La nostra posizione sul conflitto israelo-palestinese

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Come associazione che si occupa, da sempre, di dare supporto e tutela legale a coloro che ne hanno più bisogno, sentiamo in dovere di esprimerci e schierarci con forza, ora più che mai, contro ogni violazione del diritto internazionale umanitario ed in difesa dei diritti di coloro che non hanno voce né potere per difenderli.

Se ogni violazione del diritto umanitario e dei diritti umani ci trova in ferma opposizione, riteniamo essenziale il riconoscimento dell’urgenza e del bisogno di tutela dei diritti della popolazione civile palestinese, ed il riconoscimento della piena responsabilità di tutti gli attori internazionali interessati. 

Nell’ urgenza immediata di garantire che i diritti umani del popolo palestinese ed il diritto internazionale umanitario siano rispettati, condividiamo la necessità di garantire un cessate il fuoco permanente e la cessazione di ogni violazione del diritto internazionale umanitario attualmente portata avanti da Israele. Riconosciamo inoltre il bisogno di garantire il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e l’interruzione dell’occupazione illegale dei territori palestinesi come fondamentali.

Contemporaneamente, come StraLi, riconosciamo l’urgenza e l’assoluta necessità di condannare inequivocabilmente, monitorare e prevenire ogni forma di islamofobia ed antisemitismo, così come la fondamentale necessità di garantire una piena libertà di espressione e manifestazione del pensiero. 

LA COMPLESSA VICENDA DEL “REATO DI TORTURA” IN ITALIA

Quale tutela per le vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine?

La Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura: un’occasione per riflettere

Il 26 giugno si celebra la Giornata internazionale delle Nazioni Unite a sostegno delle vittime di tortura, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU in occasione del 50° Anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Al suo art. 5, infatti, la Dichiarazione stabilisce che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Istituita con la risoluzione 52/149, la giornata nasce come un’opportunità per chiedere alla comunità internazionale, e in particolare agli Stati membri dell’ONU, di rafforzare la propria azione a tutela delle vittime di tortura. Ciò, in particolare, alla luce di quanto previsto dalla Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti adottata dall’ONU nel 1984 e ratificata ad oggi da 173 Stati – tra i quali l’Italia.

Ed è proprio per il nostro Paese che questa giornata rappresenta un’opportuna occasione di riflessione, soprattutto alla luce dei recenti episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine avvenuti a Milano e a Verona. Infatti, nonostante l’adozione della convenzione da parte del Governo– così come del suo Protocollo Opzionale dedicato alla prevenzione della tortura – la vicenda dell’istituzione e condanna del reato di tortura in Italia costituisce una questione piuttosto complessa. Nonostante la ratifica del trattato sia avvenuta già nel 1989, in effetti, il reato di tortura viene istituito in Italia solo nel 2017. Ciò, a seguito di un complesso iter parlamentare dove fu messa in luce l’inadeguatezza del sistema italiano a fronte dell’ordinamento internazionale in materia di divieto di tortura (previsto, tra l’altro, dalle Convenzioni di Ginevra, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dal Patto sui diritti civili e politici e dallo Statuto della Corte Penale Internazionale, tutti ratificati dal Governo italiano), nonché della condanna dell’Italia emessa nel 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito al caso Cestaro, attivista italiano picchiato a Genova durante il blitz della polizia alla scuola Diaz nel 2001. Sotto questi auspici, si arrivò così all’adozione della legge n. 110 del 2017, che introduce nel codice penale i reati di tortura e di istigazione alla tortura rispettivamente agli artt. 613-bis c.p. e 613-ter c.p. In particolare, l’art 613-bis c.p. prevede che “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

Approvate dopo lunghe negoziazioni e numerose modifiche del testo di legge, le disposizioni sono state giudicate da molte persone come insufficienti, seppur un miglioramento rispetto alla situazione precedente la loro adozione. All’indomani dell’adozione, infatti, tali articoli sono stati definiti da parte della politica un “compromesso al ribasso”, e giudicati inadeguati al proprio scopo da molte associazioni attive nella tutela dei diritti umani. In particolare, fu evidenziato come l’art. 613-bis c.p. sarebbe stato difficilmente applicabile dai tribunali italiani, in quanto esso circoscrive il reato di tortura alla presenza di una serie di circostanze specifiche che non rappresentano, di per loro, un’esaustiva rappresentazione del fenomeno così come esso è inteso a livello mondiale.

I limiti dell’art. 613-bis c.p. e l’inadeguatezza del sistema penale italiano in materia di tortura alla luce del diritto internazionale

Ratificata dal Governo italiano con la legge n. 498 del 1988, la Convenzione ONU contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti nasce come strumento per contrastare gli atti di violenza e tortura commessi nei confronti di individui privati della libertà personale da parte di chi è titolare di una funzione pubblica. Così recita infatti l’art. 1 della Convenzione[1], che definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali” al fine di ottenere da essa informazioni o confessioni, di punirla o intimorirla. In particolare, l’art. 1 prevede che tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Ai sensi della convenzione, quindi, la tortura consiste in un reato commesso da un pubblico ufficiale, che si manifesta nell’abuso di potere ossia, precisamente, in un esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima. Ed è proprio per contrastare questo fenomeno che, agli artt. 2 e seguenti, il trattato stabilisce una serie di obblighi in capo ai suoi Stati Parte, i quali si impegnano ad adottare adeguate misure per impedire che tali atti di tortura vengano commessi nel proprio territorio. In particolare, la Convenzione obbliga gli Stati a adottare provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari per tutelare e vigilare sul rispetto della dignità umana degli individui privati della libertà personale, stabilendo come l’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non possa in nessun modo essere invocato a giustificazione della tortura (art. 2). Allo stesso modo, gli Stati sono tenuti a garantire un’adeguata formazione degli agenti della funzione pubblica in materia di divieto di tortura (art. 10), e a esercitare una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio nonché sulle disposizioni relative alla custodia della tutela delle persone arrestate, detenute o imprigionate (art. 11).

Quanto al risarcimento delle vittime di tali atti, l’art. 14 stabilisce che ogni Stato deve garantire, nel suo ordinamento giuridico, il diritto ad ottenere riparazione ed essere risarcito equamente ed in maniera adeguata, “inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile”.

Proprio per vigilare sull’adempimento di tali obblighi (si ricordi, infatti, che il trattato costituisce una fonte vincolante per il nostro ordinamento), la convenzione istituisce, all’art. 17 e seguenti, un apposito Comitato contro la tortura (Committee against Torture, “CAT”), al quale gli Stati Parte sono tenuti a presentare periodicamente delle relazioni sulle misure da loro adottate per contrastare la tortura nel proprio territorio. Alla luce di tali relazioni, il Comitato valuta la corretta applicazione del trattato da parte degli Stati membri, prendendo eventuali provvedimenti specifici.

Ed è proprio nel Report CAT/C/ITA/CO/5-6 (“CAT Report”) elaborato nel 2017 dal Comitato per valutare le relazioni presentate dall’Italia che il CAT evidenzia come il sistema penale italiano sia, nonostante la formale adesione del nostro paese a tutti gli strumenti internazionali adottati dalle Nazioni Unite a tutela dei diritti umani, sostanzialmente inadeguato a garantire un’effettiva e adeguata protezione alle vittime di tortura presenti sul proprio territorio.

Come riportato al paragrafo 10 del CAT Report, tale inadeguatezza deriverebbe proprio dall’errata definizione e criminalizzazione del reato di tortura effettuata nel nostro paese. Secondo il Comitato, infatti, il dettato dell’art. 613-bis c.p. è incompleto. Oltre a circoscrivere la fattispecie alla presenza di circostanze specifiche non previste dalla Convenzione (il reato deve essere stata compiuta con crudeltà, mediante più condotte, e deve provocare un verificabile trauma psichico), esso configura il reato di tortura come un reato comune, ossia un reato imputabile a chiunque, e non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece stabilito dalle Nazioni Unite. Per queste ragioni, il CAT critica aspramente la normativa italiana, definendola “significantly narrower than the definition contained in the Convention” (CAT Report, para. 10, enfasi aggiunta), e invitando l’Italia a modificare quanto prima il proprio codice penale così da garantire alle vittime di tortura adeguato riconoscimento – e conseguente tutela.

Oltre a ciò, il CAT Report mette in luce una serie di altri limiti riscontrati nell’ordinamento italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, derivanti anche dall’ambigua definizione della fattispecie ex artt. 613-bis e 613-ter c.p. In particolare, il Comitato evidenzia la poca trasparenza del Governo italiano sul rispetto dei provvedimenti emessi dall’Autorità italiana garante per i detenuti (para. 14), la continua violazione da parte dello Stato di alcune libertà fondamentali in materia di giusto processo (para. 18), l’inadeguatezza delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane (para. 32), nonché l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine (para. 38). Su questo ultimo aspetto, poi, il Comitato si sofferma particolarmente. Il CAT richiede infatti al Governo italiano di garantire adeguati meccanismi di condanna per chi si rende responsabile di tali atti. Questo, precisamente, adottando misure che permettano di identificare le forze dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche, così da garantire efficaci ed imparziali indagini sulla loro condotta.

Un approccio ancor più critico nei confronti del nostro ordinamento è stato adottato, più recentemente, dal Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani o Degradanti del Consiglio d’Europa (European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment o “CPT”). In seguito alla sua visita periodica nel nostro Paese avvenuta nel marzo/aprile 2022, il CPT ha infatti pubblicato il Report CPT/Inf (2023) 5 dedicato alla valutazione del sistema italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, per valutarne l’impatto anche a seguito della pandemia da Covid 19. Anche in questo caso, l’Italia è stata severamente criticata dal Comitato, che si esprime con grande preoccupazione in merito agli abusi subiti dagli individui privati della libertà personale da parte delle nostre forze dell’ordine. Nella sezione A.2 del documento, infatti, si legge come il CPT abbia ricevuto, durante la sua visita, innumerevoli segnalazioni di violenze subite da arrestati e detenuti da parte di pubblici ufficiali, e in particolare di agenti della Polizia di Stato e dei Carabinieri. In particolare, il Report si concentra ai paragrafi 12.i/.ii e 16 sui casi di Milano e Torino, teatro nel biennio 2021/2022 di una lunga serie di violazioni (in particolare, abuso di autorità e lesioni ex artt. 608 e 582 c.p.) perpetrate a danno di persone arrestate e detenute da parte di Polizia e Carabinieri. Violazioni che, stando al Comitato, non avrebbero trovato giustizia nelle aule dei tribunali italiani. Per questo, il CPT insiste affinché l’Italia garantisca un’adeguata formazione dei suoi pubblici ufficiali, che dovrebbero essere istruiti ad utilizzare la forza solo e soltanto se strettamente necessario, e in ogni caso mai in maniera eccessiva. Oltre a ciò, il CPT ricorda al Governo italiano la necessità urgente di garantire adeguati ed efficaci meccanismi di identificazione delle forze dell’ordine, quali codici identificativi alfanumerici ben visibili sulle uniformi degli agenti e body cam – ciò, a tutela sia degli agenti che delle vittime. Infine, il CPT richiama l’Italia al rispetto di quanto previso dall’art. 6 CEDU, il quale sancisce una serie di libertà fondamentali riconducibili al “diritto umano al giusto processo”. Tutto questo insistendo su come, ad oggi, in Italia si verifichino troppe situazioni in cui individui privati della libertà personale sono sottoposti ad abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine il cui comportamento, oltre che “unlawful” e “unprofessional” (para. 14), consisterebbe in una vera e propria violazione del divieto di tortura sancito dal diritto internazionale, da prevenire e condannare con gli adeguati mezzi.

Una questione irrisolta: quale tutela per le vittime di abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia?

Alla luce di tutto ciò, si capisce perché la questione relativa alla tutela degli individui vittime di violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia rappresenti, ad oggi, una questione quantomai delicata.

