CAPORALATO NAZIONALE

Ci siamo già occupati del caporalato 2.0 – qui per l’articolo di ottobre – fenomeno nuovo ma, tuttavia, non imprevedibile. Torniamo, invece, oggi, ad occuparci del caporalato “classico”, quello che colpisce, principalmente persone in difficoltà economica, in particolare le persone immigrate.

Non è una novità che vi siano individui sottoposti a condizioni lesive non solo (e non tanto) dei diritti legati al lavoro, quanto della loro dignità umana. Spesso scorrono, fra le notizie, casi di datori di lavoro che impongono orari estenuanti ai propri dipendenti, sottopagandoli e imponendogli condizioni alloggiative al limite dell’umano. È invece, forse, almeno una mezza novità che di certi luoghi di lavoro si parli in regioni come il Veneto o il Trentino. Anzi, l’immaginario collettivo, quando pensa al reato di caporalato, lo associa alle piantagioni del Sud, tendenzialmente a uomini di colore che raccolgono pomodori per pochi euro all’ora sotto al sole del meridione; non crede, invece, che le stesse condizioni si ripetano, quasi uguali, al Nord.

C’è la tendenza a credere che certe situazioni non possano ripetersi in regioni “avanzate” come quelle nordiche, che il caporalato sia stato (e rimanga) un problema meridionale, delle regioni più “retrograde” e non, invece, un veleno che affligge l’Italia tutta, da Nord a Sud, dalle imprese occupate nella produzione di prodotti per l’editoria alle piantagioni di pomodori.

A tal proposito, prima di entrare nel vivo dei racconti di vita quotidiana di chi è vittima di caporalato, appare giusto riportare, seppur brevemente, cosa s’intenda, a livello normativo, con il reato di caporalato.

Il codice penale non conosce un reato di caporalato, o meglio, lo conosce ma lo chiama “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro” al suo art. 603 bis c.p. Il reato è quindi inserito nel capo dei delitti contro la persona, al titolo XII del libro secondo del codice. L’art. 603 bis cp si apre con una clausola di residualità, per cui il reato di c.d. caporalato si applica solo laddove non sia applicabile un reato più grave, quindi, solo dove i fatti di volta in volta in considerazione non siano sussumibili in ipotesi più gravi. La norma punisce la condotta di chi assuma (o comunque in altro modo impieghi) manodopera sottoponendola a condizioni di sfruttamento ed approfittando dello stato di bisogno della stessa, nonché chi utilizza o comunque impiega manodopera in condizioni di sfruttamento e o il ricavare profitto dallo stato di bisogno anche tramite intermediazione altrui.

Il secondo comma dell’articolo, poi, elenca una serie di indici che sono idonei a costituire sfruttamento del lavoro e tra cui si rinviene la corresponsione di una retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali ovvero, comunque, sproporzionata rispetto alla qualità e alla quantità; la reiterata violazione della normativa in tema di orario di lavoro e periodi di riposto (anche settimanale e feriale); la violazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro e la sottoposizione a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianze e situazioni alloggiative degradanti.

Infine, l’ultimo comma della norma riporta alcune aggravanti, quindi delle circostanze che, se sussistenti, sono idonee a determinare un aggravamento della pena.

Il delitto di caporalato è quindi volto a punire l’imposizione di condizioni di lavoro e/o di alloggio che siano riconducibili ad uno sfruttamento eccessivo (e disumano) di chi lavora. L’art. 603 bis cp è da leggersi come una conquista di civiltà giuridica laddove riconosce e punisce il trattamento indegno che viene spesso riservato ai lavoratori.

Tuttavia, al di là di quanto viene previsto a livello normativo, spesso, le vittime di caporalato sono individui che, per le più disparate ragioni (paura di possibili ritorsioni, necessità di guadagnare anche solo quel poco che gli viene concesso), non sono propensi a denunciare i propri datori di lavoro. In tal senso, infatti, come anticipato, la maggior parte delle vittime di caporalato è costituita da persone immigrate. Individui che, ancora prima, sono vittime di un sistema socioculturale ancora troppo ostile all’accoglienza dello straniero, un sistema che tende a vedere, negli immigrati, più un problema da risolvere che delle vite da salvare.

