TELECAMERE DI SICUREZZA: LA PRIVACY È A RISCHIO?

Negli ultimi anni le tematiche relative alla privacy sono molto dibattute.

Esiste, infatti, un aperto contrasto tra il diritto alla privacy dei cittadini e il diritto alla sorveglianza delle case e dei negozi.
Sono noti, infatti, i casi in cui a rendersi protagonisti di massive violazioni della privacy dei cittadini sono state le Nazioni (come il caso americano che ha riguardato i leak di Edward Snowden) o le multinazionali (il riferimento è al caso Cambridge analytica che ha coinvolto Facebook).
Nei casi sopra citati lo Stato o la multinazionale hanno violato la privacy dei cittadini per attuare politiche di controllo o per profitto, ma la contrapposizione è in entrambi i casi molto chiara: il singolo cittadino è visto come un individuo con poteri infinitesimali rispetto allo Stato o a Facebook, i quali in quanto player di proporzioni massive si sono approfittati del loro potere calpestando i diritti dei cittadini.
La situazione italiana, invece, vede un inedito contrasto tra i singoli cittadini.
Da anni, ormai, si tratta del diritto alla privacy come una prerogativa dei cittadini, inviolabile in quanto posta in cima alla scala dei valori.
La sentenza Corte di Cassazione, Sezione V Penale, 13 maggio 2019 numero 20527, però, ha sovvertito la situazione.
Con detta sentenza i Giudici della Cassazione hanno assolto due persone dalle accuse di avere commesso il reato di violenza privata istallando delle telecamere che inquadravano la pubblica via nella parte antistante la loro abitazione.
Tale fattispecie, prevista e punita dall’articolo 610 del Codice Penale, prevede che “Chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa è punito con la reclusione fino a quattro anni”.
La condotta tenuta dagli imputati era stata quella di istallare delle telecamere di sicurezza sul muro perimetrale della loro proprietà, ma dirette sulla pubblica via.
La presenza di queste apparecchiature aveva comportato lamentele da parte dei vicini, i quali affermavano anche di avere ricevuto rimproveri e minacce di denunce dagli imputati per i loro comportamenti.
A detta dei giudici della Corte, però, non vi era consumazione del reato in quanto tale attività era giustificata dalla legittima esigenza di tutelare la sicurezza dei luoghi e delle persone residenti nell’edificio.
Secondo la Cassazione, in ogni caso, la nozione di violenza era riferibile a qualsiasi atto posto in essere dall’agente che si risolva nella “coartazione della libertà fisica o psichica del soggetto passivo, che viene così indotto, contro la sua volontà a fare, tollerare o omettere qualche cosa, indipendentemente dall’esercizio su di lui di un vero e proprio costringimento fisico”.
Nel caso in oggetto, tuttavia, l’esame della fattispecie aveva comportato l’assoluzione dal reato di violenza privata in quanto non sussistevano gli elementi soggettivo e oggettivo a sostegno della condanna. Ciò che traspare dalla sentenza, quindi, è il depauperamento del diritto alla privacy dei cittadini il quale è messo sullo stesso piano (o addirittura un livello inferiore) del diritto alla sorveglianza di altri.
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, i soggetti agenti delle condotte non avevano – chiaramente – come scopo quello di nuocere terzi, violando la loro privacy e cagionando una variazione delle loro abitudini, ma solo quello di tutelarsi.
Dal punto di vista dell’elemento oggettivo, continuava la Cassazione, l’istallazione delle telecamere non era di per sé una condotta illecita, né lo erano le concrete modalità di attuazione delle riprese.
I condannati, infatti, avevano provveduto ad affiggere cartelli informativi delle riprese, segnalando la presenza delle telecamere a tutela della privacy dei terzi.
Occorre quindi sollevare una questione: se sia legittimo tutelare il diritto alle persone di sorvegliare il perimetro della propria abitazione con telecamere, a scapito della privacy di chi transiti sulla pubblica via nella parte coperta dalla sorveglianza; o se non sia invece un principio generale e primario quello della tutela “in ogni circostanza” della riservatezza delle persone.
A parere di chi scrive la risposta non può che essere un compromesso tra le due esigenze.
Dovrebbe essere garantito, infatti, il diritto delle persone di istallare telecamere di sicurezza, per potere risedere con tranquillità nella propria abitazione scongiurando il rischio di intrusioni.
Tale attività, però, deve essere ben motivata (ad esempio all’esterno di banche, gioiellerie o case che hanno subito furti in passato) regolamentata e deve essere possibile per il terzo, conoscere le modalità di sorveglianza, qualora questa avvenga sulla pubblica via.
Non bisogna mai, per la paura, cedere a compromessi su diritti fondamentali degli individui.