Spesso al centro del dibattito politico, infatti, la questione si è manifestata in tutta la sua problematicità nel 2001 a seguito dei drammatici fatti della Diaz, che hanno acceso i riflettori della comunità internazionale sul caso italiano, e costituisce ancora oggi uno degli aspetti più critici del nostro ordinamento. Oltre a porre in essere una serie di problemi di legittimità costituzionale, infatti, l’inadeguatezza della protezione garantita dallo Stato italiano alle vittime di soprusi da parte dei pubblici ufficiali rappresenta ad oggi un manifesto caso di violazione da parte dell’Italia del diritto internazionale, e in particolare del vasto arsenale di strumenti dedicati alla tutela dei diritti fondamentali e della dignità umana adottati dalle Nazioni Unite e dal Consiglio Europeo – tutti sottoscritti dal nostro Paese.

Per questo, è importante che esistano giornate come oggi che, pur di valore simbolico, rappresentano occasioni importanti per riflettere sul punto. Il 26 giugno ci ricorda come sia più che mai urgente tutelare il reato di tortura nel nostro Paese, anzi rafforzarlo. Ciò, a maggior ragione, alla luce dei recenti drammatici fatti di Milano e Verona, nonché a fronte della proposta dell’attuale Governo non di integrare, bensì di abrogare gli artt. 613-bis e 613-ter c.p.. Se questo provvedimento fosse approvato, infatti, il reato di tortura di cui al nostro codice penale, invece di adeguarsi al diritto internazionale, finirebbe addirittura per sparire dal nostro ordinamento, lasciando agli organi giudicanti la sola possibilità di applicare le aggravanti generiche di cui all’art. 61 c.p.[2], di fronte ad abusi commessi da pubblico ufficiale. Quanto alle ragioni invocate dagli esponenti di Fratelli d’Italia firmatari della proposta, infatti, tali disposizioni priverebbero le forze dell’ordine “dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell’iniziativa delle Forze dell’ordine” (fonte: ANSA). Ed è con questa affermazione, che ci sembra piuttosto sconcertante alla luce del quadro internazionale delineato ai paragrafi precedenti, che vi lasciamo.

Costanza Rizzetto per StraLi

[1] “1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.” Art. 1, para. 1, Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti.

[2] “Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: […] 9) l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, […]” Art. 61, codice penale

LA SALUTE MENTALE DI CHI STA DENTRO E’ UN PROBLEMA DI CHI STA FUORI

StraLi richiede al Governo italiano l’attuazione della decisione Sy v. Italia

1. INTRODUZIONE

Le liste di attesa per le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (“REMS”) sono una bruttissima faccenda (ve ne avevamo già parlato qui). L’Italia ne sa qualcosa: a gennaio 2022, infatti, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“Corte”) nel caso Sy c. Italia (Application n. 11971/20-Judgement of 24 January 2022). La motivazione della condanna? Aver violato i diritti del sig. Sy, detenuto, nonostante la sua grave patologia psichiatrica, in attesa della disponibilità di un posto in una REMS. La Corte Europea ha riscontrato le seguenti violazioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”): divieto di trattamenti inumani o degradanti (articolo 3), diritto alla libertà e alla sicurezza (articolo 5, paragrafi 1 e 5, incluso il diritto alla riparazione in seguito ad ingiusta detenzione), diritto a un processo equo (articolo 6, paragrafo 1) e diritto ad un ricorso individuale (articolo 34).

StraLi, in questo contesto, ha presentato al “Department for the Execution of Judgments” della Corte una Comunicazione ai sensi dell’articolo 46 della CEDU e dell’articolo 9.2 del Regolamento del Comitato dei Ministri.

2. L’INTERVENTO EX ART. 9.2

In seguito ad una sentenza definitiva di condanna della Corte, infatti, gli Stati membri hanno un duplice obbligo:

  1. Livello individuale: ripristinare, per quanto possibile, la situazione esistente prima della violazione, ponendo rimedio al danno subito dalle parti lese (c.d. restitutio in integrum). Tendenzialmente il rimedio ordinato dalla Corte è un risarcimento pecuniario, anche se la Corte ha a disposizione altri strumenti (ad es. il rilascio di un persona detenuta);
  2. Livello generale: prevenire violazioni simili in futuro. Ciò può essere ottenuto tramite la modifica della disciplina legislativa attuabile, per esempio.

Cosa fa uno Stato per adempiere a questi obblighi?

Entro sei mesi dalla sentenza dovrà spiegare al Comitato dei Ministri – composto, formalmente, dai Ministri degli Affari Esteri dei 46 Stati membri – come intende fornire giustizia alle vittime della violazione e, allo stesso tempo, assicurarsi che lo stesso problema non si ripeta. Questo viene fatto, di norma, con la trasmissione del c.d. “Action Plan”.

3.1. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(1) L’INCREMENTO DEI POSTI IN REMS

Anche l’Italia, quindi, ha inviato il proprio Action Plan (anzi, due) in relazione al caso Sy (congiuntamente al caso Citraro e Molino v. Italy, di cui però oggi non ci occuperemo). E qui viene in gioco il ruolo di StraLi: siamo intervenuti per contestare gli Action Plan del Governo italiano in relazione al caso Sy. E lo abbiamo fatto non una, ma due volte (prima comunicazione, 9 marzo 2023; seconda comunicazione, 9 maggio 2023). NB: non è la prima volta che StraLi prende iniziative di questo tipo: avevamo preso posizione anche nella vicenda Di Sarno and others v. Italy e nel caso ILVA.

Nel primo Action Plan del 26 gennaio 2023 il Governo italiano riportava di prestare “grande attenzione” alla questione “al fine di prevenire eventi simili” e che erano stati compiuti “passi importanti in questa direzione” (Action Plan 1, p. 2). Tali “passi” hanno portato al finanziamento straordinario a favore della Regione Liguria per il triennio 2022-2024 (D.L. 17/2022) e all’apertura di una nuova struttura REMS a Grifalco (Calabria) con 20 posti letto disponibili.

Come evidenziato nella nostra prima comunicazione del 9 marzo 2023, la creazione di nuove strutture REMS in un solo luogo ed esclusivamente allo scopo di “tamponare” la mancanza di posti disponibili ha gravi conseguenze sull’efficacia dei trattamenti terapeutici e sulle prospettive di risocializzazione degli individui. L’assegnazione di fondi per un periodo fisso di tre anni esclusivamente a una Regione, in cui vengono creati posti letto aggiuntivi e vengono ammessi pazienti da altre regioni (solo per dare loro una sistemazione temporanea), è contraria al principio di territorialità delle cure. La finalità di cura, infatti, si basa necessariamente sull’idea di reintegrare l’individuo nel “tessuto sociale” che è stato “rotto” dal suo comportamento antisociale. Le persone in cura, sradicate dal loro contesto, sono impossibilitate a stabilire un contatto reale con i centri di salute mentale locali, che sono quelli che dovrebbero prenderle in carico ed elaborare un programma terapeutico. Non possono essere visitate dal personale psichiatrico che si è occupato del loro caso fino a quel momento, né dalle persone a loro care.

Per questo motivo abbiamo chiesto al Governo di creare nuovi posti nelle REMS rispettando il principio della territorialità e assegnare risorse per rispettare il principio di individualizzazione del trattamento, assicurando inoltre che siano assegnate risorse sufficienti ai dipartimenti regionali di salute mentale incaricati di elaborare i Piani Terapeutici Riabilitativi Individuali e per gli altri servizi psichiatrici del territorio. Ciò al fine di ridurre il numero di persone che necessitino, in futuro, di un posto in REMS e quindi il rischio che simili violazioni si ripetano.

3.2. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(2) IL DAP E LE ARTICOLAZIONI PER LA SALUTE MENTALE

All’interno dei suoi Action Plan, il Governo ha sottolineato più volte che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (“DAP”) “continua a prestare la massima attenzione per garantire che ricevano la migliore assistenza disponibile” (Action Plan 1, p. 7).

In realtà, la legge di bilancio approvata nel dicembre 2022 ha previsto una drastica riduzione del budget di spesa del DAP di circa 36 milioni di euro nel triennio 2023-2025 (Art. 1, para. 878, l. 29 dicembre 2022, n. 197). Tale elemento, di per sé, appare in palese conflitto con l’affermazione del governo.

Anche la situazione “sul campo” indica il contrario rispetto alle dichiarazioni di impegno del Governo. Le carceri rivelano tutta la loro inadeguatezza nel gestire il disagio psicologico e psichiatrico dei soggetti reclusi. Le continue lamentele degli agenti penitenziari denunciano una situazione intollerabile che non può più essere affrontata. Di recente il Presidente del Sindacato della Polizia Penitenziaria ha affermato

In questo caos gli agenti della polizia penitenziaria sono chiamati, oltre a vigilare, anche a fare da ‘infermieri’ ai malati (pur non avendone le competenze) e a salvare concretamente la vita delle persone che tentano gesti inconsulti verso se stessi o verso gli altri. Senza contare le innumerevoli volte che gli agenti vengono aggrediti fisicamente da soggetti problematici. E’ evidente che non è possibile andare avanti in questo modo.

Inoltre, nel secondo Action Plan del 3 aprile 2023, il Governo presenta i dipartimenti dedicati alla salute mentale presenti all’interno dei centri di detenzione (le cosiddette “Articolazioni per la tutela della salute mentale” – “ATSM”) quale esempio della “migliore assistenza disponibile” per le persone detenute in attesa di trasferimento in una REMS (Action Plan 2, p. 15).

Questo approccio è molto problematico perché solo poche carceri hanno questi reparti psichiatrici, e, quando esistono, hanno una pessima reputazione.

Le ATSM vivono in assenza di un regolamento unitario che definisca come questi reparti debbano essere organizzati spazialmente (arredi, letti, bagni) o che stabilisca i livelli essenziali di assistenza a cui devono attenersi (si veda la ricerca della Società della Ragione qui, p. 18). In un caso particolare (il reparto “Sestante” del carcere di Torino) il reparto ATSM è stato addirittura chiuso a causa delle sue condizioni disumane ed è in corso un’indagine penale in merito (cfr. il rapporto di Antigone del 2022). In una dichiarazione del 6 febbraio 2023, un rappresentante dei sindacati della Polizia Penitenziaria ha definito l’ATSM del carcere di Marino del Tronto come “un reparto palesemente non a norma sia dal punto di vista strutturale che sanitario”. Da ultimo, il Comitato Anti-Tortura del Consiglio d’Europa nel rapporto del marzo 2023 sull’Italia ha rilevato la totale inadeguatezza delle celle delle ATSM nelle carceri di San Vittore, Torino Lorusso e Cutugno e Regina Coeli.

Ne consegue che le ATSM rappresentano di fatto la peggiore assistenza disponibile per un individuo che, in carcere, non dovrebbe nemmeno passarci un secondo.

3.3. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(3) L’ASSENZA DI UN RIMEDIO SPECIFICO

Tutto tace.

Il Governo non ha affrontato il rilievo della Corte in merito alla constatazione che l’azione civile per il risarcimento dei danni subito dalla violazione della libertà personale, prevista dall’ordinamento italiano (ex art. 2043 codice civile) non rappresenta un rimedio efficace per ottenere riparazione per le violazioni dei paragrafi 1 e 4 dell’articolo 5 della CEDU.

In sede di giudizio dinanzi alla Corte il Governo italiano, infatti, non ha fornito alcun esempio che dimostrasse che, in casi simili a quello di Sy, tale azione era stata intentata. Tantomeno ha affrontato il tema nei suoi Action Plan.

E noi abbiamo chiesto al Comitato dei Ministri di ordinare alle autorità italiane di adottare per legge uno specifico rimedio compensativo volto ad ottenere il risarcimento per i periodi di detenzione subiti in attesa del trasferimento in una REMS.

Come vedremo fra poco, il Comitato ci ha ascoltato.

4.1. LA DECISIONE DEL COMITATO DEI MINISTRI:

(1) MISURE INDIVIDUALI

Il Comitato dei Ministri si è riunito dal 5 al 7 giugno 2023. Innanzitutto, non ha dichiarato il caso chiuso: questo significa che vi è ancora necessità di supervisione da parte della Corte sull’Italia.

Il sig. Sy, nel frattempo, è tornato in carcere dal luglio 2022 (cfr. comunicazione del Governo italiano del 3 maggio 2023). Per quanto riguarda la situazione individuale di Sy, Il Comitato ha richiesto (para. 2):

  1. che venga effettuata una nuova valutazione sulla compatibilità del suo stato di salute con lo stato di detenzione;
  2. che questa valutazione venga poi ripetuta regolarmente e
  3. che il Comitato venga informato sull’esito di (1) e (2).