Proprio alla luce delle difficoltà sofferte dalle vittime di caporalato è fondamentale creare una rete di sostegno quando chi è protagonista di determinate storie decide di iniziare a raccontare, anche solo cerca di condividere la propria storia.

A tal fine abbiamo quindi deciso di raccontare due storie (tanto simili quanto diverse) di caporalato, l’una avvenuta a Foggia e l’altra, tra il Veneto e il Trentino.

È d’inizio dicembre la notizia dell’apertura di un’indagine per caporalato a Foggia mentre dell’estate quella di una stessa indagine aperta tra il Trentino e il Veneto. Le vicende sono, per molti versi, simili, per altri, forse, distinte e distanti. Tuttavia, al di là delle differenze che si cercheranno, seppur superficialmente, di evidenziare nel proseguo del presente contributo, rimane un nucleo centrale d’indignazione e critica sociale che si ritiene accomuni la vicenda degli agricoltori foggiani e quella degli imprenditori nordici.

In questo senso, infatti, in entrambi i casi ci si trova di fronte a gruppi di persone (ci si scusa per non definirli lavoratori ma il lavoratore, per sua definizione, gode di una serie di tutele e garanzie che laddove sono completamente assenti non si ritiene si possa definire tale) sottoposte a orari di lavoro estenuanti, a una paga misera e a condizioni alloggiative al limite del sopportabile.

Nel primo caso, quello foggiano, avviene a Borgo Mezzanone, centro nevralgico del caporalato agricolo dove vi è una nota baraccopoli che “accoglie” più di duemila braccianti extracomunitari in condizioni igienico sanitarie precarie. Lì, i lavoratori (principalmente persone immigrate dal continente africano) venivano pagati 5 euro all’ora per raccogliere pomodori, olive, frutta: 5 euro per ogni cassa che riuscivano a riempire con il raccolto. L’orario di lavoro era semplice da capire e ricordare: lavoravano dalla mattina alla sera, viaggiando anche nei bagagliai delle macchine per arrivare sul luogo del lavoro.

Nel secondo caso, invece, i lavoratori, sempre accolti in abitazioni che accoglievano più di venti persone alla volta in condizioni igieniche e sanitarie tutt’altro che ammirevoli, venivano regolarmente assunti con contratti di lavoro part/full time ma si trovavano costretti, nonostante l’inserimento regolare, a lavorare per molte ore consecutive, senza la possibilità di alcuna pausa, senza ferie e con una retribuzione di pochi euro giornaliere. Ancora, quando a maggio alcuni lavoratori avevano portato delle dimostranze per le condizioni in cui venivano costretti, erano stati aggrediti da alcune squadre di picchiatori assunte dai gestori dell’organizzazione illecita che volevano riportare l’ordine fra i propri schiav… lavoratori.

Entrambe le vicende si pongono come esemplificative di come il problema dello sfruttamento del lavoro non sia (più) regionalmente orientato. Seppur, infatti, il caporalato c.d. agricolo è quello più tradizionale (ma non necessariamente il più comune), il caso avvenuto tra Veneto e Trentino è la dimostrazione come anche le industrie del Nord (meno propense all’agricoltura e più improntate a produzioni di tipo industriale) possano tendere a imporre condizioni lavorative irrispettose della dignità umana. Il caporalato “industriale” è, forse, solo più ben nascosto (vi erano, infatti, ordinari contratti di lavoro part o full time in essere tra datore di lavoro e vittime) ma, nella sostanza, rimane costruito sullo stesso impianto fattuale di quello agricolo: orari di lavoro estenuanti, retribuzione eccessivamente sproporzionata alla quantità, qualità del lavoro e condizioni di alloggio al limite del sopportabile.

I tre aspetti del caporalato che si sono, per ora, affrontati (partendo da quello della gig economy per arrivare al caporalato industriale, passando per quello agricolo) sono fenomeni da contrastare, avendo sempre in mente la tutela dei diritti fondamentali prima di quella della produzione o, peggio, del fatturato.

A cura di Carlotta Capizzi

SENTENZA STORICA: LA GERMANIA CONDANNA UN MEMBRO ISIS PER GENOCIDIO CONTRO GLI YAZIDI

Un membro del gruppo dello Stato Islamico (ISIS) è stato dichiarato colpevole di genocidio contro la minoranza religiosa degli yazidi in una sentenza storica dell’Alta Corte Regionale di Francoforte (Germania). È così che titolano le maggiori testate giornalistiche che si occupano di gravi violazioni di diritti umani.