Oops, we did it again

“Lois, l’ho fatto di nuovo!” urla dolorante Peter Griffin dopo aver montato delle lamette da barba su un ventilatore ed essersi inevitabilmente sfregiato il volto nel goffo tentativo di radersi più velocemente.

Peter Griffin è un personaggio di fantasia, caricatura di un americano medio (o forse mediocre?), impulsivo, non particolarmente brillante, che in quella frase esprime una sorta di ineluttabilità del destino, quasi a riconoscere le proprie limitate capacità intellettuali e di conseguenza i guai che ne debbono derivare. Non si può colpevolizzare Peter Griffin oltre un certo limite, perché non ha i mezzi per comprendere a pieno la portata delle sue azioni prima di compierle, riesce al massimo a dolersi dei nefasti effetti da queste cagionati.
Per fortuna di noi tutti, la Camera dei Deputati non è composta da Peter Griffin. Nelle schermaglie politiche qualcuno potrebbe accostare un avversario al panciuto personaggio per denigrarlo, ma siamo ragionevolmente certi che a nessuno verrebbe mai in mente di far radere al suolo la propria casa. Ciononostante, non occorre essere una macchietta per combinarne discreti pasticci. Il riferimento è alla mancata approvazione della riduzione dell’aliquota IVA su tamponi e assorbenti, bocciata dalla Camera lo scorso 14 maggio con ben 253 voti contrari e solo 189 in favore. Vi ricordiamo che sono considerati beni di lusso e pertanto tassati al 22%, mentre i tartufi sono soggetti ad aliquota del 5%. Maria Antonietta saprebbe cosa suggerire come rimedio.
Il dibattito sta diventando quasi stucchevole: le ragioni a favore dell’abbassamento dell’IVA sono molteplici e ben più profonde di quanto si possa credere, come abbiamo a suo tempo spiegato in questo articolo. Non si tratta di mero risparmio economico, che comunque avrebbe di per sé un’incidenza sufficiente, ma vi è anche un forte significato simbolico: quale contorto ragionamento bisogna sviluppare per arrivare a sostenere che i prodotti per l’igiene intima femminile debbano essere tassati oltre quattro volte di più dei rasoi da barba per gli uomini? Capiamo bene che col dilagare degli hipster e la moda delle barbe lunghe sia il caso di incentivare un’industria che altrimenti rischierebbe il tracollo, ma proprio come si può intuire dalla contemporaneità, la barba è un vezzo, il ciclo mestruale no.
Due gli argomenti che hanno portato la maggioranza a votare contro questo provvedimento: da un lato un discorso economico, poiché lo Stato, secondo i calcoli della Ragioneria, avrebbe dovuto rinunciare ad entrate pari a circa 200 milioni di Euro se avesse abbassato l’IVA al 10%, e oltre 300 se l’avesse invece portata al 5%, dall’altro una questione ambientale.
Occupiamoci prima di quest’ultima: saremmo molto felici di una svolta verde, ma sinora l’esecutivo è parso ben lontano da qualsiasi tematica di rispetto per l’ambiente, per cui l’inquinamento causato da assorbenti e tamponi pare più una scusa che un reale motivo. Per di più, la Commissione Europea aveva già eliminato questi beni dalla lista di quelli che dovrebbero essere soggetti ad una maggior tassazione proprio in ragione del loro impatto ambientale. Quest’argomentazione cade, inesorabilmente.
La prima è più intuitiva da capire: ogni volta che lo Stato emana una legge deve trovare le cosiddette coperture finanziarie, ossia garantire che nel bilancio esistano soldi per garantire l’efficacia della legge medesima. In questo caso bisognerebbe rinunciare a delle entrate, per cui gli importi che abbiamo indicato sopra andrebbero recuperati da qualche altra parte. 200 o 300 milioni di Euro sembrano una somma stratosferica per un normale cittadino, ma rappresentano una minima parte dei 580 miliardi (non milioni, m-i-l-i-a-r-d-i) di Euro che lo Stato ha incassato con la riscossione dei tributi nel solo 2018. Come detto prima, per motivi igienico-sanitari questi beni sono irrinunciabili per una parte della popolazione che viene colpita da una tassazione iniqua. Non è neanche vero quanto affermato in autunno da un’esponente del Governo, secondo cui l’Europa – questa mitologica creatura che spaventa i bambini e si nutre dei vostri sogni – avrebbe imposto di non abbassare questa tassa. Alcuni giornalisti hanno chiesto spiegazioni alla Commissione Europea, la quale ha risposto che non era assolutamente vero e che, anzi, non vi era alcun problema.
Sapete chi ha mosso l’obiezione quest’autunno? Proprio lei, l’ineffabile on. Laura Castelli, che ci ha regalato una delle più gustose basi per meme dello scorso anno (qua la spiegazione sulla bufala):
Tuttora non ci capacitiamo di come il “Questo lo dice lei” non sia diventato l’argomento principale degli studenti in opposizione ai professori in sede d’esame.
Risulta abbastanza chiaro che non vi siano reali motivazioni contro la riduzione dell’aliquota IVA su assorbenti e tamponi; non che la cosa ci stupisca, ma sarebbe interessante comprendere sulla base di cosa abbia votato una così ampia maggioranza.
“L’hanno fatto di nuovo!” è a questo punto il grido disperato dei cittadini italiani, che come Peter avvertono l’inevitabilità di certe sconsiderate scelte, benché questa volta non siano le loro, ma di chi è stato designato a rappresentarli.