4.2. LA DECISIONE DEL COMITATO DEI MINISTRI:

(2) MISURE GENERALI

Come evidenziato sopra, nella nostra seconda comunicazione del 9 maggio 2023, abbiamo identificato come l’aumento del numero di posti letto nelle strutture REMS sembri essere l’unica misura concreta indicata dal Governo nel Piano d’Azione. In particolare, abbiamo richiesto al Comitato di far sì che lo Stato italiano garantisca, da un lato, che vengano assegnate risorse sufficienti ai dipartimenti regionali di salute mentale incaricati di sviluppare i Piani Terapeutici Riabilitativi Individuali e di altri servizi psichiatrici sul territorio italiano, al fine di diminuire il numero complessivo di persone che necessitano di posti in una REMS (riducendo così i rischi di ripetizione di simili violazioni); e, dall’altro, un aumento della capacità e della qualità del trattamento nelle REMS.

Le richieste di StraLi in tal senso sono state accolte dal Comitato dei Ministri.

Nelle note all’ordine del giorno questi hanno osservato che, nonostante il numero delle persone detenute in attesa di trasferimento in REMS sia calato da 90 ad aprile 2020 a 49 nel febbraio 2023,

  • la rete delle REMS non è stata ampliata in modo significativo dall’epoca dei fatti (29 nel 2020 e 30 nel 2023);
  • il tempo medio di attesa per il collocamento in queste strutture a seguito di una decisione giudiziaria è rimasto (nel luglio 2021) estremamente elevato, (intorno ai dieci mesi);
  • pur prendendo atto della creazione di una nuova REMS nella regione Calabria, non è chiaro se ciò sia bastato a garantire la rapida esecuzione delle relative decisioni giudiziarie in questa regione e se siano state adottate o previste misure analoghe per le altre quattro regioni che, insieme alla Calabria, rappresentano oltre i due terzi del totale delle persone detenute in attesa di ammissione nelle REMS (Lazio, Campania, Sicilia e Puglia).

Di conseguenza, il Comitato ha richiesto allo Stato italiano:

1. di impegnarsi a garantire una adeguata capacità delle REMS, anche assicurando adeguate risorse umane e finanziarie, in particolare nelle regioni in cui la situazione appare più critica (para. 4).

Purtroppo, nulla viene detto in relazione alla realtà delle ATSM e della loro inadeguatezza ad accogliere i soggetti detenuti in attesa di essere trasferiti in una REMS.

Il Comitato, inoltre, ha indicato al Governo:

2. di fornire una valutazione sulla necessità di misure aggiuntive per far sì che, quando la Corte ordini che un soggetto debba essere trasferito in una REMS (ex art. 39 del regolamento della Corte), ciò avvenga senza indugio (para. 5)

3. di fornire informazioni sulle misure adottate per far sì che un soggetto abbia effettivamente diritto a una riparazione ex art. 5.5. della CEDU (para. 6).

5. CONCLUSIONI

Le autorità italiane devono adottare misure adeguate e sufficienti per garantire che la capacità ricettiva delle REMS soddisfi la domanda di accesso alle stesse, consentendo così la tempestiva attuazione delle decisioni giudiziarie che ordinano il trasferimento dei detenuti in tali strutture.

Tale decisione del Comitato dei Ministri non ci coglie di sorpresa.

L’anno scorso, la Corte Costituzionale italiana ha stabilito che l’applicazione concreta della normativa vigente sulle REMS alle persone autrici di reato con disturbi mentali è in contrasto con la Costituzione italiana. La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate, dal momento che il loro accoglimento, cioè l’abbattimento di una parte sostanziale della disciplina giuridica delle REMS, avrebbe creato vuoti intollerabili. La Corte ha quindi formulato un forte monito alle autorità legislative italiane affinché provvedano a una riforma complessiva del sistema.

Purtroppo, è passato più di un anno senza alcun segno di attività legislativa in materia.

L’esecuzione del caso Sy rimane ancora sotto la supervisione della Corte, che rivedrà le misure adottate dal Governo italiano in una delle sue prossime sedute.

Noi, nel frattempo, rimaniamo vigili. Perché la salute mentale di chi sta dentro è un problema di chi sta fuori. E noi non mancheremo di ricordarlo.

A cura di Alice Giannini

IL CASO JJ4 E LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA ESSERE UMANO E NATURA

Quale futuro per le specie a rischio di estinzione?

Il caso JJ4: la vicenda giudiziaria

Il 26 maggio il Tar di Trento, con ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, ha accolto la domanda cautelare proposta da diverse associazioni animaliste (tra le quali LAV, ENPA e OIPA) di sospensione provvisoria del provvedimento di abbattimento degli orsi JJ4 e MJ5 fino al 27 giugno.

Entro quella data, il Tar ha stabilito che le associazioni coinvolte e il Ministero dell’Ambiente devono presentare un progetto di trasferimento come alternativa all’abbattimento. Al momento, le ipotesi più probabili riguardano lo spostamento degli animali in un santuario in Germania, in Romania o in Giordania. I fatti sono ormai noti a chiunque: il 5 aprile scorso il runner 26enne Andrea Papi è stato ferito a morte dall’orsa JJ4 nei boschi sopra Caldes, comune della Val di Sole (provincia di Trento). Confermata l’aggressione dell’orso dall’autopsia, il Presidente della provincia autonoma di Trento ordina l’abbattimento dell’animale incriminato, insieme a quello di un altro orso, MJ5, definito anch’esso ‘problematico’. Alla base di tale decisione, l’applicazione delle misure previste dal PACOBACE (documento recepito da tutte le Amministrazioni territoriali delle Alpi centro Orientali, dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA e rappresentativo della formale politica dello stato italiano in materia di conservazione e gestione dell’Orso nelle Alpi), in materia di abbattimento di animali considerati ‘pericolosi’. Accogliendo il ricorso di LAV, ENPA, LEIDA e OIPA, il Tar di Trento sospende i provvedimenti di abbattimento degli animali, dando così inizio ad una vicenda giudiziaria che si concluderà, come stabilito dal Tar nell’ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, con l’udienza di merito fissata per il 14 dicembre.

Tra le contestazioni del Tar al provvedimento d’uccisione figurano la mancata adozione da parte dell’amministrazione locale di una serie di provvedimenti funzionali alla conservazione gestione della fauna alpina minacciata dall’estinzione – previsti anch’essi dal piano PACOBACE – da applicare in via preventiva per garantire un’adeguata e sicura convivenza tra essere umano e animale, scongiurando il rischio di incidenti – nonché i conseguenti provvedimenti di abbattimento, misure eccezionali da adottare in ultima istanza.

In particolare, il Tar fa presente l’inadeguatezza delle attuali condizioni del centro faunistico del Casteller, così come il mancato funzionamento del monitoraggio telematico (‘radiocollare’), necessariamente da applicare per garantire un effettivo controllo delle zone interessate dalla conservazione della fauna a rischio. Questo è il caso, infatti, della Provincia di Trento, che dal 1996 ospita un progetto di ripopolamento dell’orso bruno nel Brenta denominato ‘Life Ursus’, finanziato nel 1999 dall’Unione Europea e finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali.

Il caso JJ4: una prospettiva internazionale

Da settimane al centro della cronaca e del dibattito politico, ci sembra che la vicenda si presti ad una serie di riflessioni di ben più ampio respiro relative, in particolare, ai risvolti della questione sotto il profilo del diritto internazionale.

Inclusa nell’agenda delle Nazioni Unite per la tutela dell’ambiente sin dagli anni Novanta, la necessità di stabilire una buona convivenza tra essere umano e natura, salvaguardando la biodiversità, è al centro della Convenzione sulla diversità biologica sottoscritta nel 1992 e ratificata ad oggi da 196 Stati (tra i quali l’Italia, con la Legge n. 124 del 1994.

Ribadendo la necessità di tutelare la diversità biologica in nome della sua importanza ai fini dell’evoluzione e del mantenimento della vita nella biosfera, il trattato richiama la responsabilità degli Stati Parte della conservazione degli ecosistemi e degli habitat naturali presenti sul proprio territorio. Questo, soprattutto, “ricostituendo le popolazioni di specie vitali nei loro ambienti naturali”, impedendone il depauperamento provocato dalle attività umane.

Per raggiungere tale obiettivo, la Convenzione sulla diversità biologica stabilisce una serie di misure necessariamente da implementare sul territorio degli Stati, che sono tenuti a sviluppare strategie, piani o programmi nazionali per la conservazione della biodiversità. In particolare, il trattato chiede che le parti contraenti istituiscano sistemi di zone protette o zone di misure speciali per conservare la diversità biologica (art. 8, lett. a), promuova la protezione degli ecosistemi, degli habitat naturali e delle specie che li abitano (art. 8 lett. d) facendo “ogni sforzo affinché si instaurino le condizioni necessarie per assicurare la compatibilità” tra la le attività umane e la biodiversità, che non deve essere in nessun modo sacrificata in nome della sua importanza per l’intera umanità.

Costituendo a tutti gli effetti degli obblighi di natura internazionale, le disposizioni del trattato acquistano ancor più rilievo se le si inserisce nel contesto del piano d’azione stabilito dalle Nazioni Unite per la tutela dello sviluppo sostenibile e dei diritti delle generazioni future, anch’esso a cuore all’organizzazione dalla fine degli anni Ottanta e ufficialmente “consacrato” nel 2015 con l’adozione, da parte dell’Assemblea Generale, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (“Agenda 2030”).

Richiamando l’obiettivo comune di “un mondo in cui l’umanità vive in armonia con la natura e in cui la fauna selvatica e le altre specie viventi sono protette” (preambolo, para. 8) e riconoscendo la necessità di uno sviluppo economico e sociale che garantisca la conservazione di biodiversità, ecosistemi e fauna selvatica (preambolo, para. 33), l’Agenda 2030 si sofferma sull’importanza di proteggere le specie marine e terrestri in particolare agli Obiettivi 14 e 15, dedicati rispettivamente alla conservazione degli ecosistemi marini e terrestri. Allo stesso modo, l’importanza di garantire agli animali adeguate condizioni di vita è richiamata dall’Obiettivo 3 (dedicato alla tutela del benessere collettivo), dall’Obiettivo 11 (per città ed insediamenti umani sostenibili) e dall’Obiettivo 12 (per un consumo ed una produzione responsabile).

È anche alla luce di tali evidenze che, negli ultimi anni, la comunità internazionale ha riscontrato la progressiva formazione di una nuova ‘coscienza animalista’ che insiste sull’importanza di rafforzare, nei territori degli Stati, la tutela degli animali a rischio d’estinzione o di trattamenti degradanti. Ne sono la prova il recente rigetto, da parte dell’UNESCO, della candidatura della Spagna per l’iscrizione della corrida nella lista del patrimonio culturale immateriale stabilita dalla Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, così come la petizione promossa da diverse organizzazioni internazionali per l’iscrizione nella lista del patrimonio culturale dell’umanità di cui alla Convenzione UNESCO per la protezione del patrimonio mondiale del 1972 delle specie di animali a rischio d’estinzione.

È proprio in merito a questa necessità di preservare la fauna che rischia di scomparire che l’ordinamento internazionale, e in particolare le Nazioni Unite, hanno richiamato l’attenzione degli Stati. Attraverso il Report del 2019 elaborato per l’organizzazione dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), l’ONU ribadisce infatti come la biodiversità non sia mai stata messa in repentaglio come negli ultimi anni, e come vi siano circa un milione di animali e piante a rischio d’estinzione. Tale dato si è poi, ulteriormente aggravato negli ultimi anni: come si vede dalla Red List delle specie a rischio curata dall’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), infatti, gli animali in pericolo sono notevolmente aumentati nel biennio 2021/2022, e i numeri non promettono di migliorare nel 2023.

È proprio alla luce di queste evidenze che, sostenuti anche dalle sempre più numerosi voci del diritto internazionale che promuovono un nuovo approccio ai diritti degli animali, da considerare al pari degli esseri umani e dell’ambiente nella ricerca di un welfare collettivo, diversi Stati che da secoli convivono con specie a rischio d’estinzione hanno messo in atto politiche attive volte alla conservazione di tali animali, nonché alla convivenza pacifica tra essere umano e natura – anche nel caso in cui si tratti di specie considerate ‘pericolose’. È il caso, ad esempio, dell’Environment Protection and Biodiversity Conservation Act adottato dal governo australiano nel 1999, che obbliga lo Stato ad adottare alcune specifiche misure per garantire un’adeguata conservazione di squali e altre specie pericolose, minimizzando i rischi di contatto con l’essere umano e prevedendo pene severe per coloro che violano tali disposizioni.