Lo scorso 30 novembre, l’Alta Corte Regionale di Francoforte ha condannato all’ergastolo Taha al-Jumailly, 29 anni, iracheno e jihadista, per aver commesso il crimine internazionale di genocidio nei confronti della minoranza degli yazidi, oltre a crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Lo Stato Islamico, nella figura di al- Jumailly, è responsabile di aver assoggetato a schiavitù una bambina di 5 anni e sua madre a partire dal 2014 in Siria, essendo poi le due state vendute “svariate volte dal gruppo [ISIS]”, come riportato da più fonti. Taha al-Jumailly è stato condannato, specificatamente, per aver portato le due in Iraq, averle assoggettate a tortura e altri trattamenti inumani e degradanti e aver fatto morire disidrata la bambina nell’estate 2015 – avendola legata ad una finestra, come punizione, in una giornata in cui le temperature hanno raggiunto i 50 gradi.

Chi sono gli yazidi?

Gli yazidi rappresentano una minoranza religiosa, di lingua curda, per lo più concentrata tra Iraq e Siria (con ampie comunità anche in Germania, Svezia, Russia, Armenia e Georgia a causa dell’esodo migratorio dovuto alla persecuzione), che professa una religione monoteista le cui dottrine sono caratterizzate da esoterismo.

A partire dall’estate del 2014, l’ISIS ha lanciato un’offensiva contro la regione irachena dello Schingal, compiendo massacri di larga scala contro la popolazione civile, inclusi uccisioni di massa, tortura e riduzione in schiavitù. Secondo quanto riporta Amnesty International, più di 5.000 persone sono state uccise e più di 400.000 sono state sfollate dalle loro case. Ad oggi, oltre 2.800 donne e bambini yazidi sono ancora prigionieri dell’ISIS o risultano dispersi. Oltre all’attacco fisico e diretto contro tale minoranza, l’ISIS ha iniziato anche una vera e propria campagna d’odio, definendoli “infedeli” o “adoratori del demonio”.

Cosa significa questa sentenza e perchè è importante.

Secondo il diritto internazionale uno Stato ha giurisdizione penale, con possibilità quindi di iniziare un procedimento, nel caso in cui il reato sia stato perpetrato sul suo territorio ovvero la vittima o l’autore del reato è cittadino dello Stato in questione. Nonostante ciò, nel caso di crimini particolarmente seri, come lo sono i crimini internazionali, gli Stati possono decidere di applicare il principio di giurisdizione universale che permette loro , appunto, di iniziare un procedimento penale nei confronti di un soggetto non cittadino dello Stato di riferimento anche quando la vittima non è una cittadino del medesimo e il reato non è stato commesso sotto la sua giurisdizione (territoriale o meno). Questo è, di fatto, quello che è accaduto nel caso in questione: il processo svoltosi in Germania, rappresenta, infatti, uno dei pochi casi in cui tale principio è stato attutato nei confronti di un cittadino iracheno, membro del sedicente Stato Islamico, accusato di aver perpetrato reati in territorio iracheno nei confronti di una bambina irachena. È chiaro, dunque, come gli obblighi della Germania nel caso di specie fossero solo “morali”.

La Germania ha potuto iniziare tale procedimento non solo perchè la legislazione nazionale prevede la possibilità di applicare tale principio, ma anche perchè il suo codice penale contempla come reati anche i crimini contro l’umanità, i crimini di guerra e il genocidio. Secondo la normativa tedesca, genocidio è quel reato inquadrabile come “l’uccisione di una persona facente parte di un più ampio un gruppo, con l’intento di distruggere l’intero gruppo” – definizione che riprende gli elementi fondanti e i requisiti contenuti nella Convenzione contro il Genocidio (1948) e lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale (1998).