Ad ogni modo, ci permettiamo di consigliare ai 253 deputati di cui sopra di imparare dagli errori di Peter Griffin e di non sostenere test per presunti luminari (per capire quest’ultima frase è opportuno vedere il secondo video).

Delicatissime ruspe

Meno di una settimana fa vi ammorbavamo con le nostre elucubrazioni sulla linea sottile che separa la libertà di manifestazione del pensiero dall’apologia di fascismo, arrivando quasi a suggerire un finale più inaspettato del quinto episodio di Game of Thrones: per come oggi stanno le cose, forse l’esclusione di quella casa editrice dal Salone del Libro non è stata un capolavoro di legittimità.

In questo clima di onestà e delicatezza intellettuale arrivano le ruspe.
È recentissima la notizia del blitz dei vigili del fuoco di Brembate per rimuovere uno striscione appeso ad una finestra che recitava ‘non sei benvenuto’, in occasione di un comizio di Matteo Salvini (qui due numeri sulle partecipazioni del nostro ministro dell’interno a comizi di partito nei primi mesi del 2019: https://www.ilpost.it/2019/05/14/quanto-lavora-salvini/).
No, non è un dejà vu: la settimana scorsa la stessa sorte toccava ad un altro striscione con scritto ‘questa Lega è una vergogna’ – pare che i poliziotti entrati in casa della donna le abbiano prospettato ‘guai legali’ qualora non avesse obbedito –, mentre qualche mese fa un ragazzo, sempre in occasione di un comizio leghista, veniva fermato ed identificato da agenti in borghese perché in possesso del temibilissimo cartello ‘ama il prossimo tuo’.
Ancor più notizia ha fatto l’infilata di selfie-bombing, ultima moda tra i giovani contestatori di Salvini: alle due ragazze siciliane che al posto di dire cheese si erano scambiate un bacio saffico era stato sequestrato temporaneamente il telefono, con intimazione di cancellare il file incriminato; stessa cosa è capitata ad un’altra ragazza a Salerno che ha colto l’occasione di un selfie per chiedere se agli occhi del leader della già Lega Nord lei e i suoi concittadini fossero ancora ‘terroni di merda’, come ai vecchi tempi.
Torniamo a Bergamo e dintorni. Una domanda è sorta spontanea al sindaco della città, che ha twittato: chi ha dato l’ordine di intervenire? E a che titolo? Bè, i vigili del fuoco dipendono dal ministero dell’interno. Matteo Salvini è ministro dell’interno. Non abbiamo la più pallida idea di come rispondere al sindaco Gori.
Facile ironia a parte, avanti con il diritto. Il codice di procedura penale dispone che, di regola, solo l’autorità giudiziaria può ordinare il sequestro di un bene e solo con contestuale contestazione di una fattispecie di reato; le forze dell’ordine possono agire senza previa autorizzazione quando ci si trovi in flagranza di reato o sia messa comunque in pericolo l’incolumità di chicchessia. Difficile individuare, nelle situazioni sopra descritte, una di queste due tassative ipotesi, tanto che stesso capo della Polizia, Gabrielli, ha avviato un’indagine interna per far luce sulla vicenda.