Allo stesso modo, una politica intransigente volta a tutelare la fauna selvatica è stata elaborata dal Canada, che vanta un’esperienza pluridecennale nella tutela delle specie che abitano i boschi del territorio, spesso a stretto contatto con comunità e aree urbane. In particolare, la legislazione canadese in materia, che fa capo al Canada Wildlife Act, si concentra proprio sulla necessità di conservare gli ecosistemi popolati da questi animali (tra i quali spiccano, ad esempio, lupi ed orsi), regolando precisamente l’accesso umano in tali aree geografiche, proprio per scongiurare il rischio di un eventuale attacco. Applicando questa politica, le autorità canadesi hanno ottenuto un buon risultato nello stabilire un equilibrio tra la conservazione delle specie a rischio e la necessità di tutelare la sicurezza pubblica: come riportato da associazioni coinvolte nella tutela del pianeta, in Canada ogni anno la probabilità di essere attaccato da un orso è tendente allo zero, essendo paradossalmente molto più probabile morire, anche in un contesto urbano, aggrediti da un cane. Questo, a prescindere dall’elevatissimo numero di orsi presenti sul territorio canadese: le stime del governo canadese contano circa 600.000 orsi diffusi sul territorio, distribuiti nei numerosi parchi faunistici del Paese.

Quale futuro per le specie a rischio in Italia?

Tornando a noi, questi dati fanno riflettere, se si pensa all’approccio adottato riguardo alla vicenda di JJ4 dalle autorità trentine. Oltre a firmare la condanna a morte per JJ4 e gli altri orsi ‘problematici’, infatti, il Presidente della provincia autonoma di Trento ha dichiarato ferma volontà di ridurre, addirittura dimezzando, il numero di orsi presenti sul territorio, che ammonta attualmente a circa 100 esemplari (circa la metà degli orsi totali stimati in Italia). Tutto ciò, senza mettere in discussione l’efficacia delle misure previste dal piano PACOBACE, nonché la loro effettiva applicazione sul territorio trentino (ricordiamo, infatti, come JJ4 e gli altri gli orsi ‘pericolosi’ sarebbero stati monitorati tramite un radiocollare scarico, e come il ‘centro di recupero per la fauna alpina’ del Casteller sia stato ritenuto inadeguato al suo scopo dalle autorità giudiziarie). È proprio alla luce di questi fatti che, il 29 maggio, la LAV ha annunciato di aver presentato due nuovi ricorsi al Tar di Trento per “contrastare le Linee guida provinciali per la gestione e l’uccisione degli orsi e il documento Ispra-MUSE sugli orsi etichettati come problematici”. Questi ricorsi si sommano a quello già presentato dall’organizzazione per chiedere l’annullamento delle Linee guida elaborate dalla provincia di Trento nell’ambito del piano PACOBACE per l’abbattimento degli animali pericolosi, poiché mancanti di qualsiasi riferimento alla programmazione delle misure di prevenzione. Secondo la LAV, infatti, è proprio nel quadro normativo adottato dalle autorità trentine bisogna che si ritrovano le cause della vicenda di JJ4. Trattandosi di una serie di misure piuttosto generiche, in effetti, esse non sembrerebbero in grado di scongiurare incidenti come questo, creando anzi la base per nuovi accadimenti simili, che porterebbe di fatto soltanto all’identificazione di nuovi orsi ‘problematici’ e alle conseguenti ordinanze d’uccisione. Del resto, è proprio in quest’ottica che la LAV promuove dal 2021 la messa in atto di un “Patto per la convivenza tra uomo e orso” in Italia, lavorando insieme ad altre organizzazioni animaliste e avvalendosi anche del supporto di alcuni esperti canadesi.

In attesa del 27 giugno, non ci resta che sperare che, anche alla luce della progressiva evoluzione mondiale verso un modello di società sostenibile che consideri, nelle politiche di welfare, anche il benessere animale, le autorità giudiziarie si dimostrino sensibili alla questione ambientale che sta alla base della vicenda di JJ4, ristabilendo il giusto equilibrio nella convivenza fra essere umano e natura.

Equilibrio che, purtroppo, sembra essere troppo spesso tralasciato dalle autorità italiane nel momento in cui ci si confronta con tematiche ambientali o relative alla conservazione delle specie – si pensi, ad esempio, al lassismo della disciplina prevista dal nostro Paese in materia di caccia, piuttosto che alle recenti dichiarazioni di alcuni esponenti politici che, all’indomani del disastro in Emilia Romagna, hanno avanzato l’ipotesi di una responsabilità nell’accaduto di porcospini e nutrie, colpevoli di aver danneggiato il territorio emiliano con le proprie tane. C’è ancora molta strada da fare.

A cura di Costanza Rizzetto

WANTED: THE CASE OF MR PUTIN BEFORE THE ICC

On Friday, 17 March 2023, the Pre-Trial Chamber II of the International Criminal Court (“ICC”) issued arrest warrants against Mr Vladimir Vladimirovich Putin, President of the Russian Federation, and Ms Maria Alekseyevna Lvova-Belova, Commissioner for Children’s Rights for the Russian Federation.

The two individuals are (allegedly) responsible for war crimes under Article 8 of the Rome Statute that happened on the territory of Ukraine after the 24 February 2022, when Russia invaded the Ukrainian territory. According to the ICC, “[t]here are reasonable grounds to believe that each suspect bears responsibility for the war crime of unlawful deportation of population and that of unlawful transfer of population from occupied areas of Ukraine to the Russian Federation, in prejudice of Ukrainian children”.

To understand how and on what legal basis the arrest warrants were issued, since neither the Russian Federation, nor Ukraine are State Parties to the Rome Statute (requirement that allows the ICC to have jurisdiction over State Parties, and therefore, exercise competences to prosecute international crimes on the concerned territories), a step back is needed. Therefore, the first question that should be addressed is how could the ICC exercise jurisdiction over international crime(s) committed on the territory of a non-State Party to the ICC, when the perpetrator(s) are national(s) of another non-State Party (pre-condition to the exercise of jurisdiction according to Article 12 of the Rome Statute).

The Russian Federation did sign the Rome Statute, but in 2016 withdrew its signature. Ukraine, on the contrary, has never been amongst the signatories of the Rome Statute, but has twice accepted the Court’s ad hoc jurisdiction over alleged international crimes occurring on its territory, in accordance with Article 12 (3) of the Rome Statute – the first one concerning the Maidan protests, and had a temporal limitation, as it focused on the alleged crimes committed on Ukrainian territory from 21 November 2013 to 22 February 2014. Through the second declaration (submitted on 8 September 2015 and concerning mainly the occupation of Crimea), Ukraine accepted the jurisdiction of the Court for the purpose of “identifying, prosecuting and judging the perpetrators and accomplices of acts committed in the territory of Ukraine since 20 February 2014”. The open-ended temporal clause implies that alleged crimes occurred within Ukrainian soil can be investigated and prosecuted before the ICC – including those acts that happened during the ongoing conflict in Ukraine -; and regardless of the nationalit(ies) of the perpetrator(s) .

Since Ukraine is not a party to the ICC, according to the procedure, before opening an investigation the Prosecution requires an authorisation from the Pre-Trial Chamber of the ICC to open such investigation. However, due to the unprecedented joint referrals of the situation in Ukraine by 43 State Parties to the Rome Statute, this additional burden has been removed and the investigation started on 2 March 2022, which covers international crimes allegedly occurred within the Ukrainian soil from 21 November 2013 onwards. The analysed arrest warrants fall within the context of this investigation.

As mentioned, the arrest warrants against Mr Putin and Ms Lvova-Belova “only” concern war crimes of unlawful deportation of population (children) and that of unlawful transfer of population (children) from the occupied areas of Ukraine to the Russian territory. However, already in December 2020, the former Prosecutor of the ICC, Fatou Bensouda, concluded the preliminary examination on the situation of Ukraine affirming the existence of reasonable grounds to believe that war crimes and crimes against humanity have occurred from February 2014 onwards in Ukraine (particularly in the Crimea region). After Russia invaded Ukraine in February 2022, the Prosecutor re-stated that the launched investigation would have “encompass[ed] any new alleged crimes falling within the jurisdiction [of the ICC] that are committed by any party to the conflict on any part of the territory of Ukraine”. Yet, the jurisdiction of the ICC, in this particular case, remains limited to war crimes, crimes against humanity and genocide, and does not involve the crime of aggression, namely the act of invading or attack by the armed forces of a State on the territory of another State”. Why is it so?

The crime of aggression was initially not defined (although included) in the 1998 version of the Rome Statute that established the ICC; and only in 2010, through the so-called Kampala Amendments, the State Parties reached an agreed definition of this crime (in line with the UN General Assembly Resolution 3314 (XXIX) of 1974), now incorporated in Article 8 bis. Nonetheless, the conditions according to which the ICC can exercise its jurisdiction differs from the other three categories of crimes mentioned above. According to Article 15 bis (5), the Court cannot exercise jurisdiction over an alleged crime of aggression if the responsible person is a national of a State that is not a Party to the ICC. Moreover, the Prosecutor could potentially start investigation towards an alleged act of aggression only if and when the UN Security Council (UNSC) has determined the existence of such act of aggression (ex Article 15 bis (6)) or when the Pre-Trial Chamber has authorised launching an investigation if the UNSC has not recognised the existence of the act of aggression six months after the event (Article 15 bis (8)). In the Ukrainian-Russian case, not only this six month-term already expired, but the ICC cannot exercise jurisdiction over the facts at stake, and therefore no Russian national can be charged with the crime of aggression in front of the ICC, since Russia is not a ratifying State to the Rome Statute; and regardless of the ad hoc acceptance of the jurisdiction by Ukraine.

The aggression is, however, not only considered as international crime within the ICC framework, as “the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any State” is explicitly prohibited by the Article 2 (4) of the UN Charter. In the 2022 Resolution (A/RES/ES-11/1), the UN General Assembly (UNGA) clearly referred to the Ukrainian-Russian situation as aggression and urged Russia to refrain from any further unlawful threat or use of force against any Member State. The “legal responsibility triggered by the Russian Federation aggression against Ukraine” has been further addressed by UNGA in subsequent Resolutions in which it recognised that Russia must be held accountable for its aggression against Ukraine. What are the chances that consequences will follow on the Russian aggression from a UNSC point of view? Basically none…as Russia is among the so-called “P5”, the permanent members of the UNSC with the veto power. However, a certain reaction from the UNGA can be somehow foreseen, namely through the establishment of an ad hoc/hybrid tribunal, a Special Tribunal on the Crime of Aggression (STCoA). Such a hybrid tribunal would/could be created through a specific request of the Government of Ukraine and upon a UNGA Resolution, the UN organ that reflects the will of the international community, in which all the UN Member States are represented, which will recommend to the UN Secretary General the establishment of such tribunal through negotiations between the interested State (Ukraine) and the UN as a whole. Interestingly to note is that in this kind of tribunal, immunities would not be enjoyed even by high ranked officials, such as the President of the Russian Federation.

But, let’s go back to the arrest warrants and the (potential) prosecution before the ICC. What are the chances that Mr Putin and Ms Lvova-Belova will be brought before the ICC? The two biggest obstacles to these arrests are immunity and the fact that the Court needs the national level and international cooperation for an effective prosecution of the crimes.

With regards to immunity, a distinction must be drawn between personal – or ratione personae or status-based immunities – and functional – or ratione materiae or conduct-based immunities. Heads of State, Heads of Government and Ministers for Foreign Affairs enjoy personal immunity, which is conferred by reason of status as key representatives of the State and covers all acts undertaken in an official or in a private capacity during the term of office. This is the case of Mr Putin, as President of the Russian Federation. Functional immunity, on the other hand, attributes immunity to authorised representatives of the State when they perform an act of State. It can be applied to officials, functionaries, and employees of States to afford them immunity in respect of acts which are performed in an official capacity. This is the case of Ms Lvova-Belova who, as the Commissioner for Children’s Rights in the Office of the President, enjoys functional immunity.