Il Team Investigativo delle Nazioni Unite che si occupa di crimini commessi dall’ISIS (UNITAD), il maggio scorso aveva pubblicato un rapporto in cui aveva già definito le violenze sistematiche perpetrate dall’ISIS nei confronti degli yazidi come “genocidio”. Dai dati raccolti, infatti, emerge che le atrocità a cui tale minoranza religiosa è stata sottomessa, inclusi stupri seriali e altre forme di violenza sessuale, fossero volte alla distruzione permanente della capacità delle donne di poter aver figli e costruire quindi famiglie all’interno della comunità degli yazidi. UNITAD ha anche sottolineato che tali atrocità e crimini vengono commessi ancora adesso. Nel 2016 anche la Commissione d’Inchiesta sulla Siria aveva etichettato le atrocità subite dagli yazidi come genocidio. Nel caso di specie, la Commissione d’Inchiesta aveva fatto riferimento alla Convenzione contro il Genocidio del 1948, stabilendo che l’ISIS abbia cercato di “distruggere gli yazidi in una molteplicità di modi”.

Nonostante il linguaggio e il riconoscimento delle Nazioni Unite, però, come affermato da Natia Navrouzov, Direttore dell’ufficio legale della ONG globale yazidi Yazda, “da avvocato so quanto sia difficile sostanziare le accuse di genocidio [….] [:] naturalmente sappiamo che l’ISIS ha perpetrato un genocidio contro gli yazidi. Ma in ogni processo, bisogna dimostrare che questa particolare persona aveva l’intenzione di commettere un genocidio contro gli yazidi.”. Ed è quello, però, che la Corte di Francoforte ha stabilito oltre ogni ragionevole dubbio, condannando all’ergastolo Taha al-Jumailly poichè “intendeva eliminare la minoranza religiosa degli yazidi acquistando le due donne yazidi e rendendole schiave”. Altri sopravvissuti, che hanno anche preso parte al processo in qualità di testimoni, hanno sottolineato dettagliatamente la “natura sistemica dello sterminio mirato degli yazidi”.

Questa sentenza è “il momento che gli yazidi aspettavano” da tempo, ha affermato Amal Clooney, parte del team legale che ha rappresentato la madre della bambina, non solo perchè per la prima volta vi è il riconoscimento che gli atti dello Stato Islamico contro la comunità degli yazidi equivalgono a genocidio, ma perchè questo rappresenta il primo passo per ottenere giustizia. “Sette anni dopo il genocidio, era ora di andare avanti nella lotta contro l’impunità per i crimini contro gli yazidi e portare giustizia alle vittime!” afferma una sopravvissuta yazida irachena, “Ma il verdetto può essere solo un inizio, ulteriori procedimenti devono seguire per portare alla luce la verità sui gravi crimini contro la mia comunità religiosa”.

È pur certo che quello che verrà dopo questa sentenza è ancora da scoprire. Nadia Murad, Premio Nobel per la Pace 2018 e yazidi sopravvissuta a schiavitù, però, ha già richiesto a gran voce al Consiglio di Sicurezza ONU di riferire la questione yazidi alla Corte Penale Internazionale o la creazione di un tribunale specifico per il genocidio commesso contro la comunità.

A cura di Serena Zanirato

L’ESTRADIZIONE DI JULIAN ASSANGE: QUALI SONO I RISCHI

Julian Assange potrebbe essere vicino all’estradizione: il 10 dicembre, gli Stati Uniti hanno presentato e vinto un ricorso in appello avverso la sentenza con cui l’Alta Corte di Londra, a gennaio, aveva negato la sua estradizione in territorio americano.

Assange è noto al grande pubblico per essere il fondatore di WikiLeaks, ONG senza scopo di lucro che riceve documenti riservati, di carattere governativo o aziendale, e li pubblica sul proprio sito web.

Cittadino australiano, è accusato negli Stati Uniti di aver illegalmente sottratto a siti governativi statunitensi migliaia di documenti, pubblicati poi proprio su WikiLeaks. I più famosi e rilevanti fra questi denunciavano gravi inadempienze e abusi commessi dalle truppe statunitensi, britanniche e irachene nelle guerre in Afghanistan e Iraq: sono stati diffusi materiali su torture, violazioni di diritti umani e uccisioni di civili. Successivamente, sul sito sono stati pubblicati anche documenti riguardanti l’operato della diplomazia statunitense e internazionale.