Quanto alla rimozione degli striscioni di tutt’altro che violenta contestazione, pare che esista una base legale, da rinvenirsi all’art. 99 del d.P.R. 361/1957, che punisce con pena detentiva da uno a tre anni (più multa) chi ‘con qualsiasi mezzo impedisce o turba una riunione di propaganda elettorale’. Ed è proprio sull’estensione del termine turbamento che si gioca tutta la partita: se al tempo dell’emanazione della norma le riunioni politiche erano turbate da veri e propri attentati con morti e feriti, ultimamente è sufficiente una bomboletta spray e qualche metro di stoffa per gettare il nostro caro art. 21 Cost. nel gabinetto e tirare bene lo sciacquone.
Se siamo pronti a mettere in dubbio la liceità dell’esclusione di una casa editrice – il cui leader si definisce tronfiamente fascista – da una manifestazione quale il Salone Internazionale del Libro, certo però non possiamo tollerare che pacifiche e assolutamente innocue manifestazioni di dissenso politico siano in questo modo messe a tacere.
Continuate ad appendere gli striscioni dunque, continuate con il selfie-bombing, continuate ad esprimere la vostra idea, qualunque essa sia, anche se ritenete che la terra sia un disco piatto appeso al cielo e anche se credete nelle scie chimiche. Perché la libertà di manifestazione del pensiero non può essere travolta da una qualsiasi ruspa.
Ps: oggi, a Campobasso, pare che il leader della Lega sia stato accolto con centinaia di striscioni attaccati a balconi. Sipario.

Non possiamo tollerare gli intolleranti. O si?

La casa editrice Altaforte non parteciperà al Salone Internazionale del Libro di Torino. C’è chi gioisce, c’è chi grida allo scandalo, c’è chi rimane indifferente. E poi ci siamo noi, che proviamo a ragionarci un po’ sopra, propinandovi le nostre modeste riflessioni.

Three, two one, fight!
Step 1. L’apologia di fascismo.
Prendiamola alla larga e partiamo dal 20 giugno 1952, giorno di entrata in vigore della conosciutissima – almeno nel nome – legge Scelba. Mentre ancora gli italiani si leccavano le ferite lasciate da quel lugubre ventennio da poco concluso, il legislatore decideva di prendere provvedimenti per evitare che qualcuno, in futuro, potesse avere la balzana idea di ripetere un’esperienza del genere. Lungimiranti!

Con questa breve legge di soli dieci articoli vengono introdotti nell’ordinamento italiano tre nuovi reati: l’art. 1 vieta la ricostruzione del disciolto partito fascista, l’art. 5 castiga chi partecipa a manifestazioni o riunioni nazi-fasciste, mentre l’art. 4 – che è rubricato ‘apologia di fascismo’ ed è quello che qui più ci interessa – punisce sia chi fa propaganda per ricostruire il partito fascista, sia chi esalta pubblicamente esponenti, metodi, ideali o finalità di stampo fascista; pene più severe per chi manteca il tutto con idee e messaggi razzisti o fa uso del mezzo della stampa per propagandare il proprio illegale pensiero.

Tutto molto bello quanto astratto. Basti pensare che nel 1991 fu fondato un partito dal nome ‘Fascismo e Libertà’, che andò incontro a numerose denunce che si conclusero con archiviazioni o assoluzioni per insussistenza del fatto: quello che non si può fare, secondo la legge Scelba interpretata dai giudici, è la ricostruzione di quel partito fascista, proprio quello che impose la dittatura, quello che andò a gambe all’aria nel 1943.

