LE MUJERES MODATIMA: VESSAZIONI, PAURA E SACRIFICI IN DIFESA DELL’ACQUA E DELLA PROPRIA TERRA

L’organizzazione delle Mujeres Modatima nasce nel 2010 nella provincia di Petorca, in Cile, a seguito dei problemi sorti per la mancanza di acqua in questo territorio.

Il problema esisteva da tempo, ma si è acuito con l’arrivo dei latifondisti di coltivazioni intensive.

“[…] Tutto, per me, è iniziato il giorno in cui volevano prendere la terra di mio padre, il giorno in cui i proprietari terrieri ci hanno rubato l’acqua. Avevo circa 19 anni, mio padre era molto legato alla terra, alla natura, quindi fin da piccola mi ha insegnato a rispettarla. Quando sono cresciuta, ho visto la lenta e dolorosa morte della nostra flora e della nostra fauna. E fa male, è doloroso, perché essere derubati dell’acqua e della natura significa essere derubati di una parte della tua vita”, così racconta Verónica Vilches, attivista di Mujeres Modatima, nell’intervista rilasciata a Christian Elia per LifeGate.

Questa è la storia di tre donne coraggiose: Verónica, appunto, Carolina e Lorena. Tre donne che ogni giorno lottano per difendere i propri diritti e quelli del territorio in cui vivono, portando avanti un movimento attivista in difesa soprattutto del diritto all’acqua. A Petorca, infatti, da anni si vive quotidianamente con lo spettro della siccità, con gravissime conseguenze sia sulla salute che sulla qualità della vita delle popolazioni locali.

La stessa Amnesty International, venendo a conoscenza del loro lodevole impegno, ha aperto una petizione internazionale per sostenerle e aiutarle.

Tutto ciò, però, non si sta dimostrando sufficiente.

Infatti, sempre più aziende private stanno ampliando le proprietà terriere convincendo i locali a lasciare le proprie terre in cambio di una miseria.

Qui costruiscono pozzi profondi oltre 100 metri per le coltivazioni intensive, lasciando senza acqua tutta la popolazione locale.

Per lo più si tratta di alberi di avocado per esportazione. Quindi, ci troviamo davanti un sistema di mercato che non solo priva i locali di un bene primario come l’acqua, ma che in più sfrutta in modo intensivo il proprio territorio per prodotti ultimi che verranno esportati in Europa e negli Stati Uniti.

A questo terribile scenario, si aggiunge il fatto che le tre protagoniste si trovano a dover affrontare ogni giorno vessazioni, minacce e stigmatizzazioni, con atti non solo finalizzati a screditarle, ma addirittura perpetrati con l’intento di attaccare la loro incolumità fisica. Auto bruciate, minacce sul posto di lavoro…

Il caso più grave è avvenuto nei confronti di Carolina e di suo figlio, quando un furgone senza targa e con i vetri oscurati ha cercato di investirli. Poco prima, l’attivista aveva portato avanti una grave denuncia contro El Peñón de Zapallar, una delle imprese agricole più grandi sul territorio che estrae acqua in quantità ingenti e senza alcun controllo.

La bella notizia è che proprio Carolina è stata eletta all’interno dell’Assemblea Costituente del Cile e ha dichiarato che si batterà per far inserire la questione ambientale e la difesa del proprio territorio nella nuova Costituzione del proprio Paese. Per fare tutto questo, però, le serve protezione.

StraLi, in conformità ai propri principi, auspica pertanto che la comunità internazionale dia l’attenzione mediatica necessaria e si impegni attivamente a supporto delle Mujeres Modatima affinché questo problema possa essere affrontato concretamente e sradicato.