This distinction is essential, because it has an impact on the actual prosecution of international crimes by the ICC. For instance, according to Article 27 (2) of the Rome Statute [i]mmunities or special procedural rules which may attach to the official capacity of a person, whether under national or international law, shall not bar the Court from exercising its jurisdiction over such a person”. This provision, thus, confirmed that, in principle, that the Court can exercise jurisdiction without waiting for a waiver of the immunity from State Parties. However, in the issue at stake, Article 27 (2) cannot be relied upon as a general waiver, because Russia, as a non-Party State, has not accepted the provision. As a result, even States Parties to the ICC, could oppose the immunity of the two individuals in question, and decide not to cooperate, when asked to do so to achieve the arrest of the two suspects. Indeed, States Parties to the ICC Statute deciding to cooperate with the Court and, therefore, satisfying the request of the arrest warrants in the case at stake, could incur in violations of international law as recognised by Article 98 (1) of the Statute itself, which provides that “[t]he Court may not proceed with a request for surrender or assistance which would require the requested State [the State Party] to act inconsistently with its obligations under international law with respect to the State or diplomatic immunity of a person […] of a third State [in this case the Russian Federation]”. In fact, although State Parties have an obligation to cooperate with the Court as specifically provided in Article 86 of the Statute, they might oppose immunity.

The difference between personal immunity and functional immunity comes into play at this point, as there is a widespread scholarly agreement that Article 27 (2) of the Rome Statute is declaratory of customary international law as far as functional immunities are concerned. No functional immunity exists under customary international law in case of proceedings for genocide, crimes against humanity, war crimes and crime of aggression. This conclusion encompasses State measures of arrest and surrender of a person sought by the Court, such as Ms Lvova-Belova. In the present case, therefore, States Parties cannot invoke functional immunity and they are internationally obliged to arrest Ms Lvova-Belova. Article 87 of the Statute deals with non-cooperation and provides that “failure [by a State Party] to comply with a request by the Court contrary to the provisions of this Statute” constitutes an internationally wrongful act entailing the State’s responsibility if no circumstance precluding wrongfulness can be invoked. The same Article 87 in paragraph 7 establishes a specific consequence of non-cooperation: the Court may inform the Assembly of States Parties (ASP), which considers any question relating to non-cooperation under Article 112 (2)(f), about the State failure to cooperate.

As for personal immunity, the issue becomes more complex. The ICC has struggled with claims of some States to the extent that the immunity and inviolability of acting Heads of State allows them to ignore an arrest warrant issued for a Head of State of a non-State Party to the Rome Statute, notwithstanding the general obligation to cooperate under the Statute. In particular, the case against Mr Al Bashir (against whom the ICC had issued two arrest warrants, respectively, in 2009 and 2010) former President of Sudan, clearly highlighted the contradictions and difficulties in the area of immunity and core crimes in the context of the ICC. The former Sudanese President’s travels to African States Parties to the Rome Statute – despite the arrest warrants in force against him – have produced important case law in this field. Indeed, ICC judges have made a number of decisions regarding the non-compliance of certain African States with the requests to arrest and surrender President Al Bashir. In 2017, Pre-Trial Chamber II decided to refer Jordan’s non-cooperation with the Court to the ASP and to the UNSC for the adoption of sanctions against the concerned State. In the case under analysis if the matter would have been referred to the ICC by the UNSC (as in the Al Bashir case), the latter could have also been informed of the States’ failure to cooperate and could – theoretically – proceed to consider appropriate sanctions against the responsible State. Jordan appealed the decision of the Pre-Trial Chamber and this resulted in the judgment of the Appeals Chamber on 6 May 2019. In this decision, after years of debate, the highest Chamber of the ICC clarified that Mr Al Bashir did not enjoy immunity as a Head of State vis-à-vis the Court under customary international law -contributing to the crystallization of a modern customary law, which represents an exception to the rule of absolute personal immunity in proceedings before the ICC and international criminal tribunals in general. This approach enables the Court to apply the rule that sets aside personal immunity to any proceedings, irrespective of whether the accused is a national of a State Party or not. When the obligation to cooperate stems from customary international law it applies erga omnes. In the present case, therefore, not only Ms Lvova-Belova, but also Mr Putin could not oppose his absolute immunity. However, despite this recent decision, questions relating to personal immunities accruing to senior State officials do not seem to have been settled satisfactorily in international law.

Nevertheless, it should be mentioned that the power of the Court to require a non-State Party to cooperate should also be seen in the light of two hypotheses. First, a referral from the UNSC to the Prosecutor of the ICC pursuant to Chapter VII of the UN Charter as recalled by Article 13 (b) of the Rome Statute, may oblige all UN Member States to cooperate with the Court. The binding nature of such a cooperation regime for States not Parties to the |Rome Statute would then stem from Article 103 of the UN Charter. When the obligation to cooperate stems from a decision of the UNSC, the obligation applies erga omnes. As a consequence, every UN Member State has a legal interest in cooperation with the Court. Therefore, the ICC might be considered to have, in this situation, a form of universal jurisdiction, subjected, however, to the Security Council control. Secondly, according to Article 1 of the four Geneva Conventions on international humanitarian law (1949) States Parties have an obligation to react by any appropriate means to any violation of a provision of international humanitarian law, even though the underlying act is not attributable to the State concerned. This duty has been confirmed and supplemented respectively, by Articles 1 and 89 of the First Additional Protocol (1977) to the four Geneva Conventions. The unlawful deportation or transfer of a protected person is a grave breach of the four Geneva Conventions, to which both Russia and Ukraine are parties. In these cases, some form of cooperation with the Court constitutes the only way for non-States Parties to discharge this obligation.

A merit of determining the existence of a customary rule consists in untying the jurisdiction of the Court from the uncertainty of a political decision of the Security Council to make a referral. Nevertheless, while the ICC Pre-Trial Chamber has repeatedly admonished African States for not arresting Al Bashir, the ASP and the UNSC have not yet punished any non-cooperating State. To conclude, it is hard to tell how and when this stalemate will be resolved. The ICC Appeals Chamber opted for the customary international law approach. In the present case, a State Party to the Rome Statute could arrest Mr Putin at the behest of the ICC. This may elicit a finding from the International Court of Justice (ICJ). The ICC, the ICJ, international governmental and non-governmental organisations, many States and the majority of legal scholars all concur that functional and personal immunities have no place before international criminal tribunals. However, there is far less agreement on how that position can be legally substained and whether that desirable situation has already been achieved.

Weeks prior to these arrests, news in the case was expected: it was known that arrest warrants would be issued, and it was speculated that they would be linked to crimes of unlawful deportation of children. What no one expected was that the warrant would be issued against the Russian President, Mr Vladimir Putin.

It is not common in international courts for arrest warrants to be issued to a sitting President or Head of State. The only cases are those of Slobodan Milošević, Charles Taylor and Omar Hassan Ahmad al-Bashir, former Presidents of the Federal Republic of Yugoslavia, Liberia and Sudan, respectively. Much less common is to be the first recipients of an arrest warrant in a case.

So, there is every reason to celebrate this courageous decision by the ICC Prosecutor, also bearing in mind that recent history has shown that arrest warrants against senior officials are generally issued when they have lost much of their power – which does not reflects Putin’s current situation (notwithstanding the condemnation and sanctions imposed by a large part of the international community).

The questions that arise at this moment are the following: 1) Will the States Parties to the Rome Statute comply with the arrest warrants issued if Putin visits any of those countries? The ICC experience with al-Bashir is not very promising, but without a doubt, the answer will depend on two factors, namely Russia’s particular relationship with the State that Putin travels to (basically the commercial relations between the two and how much that State depends on Russia to survive); and the power that Putin continues to have at the time of the visit. 2) What will happen with the crime of aggression? Will a Special Court be created for this specific crime and will Putin be tried simultaneously by two international courts for different crimes?; 3) What impact will this decision have with respect to other great powers that are targeted by the ICC, such as the case of Palestine and Israel, or Afghanistan, where although the Prosecutor has decided to prioritize the crimes of the Taliban, those committed by the Americans are still part of the pending situation? And what does it show regarding closed preliminary investigations (such as the Iraq/British soldiers’ case) or others that have never even arrived at that stage?

The dilemma of the “selectivity of international justice” or “double standards” is undoubtedly one of the most problematic, but it will depend on us, on civil society in general, to pursue certain equity, namely justice in all places and in all cases, because as they say, justice that arrives late is not justice.

A cura di Serenza Zanirato, Nicole Zemoz e Tomas Manguel

NIENTE DI NUOVO SUL FRONTE DI 41 BIS ED ERGASTOLO OSTATIVO

A lungo bistrattata e lasciata ai margini del dibattito, la questione carceraria è tornata agli onori di cronaca, nelle ultime settimane, con il caso di Alfredo Cospito.

Cospito, membro della Federazione Anarchica Informale, si trova in carcere, in regime di 41 bis, dove sta scontando una pena alla reclusione di dieci anni e otto mesi per la gambizzazione dell’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare. È inoltre in attesa di condanna definitiva alla pena dell’ergastolo, di tipo ostativo, per una serie di attentati organizzati, tra il 2005 e il 2007, condotte che sono state ascritte al reato di devastazione, saccheggio e strage ex art. 285 c.p. Per questi fatti, è stata emessa misura cautelare detentiva. Pertanto, la detenzione in carcere è motivata tanto dalla pena a cui è già stato condannato quanto da ragioni cautelari, in attesa di condanna per il reato ex 285 c.p.

Per ottenere la revoca del 41 bis, Cospito è entrato in sciopero della fame dal 20 ottobre. Il caso è diventato mediatico a seguito della diffusione di informazioni sul suo stato di salute precarissimo e a seguito del diniego di revoca del regime di 41 bis da parte tanto del Tribunale di Sorveglianza di Roma, quanto del Ministro della Giustizia Nordio. Allo stato attuale, Cospito si trova a centoventi giorni di digiuno, con quaranta chili in meno.

Il caso in esame solleva diverse questioni su temi differenti: da un lato la legittimità del 41 bis come modalità esecutiva di una condanna, dall’altro, la legittimità dell’ergastolo ostativo come specie di pena.

L’articolo che segue cerca di mettere chiarezza in questa intricata storia, restituendo un quadro dei diversi istituti detentivi richiamati, nonché dello stato d’arte del dibattito in merito agli stessi, dimidiato tra chi sostiene l’efficacia e, pertanto, la loro legittimità, e chi invece ne aberra il contenuto, non senza il supporto di diverse pronunce giurisprudenziali in tal senso.

Ergastolo ostativo e 41 bis: non facce della stessa medaglia

Spesso sovrapposti, data la loro frequente interconnessione, gli istituti del 41 bis e dell’ergastolo ostativo non sono sinonimi. Al contrario, nascono per ragioni diverse così come diverse ne sono la natura e le regole di funzionamento.

L’ergastolo si intende ostativo quando non consente la concessione dei benefici carcerari che l’ordinamento normalmente prevede a seguito del decorso di un periodo specifico di tempo e/o sulla base della buona condotta della persona detenuta. Ad esempio, nel caso di ergastolo, solo con il decorso di 26 anni di reclusione la persona detenuta può richiedere la libertà condizionata o i permessi di lavoro all’esterno del carcere.

Quando la condanna all’ergastolo segue la commissione di una categoria specifica di reati, i c.d. reati ostativi, la concessione di questi benefici è ulteriormente limitata. I reati c.d. ostativi sono indicati dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario (d’ora in poi, ord. penit.) e includono, tra gli altri, reati di stampo mafioso e i reati con finalità di terrorismo (ipotesi a cui, il Codice penale, riconduce, nelle forme più gravi, la pena all’ergastolo).

In questi casi, secondo quanto indicato dall’art. 58 ter ord. penit., i benefici non sono accessibili decorsi 26 anni, ma solo sulla scorta di un ravvedimento operoso della persona detenuta, che si mette a servizio dello Stato, collaborando alle indagini. In altri termini, un meccanismo fondato su una logica di do ut des. La ragione sta nel fatto che l’ordinamento stabilisce in questi casi una presunzione assoluta di pericolosità sociale che può essere contemperata solo con la collaborazione con la giustizia.