L’apologia di fascismo, dal canto suo, se interpretata letteralmente ad oggi contribuirebbe in maniera decisiva al sovraffollamento carcerario: dai nostalgici ‘viva il duce’ ai rigidi saluti romani sino alle stonate strofe di faccetta nera; si salverebbero forse i ‘quando c’era lui’ insieme ai ‘l’unico errore fu l’alleanza con Hitler’, ma per il rotto della cuffia.

Intervenne tuttavia la Corte Costituzionale nel 1957 a chiarire che, in nome della sacrosanta libertà di manifestazione del pensiero, il reato di apologia di fascismo sia integrato solo laddove frasi, gesti, dichiarazioni possano dirsi propedeutiche “alla riorganizzazione del partito fascista”, così salvando la norma dalle accuse di incostituzionalità.

Quindi sì, si può fare il saluto romano all’amico con la testa rasata, si può invitare il suddetto amico per due spaghi aglio, olio e negazionismo, ci si può apertamente dichiarare fascisti senza rischiare nulla, se non il tendenziale ribrezzo degli astanti. Un po’ quello che capita con le flatulenze in ascensore.

Step 2. La pecora nera.
Tanto premesso, passiamo alla ormai arcinota casa editrice Altaforte, da qualche giorno presente sulle prime pagine delle principali testate nostrane ma anche nel registro degli indagati della Procura di Torino per il detto reato di apologia di fascismo.
Altaforte, ormai è un ritornello, ‘è vicina a Casapound’: il titolare della casa editrice, tal Francesco Polacchi, è, in effetti, un militante di quel partito (oltre che fondatore del brand Pivert, a quanto pare molto in voga tra i suoi compagni di partito).
Tra i capolavori pubblicati da Altaforte – che si presenta come casa editrice che vuole dar voce a coloro che si pongono fuori dal pensiero omologato – ricordiamo “Diario di uno squadrista toscano” di Mario Piazzesi, “La dottrina del fascismo” di Benito Mussolini e Giovanni Gentile e un fumetto che ripercorre l’esperienza dello stesso Mussolini durante la prima guerra mondiale, quando maturò le fondamenta dell’ideologia fascista. L’ultimo masterpiece è il libro-intervista del Vicepremier Matteo Salvini, che avrebbe dovuto essere presentato proprio in questi giorni al Salone del Libro.
Step 3. L’art. 21 della Costituzione.
L’art. 21 della nostra Costituzione dice che “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione […]”. In altre e meno auliche parole, in una democrazia si può pensare e dire ciò che si vuole anche se diverso, anche se antitetico, da quanto la maggioranza pensa.
Esistono dei limiti? Ebbene yes, il limite è quello della legalità.
Insultare e diffamare gli altri è illegale, non si può fare.
Spiattellare informazioni riservate perché personali è illegale, non si può fare
Divulgare notizie coperte da segreto professionale o di Stato è illegale, non si può fare.
Step 4. (Non) conclusioni.
Pubblicare libri che inneggiano al fascismo è illegale e non si può fare? La lettera dell’art. 4 della legge Scelba sembra piuttosto chiara nella parte in cui punisce chiunque “esalta esponenti, princìpi, fatti o metodi del fascismo, oppure le sue finalità antidemocratiche”. Ma la sua applicazione concreta è stata, negli anni, molto molto più morbida, come abbiamo visto.
Che ciò sia avvenuto per ossequio alla Costituzione e alla libertà di pensiero o che sia stato per una percezione del fascismo come un ricordo lontano e difficile a ripetersi, non è dato sapere.
Credeteci, ci siamo scervellati full time in questi ultimi giorni, senza riuscire a imboccare a passo sicuro il paradosso di Popper – per cui, riassumendo male e con il rischio di ingarbugliarsi la lingua, una società tollerante, per mantenersi tale, non può tollerare il pensiero intollerante – ed allo stesso tempo guardando con un certo sospetto il liberal thinking ed il “vivi e lascia vivere se davvero vuoi definirti democratico”.
Non abbiamo, purtroppo, conclusioni. Non ne abbiamo di giuridiche quantomeno. E vi vediamo mentre ci maledite mentalmente per avervi fatto perdere questi tre minuti, ma l’abbiamo fatto in completa buonafede, nella speranza che il dibattito resti vivo anche quando l’effetto Salone sarà finito.

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