A cura di Alice Pezzana

L’INIZIO DEL PROCESSO A PATRICK ZAKI, LA FINE DEL GIUSTO PROCESSO

La storia di Patrick Zaki inizia, ormai, quasi due anni fa quando a febbraio 2020 Patrick vola in Egitto, suo Paese natale, per trascorrere qualche giorno in compagnia della famiglia. Patrick è egiziano ma studia in Italia, a Bologna. Frequenta un master in Women and Gender Studies a Bologna. Soprattutto, Patrick è un attivista resso l’EIPR – Egyptian Initiative for Personal Rights, autorevole ONG che si occupa di tutela dei diritti umani e dei diritti delle minoranze, i/le cui componenti erano già stati presi/e di mira dalle autorità egiziane più volte. Patrick atterra al Cairo il 07 febbraio 2020 e da lì si trova, il giorno dopo, davanti alla procura di Mansura in stato di fermo per reati quali minaccia alla sicurezza nazionale, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.

Per ventiquattro ore non si hanno notizie di Patrick: successivamente, gli/le attivisti/e che hanno lottato per la sua causa hanno sostenuto che sia stato vittima di abusi e torture. Poi, la formalizzazione dell’arresto e una detenzione in carcere che si prolunga per diciannove mesi. Quella di Patrick è una custodia cautelare in attesa di processo, un istituto giuridico che per sua natura dovrebbe essere temporaneo ma che nel caso di Patrick viene rinnovata all’infinito, prima ogni quindici giorni, poi ogni quarantacinque.

In questo periodo di tempo, Patrick resta perlopiù rinchiuso nel carcere di Tora, considerato fra i peggiori al mondo per condizioni dei/lle detenuti/e e rispetto dei più basilari diritti. Da anni Human Rights Watch e altre associazioni denunciano gli abusi a cui vengo sottoposte le persone imprigionate all’interno del carcere e della sua area di massima sicurezza, lo “Scorpione”, una fra le molte strutture per la repressione del dissenso politico in Egitto. I detenuti e le detenute come Patrick, oltre a dover sopportare condizioni igienico-sanitarie pessime e abusi, spesso devo affrontare anche l’ostacolo dell’isolamento rispetto all’esterno, alle loro famiglie e ai/lle loro legali.

Martedì 14 settembre 2021 è iniziato il processo a Patrick Zaki, con una prima udienza che è durata pochi minuti e si è conclusa con un aggiornamento al 28 settembre, secondo ANSA. Patrick e il suo legale hanno denunciato i lunghissimi tempi di custodia cautelare, nonché la scarsa chiarezza delle accuse mosse e dei reati contestati. Per quanto quindi si sia usciti dall’impasse in cui Patrick è rimasto intrappolato per mesi, le previsioni sono tutt’altro che rosee e le condizioni del ragazzo ancora lontane da buoni standard di civiltà e dignità.

Al di là del merito del caso Zaki, già di per sé sufficiente a evidenziare come alcuni principi di civiltà giuridica che, consolidati in Europa, non siano altrettanto in Paesi terzi, vi è un altro elemento che da giuristi, preoccupa. La sentenza che verrà emessa nei confronti di Zaki, infatti, non sarà appellabile. In Italia vi sono, a contrario, tre gradi di giudizio, questo significa che se un primo Tribunale (appunto, di primo grado) condanna qualcuno, questo può impugnare la sentenza innanzi ad una Corte di Appello (la quale, a differenza del giudice di primo grado, giudica sempre in composizione collegiale, garantendo che il caso venga deciso appunto, da un collegio, con più probabilità che vi siano opinioni diverse che devono in qualche modo allinearsi). Se anche la Corte di Appello condanna, è possibile proporre ricorso alla Suprema Corte di Cassazione che, seppur giudice del solo diritto (non giudica i fatti del caso ma la mera correttezza giuridica della sentenza di appello), comunque può rinviare ai giudici del merito (Tribunale del primo grado e Corte di Appello) indicando loro la corretta applicazione delle norme giuridiche rilevanti nel caso concreto. Insomma, in Italia i processi durano tanto (si sa) ma durano tanto, anche, perché prevedono le possibilità di appellare e ricorrere. La previsione di un doppio grado di giudizio (di merito) fa parte delle garanzie, necessarie e imprescindibili, che concorrono a formare il “giusto processo” (costituzionalmente e convenzionalmente garantito).