Questa logica è stata attenzionata dalla Corte Costituzionale che, di sentenza in sentenza, ha levigato il meccanismo, a tratti mercificatore della libertà personale, per ricondurlo a crismi costituzionalmente orientati, primo fra tutto, l’art 27(1)(3) della Costituzione sul fine rieducativo della pena, nonché gli artt. 3 e 13 Cost (sul principio di eguaglianza e sulla inviolabilità della libertà personale).

Tuttavia, è solo con la celebre sentenza Viola c. Italia da parte della Corte di Strasburgo che il meccanismo di scambio tra libertà e collaborazione viene messo in discussione.

In alcuni importanti passaggi della sentenza, la Corte osserva che la personalità di un condannato non rimane fissata al momento in cui il reato è stato commesso, “ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità” (para 125).

Nello specifico, la Corte ritiene che «l’assenza di ‘collaborazione con la giustizia’ determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione (…). Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo» (para 127).

Pertanto, la Corte conclude che, nonostante la significatività dei reati ricondotti all’art 4 bis ord.penit., «la lotta contro questo flagello [la lotta alla mafia] non può giustificare deroghe alle disposizioni dell’articolo 3 della Convenzione, che vieta in termini assoluti le pene inumane o degradanti. Pertanto, la natura dei reati addebitati al ricorrente è priva di pertinenza ai fini dell’esame del presente ricorso dal punto di vista del suddetto articolo 3» (para 130).

Sulla scorta di questa decisione, il Parlamento è stato chiamato ad intervenire per modificare le norme sull’ergastolo ostativo. Con il d.l. 162/2022, l’istituto è stato rivisto. Ad oggi, si permette di richiedere la libertà condizionale pur in assenza di collaborazione con la giustizia, previa allegazione degli elementi specifici che dimostrino la mancata persistenza di collegamenti con l’organizzazione criminale del caso.

Diversamente, il regime del 41 bis riguarda le modalità di esecuzione della pena. Regolato, appunto, dall’art. 41 bis dell’ord. penit., l’applicazione di simile regime poggia su due presupposti: uno oggettivo e uno soggettivo.

Dal punto di vista oggettivo, il regime del 41 bis è applicabile ai soli reati ascritti all’art 4 bis ord.penit. Pertanto, anche il 41 bis fa riferimento allo stesso ambito oggettivo dell’ergastolo ostativo.

Dal punto di vista soggettivo, il regime del 41 bis viene giustificato con l’esigenza di troncare i collegamenti tra la persona detenuta e l’organizzazione esistente all’esterno, sul presupposto che questi legami esistano e debbano essere recisi in pendenza di esecuzione della pena, per motivi securitari e quindi per garantire la sicurezza e ordine pubblico.

Sulla base di questi presupposti, il 41 bis giustifica una serie di restrizioni particolarmente gravose sulla libertà personale (già compromessa) e di autodeterminazione del soggetto. Il regime del 41 bis implica l’individuazione di specifiche sezioni adibite esclusivamente alla ricezione delle persone sottoposte a tale misura (nello specifico, ci sono dodici carceri con sezioni adibite in tutta Italia). Costoro trascorrono la detenzione in cella singola; è concessa una visita al mese mentre due sono le ore di aria concesse al giorno e da condividere con non più di tre persone e che, per i motivi di cui sopra, non possono che essere altre persone detenute al 41 bis. Il resto delle ore le si passa chiusi in una cella con un solo punto luce, dal soffitto.

A livello procedurale, il 41 bis viene applicato con provvedimento del Ministro della Giustizia, a prescindere dalla natura della limitazione della libertà e quindi: in caso di ergastolo, reclusione, misura di sicurezza (che non implica una condanna) e durante l’applicazione di una misura cautelare di carattere detentivo (e quindi a processo ancora in corso).

Il provvedimento ha durata quadriennale e può essere prorogato per la stessa durata nel caso in cui le esigenze di sicurezza e ordine pubblico perdurino. Ex adverso, il venir meno dell’attualità delle esigenze può condurre a una revoca della misura. La revoca può essere disposta ancora dal Ministro della Giustizia o dal Tribunale di Sorveglianza (in caso di 41 bis, il Tribunale competente è quello di Roma). Se non operata d’ufficio, le parti interessate (la difesa, la Procura, il DAP) possono presentare richiesta di revoca presso entrambe le istituzioni competenti. Infine, in caso di rigetto dell’istanza, può essere presentato ricorso presso il Tribunale di Sorveglianza, in caso di diniego da parte del Ministro della Giustizia; si pronuncerà invece la Corte di Cassazione, in caso di diniego da parte del Tribunale di Sorveglianza.

Per quanto riguarda le evoluzioni di questo istituto, il regime del 41 bis nasce all’indomani delle stragi di Capaci e Via d’Amelio con lo specifico intento di dissipare le connessioni tra persone detenute e organizzazione mafiosa di appartenenza. Nel 2002, l’ambito di applicazione è stato esteso ai reati richiamati sopra e, specificatamente, ai reati di terrorismo. Inoltre, la durata temporale del provvedimento di emissione, inizialmente fissata a tre anni, è stata portata agli odierni quattro anni. Pertanto, negli anni successivi all’instaurazione del 41 bis si è assistito a una sorta di secolarizzazione dell’istituto, nato, invece, come istituto temporaneo ed eccezionale.

Secondo il XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, al novembre 2021, le persone al 41 bis erano 749, di cui tredici donne. Di questi, ancora oggi, una stragrande maggioranza è in vinculis per reati legati all’associazionismo mafioso.

Cospito corrisponde alla prima persona detenuta sotto regime di 41 bis a rispondere di reati di terrorismo politico.

Al di là dei cambiamenti occorsi negli anni, è importante ricordare la ratio di questo istituto. Come sottolinea Livio Pipino, già magistrato e membro del Consiglio Superiore della Magistratura, non dovrebbe trattarsi di «un trattamento carcerario particolare per detenuti di diversa pericolosità, ma una sospensione del trattamento», una modalità di esecuzione della condanna temporanea ed eccezionale e non la condanna stessa.

41 bis, tra profili di criticità ed evoluzioni giurisprudenziali

Il regime di 41 bis, nato in un momento storico di aspro conflitto tra Stato e mafie, realizza condizioni di vita insostenibili per chi vi è sottoposto, con un grado di efficienza che è, quantomeno, discutibile. In quest’ottica si comprende il tentativo di numerose personalità ed associazioni legate al mondo del diritto, che chiedono la revoca del 41 bis in quanto strumento di maltrattamento e tortura, operato direttamente dallo Stato.

A tal proposito, tanto quanto l’ergastolo ostativo, anche il regime di 41 bis è stato attenzionato da corti nazionali e internazionali.

Con la sent. 376/1997, la Corte Costituzionale ha riconosciuto che già dal momento dell’emanazione della legge istitutiva il regime di 41 bis, il nuovo istituto aveva ingenerato criticità sul profilo dell’aderenza ai principi costituzionali contenuti agli artt. 3, 13, 24 e 27 della Costituzione. Tuttavia, ne ha ribadito la legittimità nella misura in cui le esigenze di sicurezza e ordine pubblico fossero concretamente giustificate.

La Consulta si è successivamente pronunciata più volte, andando a limare le restrizioni imposte ai detenuti in regime di 41 bis. Ad esempio, con la recente sentenza del 24 gennaio 2022, n. 18, la Consulta si è pronunciata sulla illegittimità della sottoposizione a censura della corrispondenza tra persa detenuta e difesa.

A livello sovranazionale, e similmente a quanto espresso dalla Consulta, il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura, dopo aver svolto una visita nelle carceri italiane nel marzo 2019, ha sottolineato nel report 2020 la necessità di operare sempre in concreto un bilanciamento delle ragioni di sicurezza e ordine pubblico, con il perdurare del regime del 41 bis e la correlata limitazione dell’efficacia rieducativa della pena sulla persona detenuta.

Infine, enorme risonanza ha avuto la pronuncia, sempre del 2019, nel caso Provenzano c. Italia, con cui la Corte di Strasburgo è stata chiamata a valutare l’opportunità di prolungare il regime di 41 bis in caso di deterioramento della salute fisica e mentale del soggetto.

In un passaggio di rilievo, la Corte, tenuto conto delle esigenze di sicurezza e ordine pubblico legato alla criminalizzazione e sradicamento del fenomeno mafioso, «ribadisce che il rispetto della dignità umana è l’essenza stessa della Convenzione e che l’oggetto e la finalità della Convenzione, strumento destinato a proteggere i singoli esseri umani, impongono che le sue disposizioni siano interpretate e applicate in modo da rendere le sue garanzie pratiche ed effettive (..). A tale riguardo, la Corte ritiene che sottoporre un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive (…), applicate dalle autorità penitenziarie a loro discrezione, senza fornire motivi sufficienti e pertinenti basati su una valutazione personalizzata della necessità, compromette la sua dignità umana e comporta la violazione del diritto di cui all’articolo 3.» (para 152).

In sintesi, la Corte di Strasburgo pone l’accento sul rischio di discriminazione legato a certi automatismi e ribadisce che il rispetto per la dignità della vita umana deve riverberarsi sul trattamento penitenziario.

Il 24 febbraio la Suprema Corte ha rigettato il ricorso della difesa di Cospito (al quale la Procura Generale della Cassazione aveva dato un parere favorevole) in merito al perdurare nel suo caso del regime del 41 bis.

Non sono ancora state pubblicate le motivazioni di tale sentenza, la quale evidentemente dovrà motivare in aderenza ai principi che sono stati richiamati sopra probabilmente rilevando come nel caso sussista proporzionalità tra il perdurare del regime, pur nelle condizioni di salute della persona detenuta e le necessità di politica criminale sottese all’istituto. Per quanto riguarda invece la questione dell’ergastolo ostativo , la Corte di Appello di Torino, nello stesso caso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente alla proporzione della pena e, in particolare, rispetto alla valutazione della gravità del fatto ai fini della modulazione della stessa, come previsto dall’art. 133 del Codice penale.

Al di là delle specificità di carattere giuridico ciò che si auspica è che entrambi gli istituti vengano interpretati con criteri costituzionalmente orientati, sostituendo meccanismi automatici che poggiano su logiche di politica criminale facendo tendere l’istituto al principio di rieducazione della pena di cui all’art 27.3 della Costituzione.

Va detto che l’esistenza stessa del regime dell’ergastolo ostativo è messo in discussione e denunciato da diverse personalità nel mondo del diritto, la rivendicano le storie dei nostri Bobby Sands e Ebru Timtik, che, hanno intrapreso lo sciopero della fame per denunciare le condizioni indecenti di detenzione e che sono morti, lottando, dimenticati dallo Stato. L’ha recentemente ripetuto di fronte al Parlamento Europeo la parlamentare MEP Clare Daly che un simile sistema non può vigere incontrastato in uno dei Paesi dell’Unione Europa.

La domanda che poniamo conclusivamente, pur nella estrema complessità della materia è la seguente: è veramente nei doveri di uno Stato perpetrare un sistema di estrema privazione della libertà per fini securitari, sistema che, peraltro, ha dimostrato un certo grado di fallacia, tenuto conto dell’operato ancora saldissimo delle organizzazioni mafiose?

Questa riflessione è più che mai doverosa e necessaria, per non svuotare di significato la validità di una società che si fonda sullo stato di diritto.

A cura di Silvia Tassotti

COSA SONO I CRIMINI DI GUERRA E PERCHÈ È IMPORTANTE CONOSCERLI E PUNIRLI

La Comunicazione di StraLi, UpRights e Adala for All.

Il 17 gennaio 2022 StraLi, insieme alle ONG UpRights e Adala for All, ha presentato una Comunicazione all’ufficio del Procuratore della Corte Penale Internazionale (CPI) affinché avviasse delle indagini per crimini di guerra perpetrati in Libia contro le persone migranti.

I fatti su cui la Comunicazione si concentra riguardano le atrocità commesse nei centri di detenzione contro le persone migranti tra il 2017 e il 2021. I centri di detenzione libici sono gestiti da milizie e gruppi armati che a partire dal 2011 hanno preso (e tutt’ora prendono) parte al conflitto armato. Tra gli abusi e le violazioni commesse, come ampiamente documento da una molteplicità di fonti, si annoverano condizioni di vita disumane e degradanti, scarsità di cibo e acqua, torture, lavori forzati, violenze sessuali e stupro.

