aggredito: l’unica cosa più pericolosa di possedere un’arma e di poterla usare è possedere un’arma, poterla usare e non saperla usare.

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