Per quanto la Costituzione non riconosca un vero e proprio diritto di appello (l’art. 111 della Carta Costituzionale riconosce il diritto a ricorrere in Cassazione ma non, invece, quello di appello) e per quanto lo stesso ordinamento preveda dei casi di esclusione della possibilità di appellare, questa è comunque ritenuta indispensabile per la concretizzazione di un giusto processo. In questo senso è stata la stessa Corte Costituzionale che si è storicamente pronunciata relativamente all’assenza della possibilità, in casi specifici di appellare, ritenendo quest’ultima incostituzionale. Si fa qui riferimento, ad esempio, alle sentenze 70/75, 73/78 e 72/79 in cui la Consulta ha ritenuto incostituzionale l’esclusione per l’imputato di appellare le sentenze di proscioglimento per estinzione del reato dovuta ad amnistia o prescrizione laddove, comunque, la declaratoria di estinzione prevedeva un concreto giudizio di colpevolezza. In particolare, la Corte ha di volta in volta valorizzato la necessità di assicurare la c.d. parità delle armi fra accusa e difesa quale criterio determinante per valutare se l’assenza della possibilità di appellare una determinata decisione si ponesse come lesiva del giusto processo. In questo senso, quindi, si può valutare l’assenza della possibilità di appellare una determinata decisione giurisdizionale alla luce della idoneità di siffatta impossibilità a ledere il principio di parità delle armi fra le parti processuali. Nel caso di Zaky, l’impossibilità di appellare l’eventuale condanna nei suoi confronti si pone come il punto di arrivo di un processo discutibile dal punto di vista di civiltà giuridica. Zaky, infatti, non solo è stato trattenuto in custodia cautelare per un periodo di tempo eccessivo, nonché senza alcuna motivazione adeguata relativa alle necessità che giustificherebbero il suo mantenimento in custodia cautelare, ma è stato anche impedito nel mantenimento dei contatti sia con il suo avvocato che con i suoi familiari, nonché sottoposto a trattamenti disumani, degradanti, nonché a vere e proprie torture.

Non rimane altro da aggiungere se non che la tutela dei diritti umani passa (anche) dal rispetto delle regole alla base del giusto processo. Il processo (penale soprattutto) è, infatti, drammaticamente (troppo) spesso il luogo dove alcuni tra i più fondamentali dei diritti vengono violati (anche dalle Autorità) ma dove dovrebbero essere maggiormente tutelati. A tal proposito, alla maggiore contrazione dei diritti umani deve corrispondere una maggiore opposizione anche da parte dell’opinione pubblica volta a sollecitare un ripensamento critico, anche, delle stesse regole che sorreggono lo stesso processo penale.

A cura di Carlotta Capizzi e Greta Temporin

La Vittoria di Pirro del diritto alla privacy

Dopo una lunga attesa, il 25 maggio 2021, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti Umani (Corte) di Strasburgo ha adottato Big Brother Watch e altri c. Regno Unito, sentenza cruciale nell’ambito del diritto alla privacy. La questione affrontata dalla Corte ha riguardato la conformità delle pratiche di sorveglianza di massa applicate nei Paesi Membri del Consiglio d’Europa con le garanzie previste dalla Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU).

Gli avvenimenti che hanno portato a questa decisione sono stati le c.d. rivelazioni di Edward Snowden, informatico, attivista e whistleblower che, nel giugno 2013, tramite il The Guardian e il The Washington Post, ha reso pubblici dettagli di alcuni programmi di sorveglianza di massa che prevedevano la raccolta massiva di dati, metadati, comunicazioni elettroniche e il loro contenuto, e la loro conservazione nel lungo periodo, anche di soggetti al di fuori delle rispettive giurisdizioni, e il potenziale scambio di tali dati tra i Paesi, implementati dall’agenzia statunitense National Security Agency (NSA) e dalla agenzia governativa britannica Government Communications Headquarters (GCHQ).

Il caso dinnanzi alla Corte di Strasburgo è la conseguenza dei ricorsi presentati alla Corte, tra il 2013 e il 2014, da svariate organizzazioni non-governative (ONG) e da individui coinvolti nel contesto della salvaguardia del diritto alla privacy, denunciando la violazione, da parte del GCHQ, – inter alia – dell’articolo 8 CEDU, che garantisce il diritto alla vita privata e familiare e la corrispondenza, compreso il diritto alla privacy e il più recente diritto ai dati personali.