Prima di valutare il merito della Comunicazione, però, è importante comprendere cosa sono i crimini di guerra, e qual è la portata dell’atto da noi presentato.

La principale definizione di crimine di guerra è da ricercarsi nell’art. 8 dello Statuto di Roma che, nel 1998, ha stabilito la Corte Penale Internazionale (CPI), esplicitando i presupposti affinché una determinata condotta possa essere definita crimine di guerra. Innanzitutto, l’atto deve essere avvenuto in un contesto di ostilità, e cioè durante un conflitto armato (sia esso internazionale o interno allo Stato, ad esempio in una guerra civile). Il nesso che deve sussistere tra la condotta e l’esistenza di un conflitto armato è, di fatto, una pre-condizione per l’esistenza di un crimine di guerra. La condotta, poi, deve consistere in una grave violazione di diritto internazionale umanitario (ossia di una norma – consuetudinaria o convenzionale, come le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 o i loro Protocolli Aggiuntivi del 1977 – che regola il contesto di conflitto), da cui emerge una responsabilità penale personale. Per quanto concerne l’elemento oggettivo del reato, cioè la condotta in questione, questa si deve sostanziare contro una categoria di persone o di beni protetti, come sono – secondo i principi del diritto internazionale umanitario – la popolazione civile o altri soggetti considerati vulnerabili come quelli che hanno lo status prigionieri di guerra (il cui attacco diretto e volontario ravvisa un crimine di guerra), e i beni o le infrastrutture c.d. civili. Deve sussistere anche un particolare approccio psicologico del soggetto (l’elemento soggettivo del reato) ossia l’intento, la conoscenza e la volontà (e dunque il dolo) di attaccare la popolazione o beni civili o di compiere uno di quegli atti elencati all’art. 8. La norma annovera tra le condotte rappresentanti crimini di guerra, tra gli altri, assoggettare le persone a mutilazioni fisiche; utilizzare veleni o armi chimiche; commettere torture o altri trattamenti inumani o degradanti, incluso stupro, schiavitù sessuale, e prostituzione forzata.

È anche importante sottolineare la complementarietà della giurisdizione della CPI: la Corte, infatti, “entra in gioco” solo quando lo Stato che ha giurisdizione sui i fatti, non ha iniziato un procedimento penale (indagine o processo), o, in ogni caso, non vuole o non è in grado (“unwilling or unable”) di processare la persona responsabile di uno di tali crimini (art. 1). E ancora, è cruciale menzionare come in linea di principio la CPI non abbia giurisdizione automatica sui crimini internazionali commessi in tutti gli Stati. Infatti, la CPI esercita giurisdizione solo su quei reati commessi sul territorio degli Stati che hanno ratificato lo Statuto di Roma, o sono stati commessi dai suoi cittadini. Questo comporta che se uno Stato non ha ratificato lo Statuto, come la Siria, la Russia, gli USA, o la stessa Libia, crimini commessi sui questi territori non potrebbero rientrare nella giurisdizione della CPI.

Come può essere superata questa impasse?

Ci sono, in teoria, diverse vie affinché la CPI possa acquisire giurisdizione e quindi lavorare per evitare l’impunità di crimini internazionali. Da una parte, è possibile che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, tramite una Risoluzione vincolante, istituisca un Tribunale ad hoc per specifici eventi (come nel caso dell’ex Jugoslavia o del Ruanda). È necessario, però, ricordare come nell’ambito del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ci siano i cinque membri permanenti (Regno Unito, USA, Russia, Francia e Cina) aventi il c.d. potere di veto, che dà loro quindi la possibilità di opporsi all’adozione di una determinata Risoluzione (art. 27, para. 3, Carta ONU). Questo, in termini concreti, fa sì che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU molto difficilmente potrà istituire, per esempio, un Tribunale Speciale che possa perseguire i crimini di guerra perpetrati da parte russa nell’attuale conflitto in Ucraina.

Esiste, poi, il principio di giurisdizione universale, che dà la possibilità ad uno Stato di agire contro crimini internazionali anche quando tali crimini non sono avvenuti sul suo territorio e né la vittima né l’autore sono cittadini di quello Stato, così prevenendone l’impunità. Questo è il caso della pronuncia adottata nel gennaio 2022 da un Tribunale regionale superiore in Germania contro Anwar R, ex alto funzionario siriano che è stato riconosciuto colpevole di crimini contro l’umanità.

Infine, come nel caso della Libia (che, come detto, non è Stato Parte dello Statuto di Roma), il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha adottato una Risoluzione (Risoluzione 1970 (2011)) tramite la quale ha ufficialmente portato all’attenzione dell’Ufficio del Procuratore della CPI le gravi violazioni internazionali commesse sul territorio libico nel contesto del conflitto armato dal 2011. La relativa ambiguità della Risoluzione 1970 (2011), ha spinto la CPI, nel caso Al-Werfalli del 2017, ha precisare che l’esercizio della giurisdizione della CPI fosse limitato ai crimini associati al conflitto armato in Libia. Infatti, dal 2011 la Libia è stata (ed è ancora) teatro di persistenti scontri tra vari gruppi armati. Il conflitto è stato, infatti, qualificato come un conflitto armato continuo (di carattere non internazionale), sia dalla CPI sia anche dalla Fact-Finding Mission ONU sulla Libia. Questo ha rappresentato, quindi, un primo requisito affinché StraLi, insieme ad UpRights and Adala for All, potesse presentare la Comunicazione lo scorso anno.

In tale contesto, l’analisi del legame tra i crimini contro le persone migranti in detenzione e il conflitto è stato uno dei punti principali della Comunicazione. Questo proprio per la sua duplice funzione. Da una parte provava la qualificazione degli abusi contro le persone migranti come crimini di guerra, dall’altra attestava che tali crimini rientravano nella giurisdizione della CPI ai sensi della Risoluzione 1970 (2011).

Come ampiamente documentato sia da fonti istituzionali (come l’ONU) sia da molteplici ONG, in questi centri di detenzione le persone migranti si trovano a subire gravi abusi e violazioni ad opera dei membri di queste milizie che partecipano al conflitto civile ancora in essere. Queste gravi violazioni sono, a tutti gli effetti, qualificabili come crimini di guerra ai sensi dell’art. 8 dello Statuto di Roma, essendo strettamente legate al conflitto esistente in Libia. Nello specifico, tra il 2017 e il 2021, i gruppi armati responsabili dei sei centri di detenzione hanno sottoposto le persone migranti a molteplici atrocità: le vittime sono state detenute in condizioni di vita inaccettabili, in spazi sovraffollati, senza ventilazione, con scarse condizioni igieniche e cibo inadeguato. Molte sono state sistematicamente torturate e maltrattate e finanche uccise. Le informazioni disponibili indicano anche casi di stupro e schiavitù sessuale.

L’attività di analisi e lo studio del conflitto libico hanno permesso di collegare tali violazioni al conflitto presente in Libia dal 2011.

Infatti, gradualmente, le milizie armate hanno riorientato le loro attività e iniziato ad “occuparsi” di traffico di esseri umani, utilizzandolo per scopi politici e militari. Dopo il 2017, per creare un’affiliazione con l’allora Governo Serraj, le milizie hanno iniziato a gestire i c.d. centri di detenzione, in un’ottica di “contenimento del fenomeno migratorio” – divenendo, così, a tutti gli effetti, soggetti “legittimati” sia da un punto di vista interno che nello scenario di cooperazione con gli Stati europei. In particolare, la Comunicazione analizza, quali esempi concreti, sei centri di detenzione, che sono sotto il controllo effettivo di gruppi armati e hanno ospitato (e ancora ospitano) migliaia di persone migranti, incluso minori, la maggior parte delle quali intercettate dalla Guardia Costiera Libica (LCG) che son soggetti a una litania di abusi e violenze.

Nella pratica di questi sei campi, il legame tra i crimini contro le persone migranti in detenzione e il conflitto è anche emerso dal fatto che i gruppi armati responsabili dei centri di detenzione e dei crimini che si verificano al loro interno hanno partecipato (e partecipano ancora) al conflitto in corso. Le persone migranti sono state forzate a prendere parte a attività di tipo militare, come la movimentazione o la manutenzione delle armi; e in alcuni casi, sono state finanche costrette a partecipare alle ostilità. Inoltre, queste milizie hanno il loro quartier generale negli stessi complessi dei centri di detenzione e/o hanno il controllo militare dell’area in cui si trovano i centri stessi. Senza questo controllo, non sarebbero (stati) in grado di gestire i centri e, di conseguenza, commettere tali crimini. Questo stabilisce un chiaro legame tra il conflitto e la commissione dei crimini qualificandoli crimini di guerra e attraendo la giurisdizione della CPI.

Infine, è importante anche sottolineare che la Comunicazione ricostruisce che, benché questi crimini siano (stati) commessi nella pratica da soggetti appartenenti alle milizie armate, agli stessi abbiano contribuito una molteplicità di attori, inclusi il personale della LCG che assicura l’intercettazione e il trasferimento delle persone migranti nei centri di detenzione, e le autorità di Stati europei, come quelle italiane e maltesi, che hanno assistito la LCG nel poter effettuale le sue attività e riportare le persone migranti in Libia (attraverso la fornitura di beni, attrezzature, manutenzione e formazione). Questi attori potrebbero essere riconosciuti, pertanto, come responsabili di tali crimini internazionali.

Dal gennaio 2022, ci sono state delle evoluzioni importanti circa le indagini sulla situazione in Libia e il ruolo che la nostra Comunicazione ha svolto. Nell’aprile 2022, infatti, durante un periodico aggiornamento al Consiglio di Sicurezza ONU sulla situazione in Libia, il Procuratore della CPI ha riferito che, secondo una valutazione iniziale, i crimini commessi contro le persone migranti in Libia potrebbero costituire crimini contro l’umanità e crimini di guerra e rientrare nella giurisdizione della CPI. Secondo il Procuratore, questa linea di indagine è anche il risultato della presentazione di due Comunicazioni ai sensi dell’art. 15 che hanno fornito informazioni e materiali credibili e affidabili sulla commissione di tali crimini – il riferimento è alla Comunicazione avanzata da parte di StraLi, UpRights e Adala for All; e alla Comunicazione presentata dalla Federazione internazionale dei diritti umani (FIDH), European Center for Constitutional and Human Rights (ECCHR) e Lawyers for Justice in Libya (LFJL), alcuni mesi prima, nel novembre 2021. Mai prima d’ora il Procuratore era stato così chiaro sulla natura di questi crimini o sull’intenzione del suo Ufficio di perseguire tale linea di indagine. Nel settembre 2022, l’Ufficio del Procuratore ha compiuto passo concreto aderendo formalmente al Joint Team con Italia, Paesi Bassi, Regno Unito, Europol e Spagna per indagare sui crimini contro le persone migranti e rifugiate in Libia. Nel novembre 2022, anche al fine di accelerare le indagini e la raccolta di materiale e di testimonianze da parte delle vittime, il Procuratore della CPI si è recato in Libia. Speriamo che tutto questo possa essere di buon auspicio per impedire che questi crimini così gravi e sistematici rimangano impuniti

StraLi continuerà a battersi affinché simili violazioni, estremamente gravi, possano cessare e non verificarsi più in futuro, e perché i loro responsabili siano puniti.

Per combattere questa battaglia con noi, puoi supportarci qui.

Per leggere l’intera Comunicazione, e/o il Comunicato Stampa, qui.

A cura di Serena Zanirato

LA TORTUOSA VIA VERSO LA PROTEZIONE SPECIALE

Sono passati ormai quasi due anni dalla modifica dei c.d. “Decreti Sicurezza” operata dal governo ‘Conte 2’, eppure ancora molte delle misure previste restano fumose e mal applicate.

Tra le varie modifiche apportate dal Decreto 130/2020, la più nota è stata certamente quella che ha visto l’introduzione della protezione speciale, un istituto che andava a ricalcare la vecchia protezione umanitaria che il decreto Salvini aveva cancellato.