Nel 2019, Assange è stato incriminato per violazione dell’Espionage Act, la legge federale statunitense che punisce, fra le varie, la diffusione di materiale militare riservato. Sul suo capo pendono accuse pesantissime, per cui potrebbe essere condannato fino a 175 anni di carcere negli Stati Uniti. Era anche stato accusato di reati a sfondo sessuale da due donne, in Svezia, la quale a propria volta aveva chiesto l’estradizione: l’indagine è stata archiviata nel 2019 per insufficienza di prove e per difficoltà degli accertamenti ad anni di distanza dai fatti testimoniati.

A gennaio, la richiesta di estradizione era stata rifiutata a causa delle condizioni di salute di Assange, detenuto a seguito del suo arresto nel 2019: i motivi sono legati al fatto che lo stesso soffrirebbe di depressione e avrebbe tendenze suicide che potrebbero mettere in pericolo la sua vita, in caso di estradizione. Nel ricorso, gli Stati Uniti hanno offerto delle garanzie in tal senso, fra cui il diniego della prospettiva di isolamento o carcere duro nell’eventualità dell’estradizione e la possibilità, in caso di condanna, di scontare la pena in Australia.

Ci verrà del tempo prima di giungere a un verdetto definitivo circa l’estradizione di Julian Assange: il caso ora deve tornare a essere esaminato in primo grado dalla Corte di Westminster, tenendo conto della decisione dell’Alta Corte. I legali dell’imputato, poi, probabilmente presenteranno ricorso.

Fin dal suo inizio, questo caso è controverso e i problemi legati alle condizioni di detenzione di Assange sono solo i più urgenti e plateali. Chi da anni si schiera a difesa del fondatore di WikiLeaks afferma che la sua attività, comprese le azioni per cui è attualmente incriminato negli Stati Uniti, si collocano interamente nella sfera del giornalismo investigativo. I documenti classificati pubblicati da WikiLeaks sono stati utilizzati con questa finalità e anche solo processare Assange è considerato un attacco alla libertà di espressione e informazione.

Oltre a ciò, la sua detenzione a Belmarsh ha già compromesso fortemente la sua salute. Le gravi condizioni del giornalista e i rischi a cui è esposto tuttora, nel corso della sua detenzione preventiva nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, sono già state denunciate non solo da organizzazioni come Amnesty International, ma anche dall’inviato delle Nazioni Unite contro la tortura, Nils Melzer, nel 2020. In molti sostengono che il rischio che la sua salute peggiori in seguito all’estradizione negli Stati Uniti è concreto: l’appello presentato all’Alta Corte è stato aspramente criticato per la vaghezza delle rassicurazioni offerte, in un panorama come quello statunitense dove le violazioni dei diritti umani in carcere sono note.

Le condizioni di detenuti e detenute e la necessità di assicurare il rispetto dei loro diritti fondamentali sono battaglie che StraLi ha sempre portato avanti con forza. Per questo, mentre attendiamo che il caso venga riesaminato, ci uniamo al coro di associazioni che difendono la necessità di tutelare la salute psicofisica e i diritti umani di Julian Assange da ogni potenziale rischio. Ed è il diritto alla salute e alla vita, insieme a quello alla libertà d’espressione e di stampa, che ci auguriamo siano al centro della nuova sentenza.

A cura di Greta Temporin

ALLARME PFAS: ANCHE L’ONU SI MOBILITA

Qualche tempo fa (https://bit.ly/PFASalarm), vi avevamo parlato dei PFAS e del processo penale vicentino per disastro ambientale che vede coinvolta la Miteni S.P.A., azienda considerata dall’accusa la causa dell’inquinamento delle falde acquifere da sostanze perfluoroalchiliche in Veneto.

Quella che interessa le province di Vicenza, Verona e Padova è forse, per area geografica e numero di persone coinvolte, la contaminazione da Pfas più estesa del mondo e, peraltro, non riguarda unicamente l’acqua potabile. Infatti, dalle analisi dell’Istituto Superiore di Sanità – che nel 2017 aveva analizzato oltre 1.200 campioni di alimenti prelevati nella zona rossa (tra vegetali e prodotti di origine animale) – emerge che i prodotti maggiormente contaminati, tra quelli analizzati, sono le uova di gallina (fino a 37.600 nanogrammi in un chilo), seguite dal fegato di maiale (fino a 36.800 nanogrammi/chilo) e dalle carpe (fino a 18.600 nanogrammi/chilo).