Nel settembre 2018, la Camera della Corte di Strasburgo aveva analizzato in prima istanza la questione della compatibilità di tali programmi con la CEDU, dichiarando la violazione da parte del Regno Unito dell’articolo 8 a causa del mancato rispetto dei requisiti previsti dalla giurisprudenza CEDU in merito alla “prevedibilità della legge”, non risultando dunque la pratica della sorveglianza di massa “necessaria in una società democratica”.

In seconda istanza, la Grande Camera ha, nuovamente, e, tra l’altro, analizzato la congruenza della legislazione britannica e le (poche) garanzie previste dalla legge con il menzionato articolo 8 CEDU.

Nella sentenza in esame, la Grande Camera ha confermato la violazione dell’articolo 8 da parte del Governo inglese. Per questa ragione, la prima reazione di individui e ONG impegnate nella sensibilizzazione e protezione del diritto alla privacy è stata di entusiasmo: Privacy International ha definito il giudizio “una vittora importante per la privacy e per la libertà di ognuno”; Liberty l’ha descritto come “una sentenza storica”. Nonostante ciò, però, la sentenza dice molto di più rispetto alla conclusione fattuale a cui giunge, poichè – in sostanza – normalizza le pratiche di sorveglianza di massa in Europa, a discapito del diritto alla privacy dei cittadini.

La Corte, infatti, non accoglie l’argomento principale proposto dagli attivisti e ONG, ossia che la sorveglianza di massa non possa trovare spazio in Paesi in cui il diritto alla privacy dovrebbe essere ampiamente protetto. La Grande Camera, invece, ha ritenuto che le intercettazioni massive possano essere dei mezzi “validi” (§ 323) tramite i quali gli Stati sono in grado di identificare potenziali nuove minacce e così tutelare la sicurezza nazionale. La Corte, dunque, riconoscendo la sorveglianza di massa come rientrante nel margine di apprezzamento (e, quindi, di azione) di ciascuno Stato, elenca una serie di salvaguardie che ritiene essenziali per evitare che le autorità nazionali oltrepassino i criteri di necessità e proporzionalità richiesti dal diritto internazionale per derogare alla protezione dei diritti fondamentali. Nell’elaborare queste otto salvaguardie (e nell’innovarle rispetto alla sua giurisprudenza precedente), però, la Corte ammette anche la possibilità di compiere una valutazione globale e verificare se la legislazione contestata sia, nel suo insieme, compatibile con le garanzie della CEDU, nonostante una (o più) delle salvaguardie non sia stata rispettata.

Nell’analizzare, poi, la questione dello scambio di dati intercettati massivamente con servizi di intelligence stranieri, la Corte non ha escluso la possibilità di trasferire dati a servizi segreti di Paesi terzi in cui non vi è un livello essenzialmente equivalente di garanzie rispetto alla regione europea.

Riprendendo le parole del Giudice Pinto de Albuquerque, “questa sentenza altera fondamentalmente l’equilibrio esistente in Europa tra il diritto al rispetto della vita privata e gli interessi di pubblica sicurezza […]. Questa conclusione è tanto più giustificata se si considera il rifiuto perentorio della [Corte di Giustizia UE] circa l’accesso generalizzato al contenuto delle comunicazioni elettroniche, la sua manifesta riluttanza riguardo alla conservazione generale e indiscriminata dei dati e la sua limitazione degli scambi di dati con i servizi segreti stranieri che non assicurano [il menzionato livello di protezione]”, rimanendo così la Corte di Lussemurgo “il faro del diritto alla privacy in Europa.”. In sostanza e concludendo, Big Brother Watch e altri c. Regno Unito apre la via “per un “Grande Fratello” elettronico in Europa”, che di fatto diventa “la nuova normalità”.

StraLi è impegnata nella salvaguardia del diritto alla privacy di ogni individuo e nella battaglia contro le pratiche di sorveglianza di massa, per questo fa parte e contribuisce alla campagna Reclaim Your Face. Se vuoi contribuire anche tu, firma qui!

A cura di Serena Zanirato

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