I dati sono stati resi noti solo a settembre di quest’anno in conseguenza della battaglia legale contro la regione Veneto portata avanti da Greenpeace e dall’associazione Mamme NO PFAS, attraverso la quale sono riusciti ad ottenere un accesso a queste analisi ufficiali. Sulla base di questi dati è stato realizzato, da ricercatrici e ricercatori dell’Università di Firenze e dell’Università di Padova, con il contributo delle due associazioni sopra menzionate, lo studio “Sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) negli alimenti dell’area rossa del Veneto” (che potete trovare qua https://bit.ly/articoloricercaPFAS).

È giusto precisare che i dati richiesti non sono stati forniti in maniera completa ed esaustiva ma, nonostante ciò, lo studio conferma la contaminazione diffusa negli alimenti provenienti dall’area rossa e fa emergere inoltre che i prodotti di origine animale sono di gran lunga più contaminati rispetto a quelli vegetali: informazioni utili per continuare a studiare e a monitorare la questione.

È paradossale che ancora una volta siano Greenpeace e le Mamme NO PFAS a svolgere il ruolo che spetterebbe agli enti preposti, appellandosi agli scienziati per cercare di comprendere appieno come i PFAS si distribuiscano negli alimenti provenienti dai comuni dell’area rossa” hanno dichiarato Greenpeace e le Mamme NO PFAS in un’intervista. “D’altra parte, che cosa possiamo aspettarci dal governo di una Regione che a partire dal 2017, anno dell’ultimo monitoraggio, non è stato in grado di analizzare alcun nuovo campione e ha fatto dell’inerzia il suo mantra? Ci auguriamo che il nuovo monitoraggio, promesso di recente da alcuni funzionari regionali in seguito alle nostre denunce, tenga conto delle gravi criticità che interessano gli alimenti provenienti da tutta l’area attraversata dal fiume Fratta, e non solo dal tratto che ricade nella zona rossa”.

Proprio grazie alla continua attenzione e denuncia di queste associazioni, dal 30 novembre al 4 dicembre in Veneto è arrivata una missione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani per cercare di fare luce su queste sostanze tossiche e capire gli effetti di un tale disastro ambientale sulla popolazione.

Ma non solo. La finalità della missione è anche quella di assicurare che siano stati rispettati i diritti dei moltissimi cittadini che vivono in quest’area: in particolare il diritto alla vita, alla salute e ad un ambiente sano, il diritto all’informazione e il diritto ad ottenere un rimedio effettivo all’inquinamento provocato, presumibilmente, dalla Miteni (diritti sanciti nero su bianco da alcuni articoli della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo).

Qui (https://bit.ly/letteraONU) potete trovare la lettera di denuncia inviata all’ONU da Michela Piccoli di Mamme NO PFAS e Alberto Peruffo di PFAS.land , organo di informazione e azione dei gruppi-comitati-associazioni che vivono nelle terre contaminate da PFAS, che ha svolto una funzione cruciale nel portare l’attenzione delle Nazioni Unite sul caso.

Nella lettera, tra il resto, si accusano le istituzioni di scarsa trasparenza nei confronti dei cittadini che hanno il diritto di sapere cosa sta realmente accadendo sul loro territorio.

Infatti, come accennato, è stata necessaria una battaglia legale (ricorso al Tar) per ottenere dalla regione Veneto i dati relativi alla presenza di Pfas negli alimenti, come effetto dell’inquinamento causato dalla Miteni di Trissino.

Ma la poca chiarezza degli enti pubblici appare anche dalla più recente decisione della maggioranza del consiglio regionale di bocciare una mozione volta a diffondere un vademecum sanitario tra le popolazioni delle zone colpite; vademecum finalizzato proprio ad informare gli abitanti delle province di Vicenza, Padova e Verona sulla gravità dell’inquinamento della falda idrica da sostanze perfluoroalchiliche, con l’indicazione delle misure e delle precauzioni sanitarie da adottare, nonché degli esami diagnostici a cui sarebbe bene sottoporsi.

La bocciatura di questa richiesta è arrivata poco prima della missione ONU, sicuramente non un ottimo biglietto da visita da presentare a Marcos A. Orellana, rappresentante dell’Alto Commissariato dei Diritti Umani che è stato in Veneto la scorsa settimana.

Nel corso della sua visita ha incontrato diverse autorità ed enti locali, regionali e nazionali, ma anche i cittadini che vivono ogni giorno sulla propria pelle la sfida di abitare in un territorio che è teatro di uno dei più gravi casi di inquinamento a livello internazionale.

Per avere i primi riscontri legati a questa indagine attendiamo la conferenza stampa che si terrà a Roma il 13 dicembre, mentre per avere la relazione completa bisognerà aspettare il prossimo anno.

L’indagine è appena iniziata, ma visti i presupposti è possibile ipotizzare che in Veneto sia avvenuta una violazione dei diritti umani.

Nel frattempo, il processo che vede imputati i manager dell’azienda Miteni e delle controllanti Mitsubishi e Icig per avvelenamento delle acque e disastro ambientale avanza e si sta svolgendo l’istruttoria dibattimentale nel corso della quale verranno sentiti numerosi testimoni.

Non è certo il momento di abbassare lo sguardo ed è anzi fondamentale tenere alta l’attenzione sulla situazione veneta, sperando che l’intervento dell’ONU possa portare a livello internazionale la conoscenza di questo crimine ambientale e possa dimostrare che quanto accaduto abbia calpestato i diritti di moltissimi cittadini che attendono giustizia.

A cura di Laura Olivero

STRALI AND CIVIL SOCIETY ARE CALLING FOR THE PROTECTION AND RESPONSIBLE USE OF AI!

The proposed Artificial Intelligence Act (AIA) is a massive step forward in the protection and responsible use of AI in the EU. Considering that AI systems are increasingly being used in all areas of our day to day lives, it is of crucial importance that the AIA properly addresses the societal, economic and structural impacts of the use of AI. Moreover, it must ensure that the use of AI is future-proof and prioritises the protection of fundamental rights.

We must always remember that AI systems drastically intensify structural imbalances of power. This harm usually falls on those most vulnerable and marginalised in our society. It is for this very important reason that StraLI, along with various other civil society organisations, sets out a call by way of this civil society statement, towards an AIA that has the protection of fundamental rights at its core. Vital recommendations are outlined to guide the European Parliament and Council in amending the European Commission’s proposal.

StraLi and the other undersigned organisations call on EU institutions and EU member state governments to ensure that the future AIA realises the following 9 essential goals:

1. A consistent updating approach to the risks of AI systems as technology develops

2. Complete prohibitions on all AI systems that pose an unacceptable risk to fundamental rights

3. Obligations on the users of high-risk AI systems to simplify accountability to those impacted by AI systems

4. Consistent and meaningful public transparency

5. Significant rights and remedies for those impacted by AI systems

6. Accessibility throughout the AI life-cycle

7. Sustainability and environmental protections (especially with regards to the development of AI systems in a resource-friendly way!)

8. Improved and future-proof standards for AI systems

9. A genuinely comprehensive AIA that works for everyone, especially those most vulnerable and marginalised.

Read & share the full statement drafted by European Digital Rights (EDRi), Access Now, Panoptykon Foundation, epicenter.works, AlgorithmWatch, European Disability Forum (EDF), Bits of Freedom, Fair Trials, PICUM, and ANEC and signed by 114 fellow civil society organisation here: https://edri.org/wp-content/uploads/2021/11/Political-statement-on-AI-Act.pdf

And find more information about the AIA from our partner organisation here: https://edri.org/our-work/civil-society-calls-on-the-eu-to-put-fundamental-rights-first-in-the-ai-act/

A cura di Mignon van der Westhuizen

Dona ora e sostieni il cambiamento!

Forse non riusciremo a ognuno degli innumerevoli torti che si verificano ogni giorno in ogni angolo del pianeta, però vogliamo provare a lasciare un’impronta. Vogliamo farlo un caso strategico alla volta, un diritto alla volta. E lo facciamo attraverso ciò che ci riesce meglio: il contenzioso strategico, l’advocacy e la divulgazione!

In questo percorso, ogni piccolo contributo può fare la differenza.

Il tuo può diventare uno dei tanti, fondamentali tasselli che ci aiutano nel perseguire la nostra missione.

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