Ad oggi, dunque, quando un rimpatrio o un’espulsione rischiano di comportare una violazione degli obblighi costituzionali o internazionali, oppure del diritto alla vita privata e familiare, o, ancora, quando si rischierebbe di esporre le persone migranti a violazioni dei diritti umani (e in alcuni altri casi che, per brevità, non andremo ad approfondire) può essere rilasciato un permesso di soggiorno per protezione speciale.

Si tratta, peraltro, di uno dei pochissimi permessi del nostro ordinamento che può essere richiesto anche da una persona che già si trova irregolarmente sul territorio nazionale e costituisce quindi un’importante risorsa per coloro che, per vari motivi, non hanno un titolo di soggiorno.

Ci sono due vie per ottenere la protezione speciale; la prima è chiedere asilo: seguendo il classico iter della protezione internazionale, infatti, è possibile, all’esito, che la Commissione o il Tribunale decidano, pur non vedendo i presupposti per lo status di persona rifugiata o per la protezione sussidiaria, di rilasciare la protezione speciale (esattamente come succedeva un tempo con il permesso per motivi umanitari).

La seconda consiste, invece, nel rivolgere un’istanza direttamente alla Questura: ed è qui che nascono i drammi.

Infatti, mentre l’iter della domanda di protezione internazionale è ormai ampiamente disciplinato, dalle leggi e dalla giurisprudenza, quando invece si chiede protezione direttamente al Questore la procedura da seguire, le tempistiche, i documenti necessari e le garanzie personali delle persone richiedenti sono tutt’oggi un mistero.

Ogni Questura ha la sua versione, ogni Questura ha la sua prassi.

A Torino, ad esempio, non si riesce a fare domanda di protezione speciale se non si possiede un documento di riconoscimento (passaporto o altro permesso di soggiorno), oppure se manca una dichiarazione di ospitalità o una residenza anagrafica: nessuna norma subordina la validità della domanda a questi documenti ma, d’altronde, nessuna norma ci dice neppure se ci siano dei documenti necessari in queste procedure. Non lo dice nemmeno il sito della Questura, sebbene poi ogni giorno vengano rifiutate moltissime domande sulla base di queste richieste.

C’è di più: da alcuni mesi la Questura di Torino ha deciso di non ricevere le domande di protezione speciale in mancanza di una memoria scritta da un avvocato o avvocata.

Al di là del fatto che, come sopra, è una decisione del tutto arbitraria e non prevista da nessuna normativa, è particolarmente grave considerato che questo tipo di attività legale non è coperta dal Patrocinio a spese dello Stato: subordinare la presentazione delle domande a questa memoria equivale a limitare l’accesso soltanto a coloro che hanno i mezzi sufficienti per pagare una figura professionista, oppure pretendere che gli avvocati e le avvocate di Torino lavorino gratis.

Naturalmente, quando scriviamo che la Questura rifiuta di ricevere le domande, ci riferiamo a rifiuti verbali, non a rigetti scritti, motivati e impugnabili in Tribunale. Se l’agente di polizia all’ingresso non vede tra i documenti in mano alla persona richiedente la memoria, la dichiarazione di ospitalità o qualsiasi altra cosa quel giorno abbiano deciso di ritenere un documento necessario, semplicemente impedirà a essa di entrare nell’Ufficio Immigrazione e di presentare la sua domanda.

Un altro elemento su cui il silenzio della legge è assordante riguarda il diritto ad avere un permesso provvisorio in attesa che la procedura si definisca.

Infatti, chi cerca di ottenere la protezione speciale attraverso il canale dell’asilo, ottiene un permesso di soggiorno provvisorio sin dalla prima domanda. Se poi la Commissione Territoriale (prima autorità che vaglia la richiesta) dovesse rigettare l’istanza, la persona richiedente potrebbe impugnare la decisione davanti al Tribunale e, anche se nell’impugnazione chiedesse esclusivamente il riconoscimento della protezione speciale, si vedrebbe riconosciuto un permesso.

Per ragioni sconosciute, così non è per chi chiede la stessa protezione direttamente alla Questura: non solo questi non si vedono riconosciuto alcun tipo di permesso in attesa della decisione questorile, ma anche nel caso in cui dovesse impugnare un diniego davanti al Tribunale non vedranno per anni alcun titolo che regolarizzi la loro posizione.

La cosa incredibile è che la Questura di Torino insiste nel non rilasciare questi permessi provvisori anche nel caso in cui il Tribunale ordini esplicitamente la sospensione degli effetti del provvedimento con cui il Questore ha negato la protezione, riconoscendo la sussistenza di particolari ragioni che giustificano la presenza della persona richiedente sul territorio italiano fino alla decisione.

In altre parole, il Tribunale si esprime dicendo che il provvedimento questorile deve ritenersi sospeso e che, fino alla fine della procedura, la persona ha il diritto di vivere in Italia e di non essere espulsa. La Questura ritiene che ciò comporti soltanto l’inespellibilità e non il rilascio di un permesso di soggiorno: ma senza permesso, i soggetti in questione non possono lavorare, affittare una casa, accedere pienamente al servizio sanitario nazionale per anni, fino a quando il Tribunale non si esprimerà definitivamente sulla causa.

Al di là della disparità di trattamento con chi richiede la stessa protezione nell’ambito del sistema asilo, è evidente che negare un permesso di soggiorno a chi ha il diritto di stare sul territorio nazionale è una violazione dei suoi diritti.

Alcuni tribunali italiani si sono già pronunciati su questo tema (ad esempio Roma e Bologna), ordinando alle Questure di rilasciare i permessi di soggiorno provvisori anche a chi abbia chiesto la protezione speciale direttamente al Questore.

Pur credendo nel grande ruolo che la Giurisprudenza può giocare nel colmare le lacune normative, è essenziale che si intervenga a livello legislativo quanto prima per integrare le norme previste e consentire che i diritti delle persone migranti siano garantiti in modo uniforme sull’intero territorio nazionale.

A cura di Elena Garelli

CRIMINALIZZAZIONE DELLA SOLIDARIETÀ: IL FENOMENO EUROPEO A CUI L’ITALIA NON FA ECCEZIONE

Stiamo assistendo a quello che è un vero e proprio fenomeno di criminalizzazione della solidarietà di coloro che si mettono a disposizione delle persone migranti e richiedenti asilo ai confini territoriali dell’UE (ma non solo!). La criminalizzazione della solidarietà non è un atto sporadico, non ha fondamento fattuale, e non è una pratica appartenente ad un singolo Stato europeo, ma geograficamente diffusa e condivisa sul territorio UE. Questa pratica cerca di rappresentare, insieme ad altre policy migratorie come l’esternalizzazione delle frontiere, un deterrente sia per coloro che dedicano il proprio tempo al salvataggio di vite umane sia per chi inizia il viaggio nella speranza di una vita dignitosa. Tutto questo, ça va sans dire, in violazione del diritto internazionale.

Negli ultimi anni, infatti, nei Paesi che rappresentano il confine “esterno” del territorio comunitario (ma non solo, purtroppo!) hanno iniziato ad essere documentati atti di molestie e vessazioni, fino ad arrivare a procedimenti penali da parte delle autorità nazionali nei confronti di persone che partecipavano ad attività umanitarie (contribuendo direttamente allo sforzo che dovrebbe essere collettivo di salvare vite umane), tramite un uso distorto e abusivo delle normative esistenti. La criminalizzazione, quindi, è contro chi a tutti gli effetti si batte per i diritti umani del mondo occidentale.

Nel febbraio 2017, tre persone appartenenti a una troupe giornalistica, che stavano seguendo le rotte percorse dalle persone migranti al fine di produrre un documentario, hanno subito una condanna, per aver “facilitato l’entrata illegale” in Svezia di un ragazzo quindicenne siriano. Amnesty International, nel suo Report relativo alla criminalizzazione della solidarietà verso le persone migranti nel Nord della Francia, riporta che tra il 2017 e il 2018 molteplici volontari, tra gli altri, della ONG “L’Auberge des Migrants” che opera a Calais (dove era presente un campo per persone richiedenti asilo e rifugiate soprannominato “The Jungle”, la giungla per le condizioni inumane e degradanti in cui versava) sono state intimidite, molestate, minacciate e finanche arrestate e accusate di svariati reati, tra cui diffamazione di pubblici ufficiali per aver documentato sui propri account social gli abusi e le violenze perpetrati dalle autorità e polizia.

Un po’ in controtendenza, però, nel 2018, in una decisione storica, la Corte Costituzionale francese ha stabilito che il c.d. “reato di solidarietà” (délit de solidarité), che criminalizza una persona che faciliti l’ingresso irregolare, non deve essere imputato per qualsiasi atto fornito per scopi umanitari, osservando che la libertà di aiutare altri individui con uno scopo umanitario, senza tenere conto della legalità del loro soggiorno in Francia, può essere dedotta dal “principio costituzionale di fraternità”.

Dunque, il giudiziario ha espresso un approccio che va nella direzione del rispetto dei diritti umani, del diritto internazionale e nel riconoscimento dell’aiuto umanitario come azione di solidarietà tra gli esseri umani in situazioni più vulnerabili. Si prenda ad esempio non solo la summenzionata sentenza della Corte Costituzionale francese, ma anche la sentenza della Corte di Cassazione italiana (2020) sul noto caso di Carola Rackete in cui accettava l’argomentazione del gip di Agrigento secondo cui, nel rispetto del diritto internazionale, Rackete giustamente disattendeva l’ordine di divieto d’ingresso nelle acque nazionali con la Sea Watch 3. Nonostante ciò, i poteri esecutivi dei Paesi europei e, di conseguenza, le forze dell’ordine continuano a mantenere un approccio che si fa sempre più stringente nei confronti di coloro che offrono aiuto umanitario.

E infatti, su questa linea, lo scorso 10 gennaio è iniziato a Mitilene (Lesbo, Grecia) il processo penale contro ventiquattro fra operatori e operatrici umanitarie, tra cui Sarah Mardini (la cui storia e il cui viaggio insieme alla sorella Yusra, è stato raccontato nel film Netflix “The Swimmers”), Sean Binder and Nassos Karakitsos. Il procedimento a loro carico è iniziato nel 2018 quando sono arrestati e detenuti per un periodo di oltre cento giorni in attesa di giudizio e da cui sono usciti su cauzione. Sarah, Sean e Nassos hanno lavorato nel soccorso in mare per Emergency Response Center International (ERCI) tra il 2016 e il 2018, periodo in cui le persone salvate in mare sono state più di mille e il lavoro umanitario è stato cruciale. Le accuse a loro carico, tra le altre, sono state di contrabbando di persone, riciclaggio di denaro, spionaggio, frode e appartenenza ad un’organizzazione criminale. In caso di condanna, avrebbero dovuto scontare venticinque anni di carcere. Lo scorso 13 gennaio, però, dopo ben cinque anni di attesa, la Corte greca ha deciso di respingere le accuse e optare per il proscioglimento, soprattutto a causa di errori procedurali – tra cui la mancata traduzione nella madrelingua delle persone imputate delle summenzionate accuse. Tutto è bene quel che finisce bene? Certamente l’attenzione mediatica e le campagne di advocacy (tra cui la famosa “Free Humanitarians”) che si sono susseguite negli ultimi mesi hanno avuto un impatto importante sulla decisione finale, poiché hanno portato le autorità greche a dover riconoscere gli errori procedurali susseguitesi e, di conseguenza, il proscioglimento. Quello che è anche certo, però, è che questo esito non ha riconosciuto che la solidarietà, le azioni di salvataggio in mare, gli aiuti umanitari non siano un crimine.

Questa è una preoccupazione anche espressa dalla Relatrice Speciale per i difensori dei diritti umani dell’ONU: nel novembre 2021, infatti, in merito a questa vicenda Mary Lawlor ha dichiarato che “un verdetto di colpevolezza […] creerebbe un pericoloso precedente di criminalizzazione delle persone che sostengono i diritti dei migranti e dei rifugiati in tutta la Grecia e nell’Unione Europea”. Ma non solo: la Relatrice Speciale ha anche affermato che tutto ciò “porterebbe a più morti in mare”. Questo perché il fenomeno della criminalizzazione della solidarietà e del supporto umanitario ha un c.d. chilling effect, ossia scoraggiare coloro che vorrebbero intraprendere questo tipo di azioni a fronte di una (velata o meno) minaccia di sanzioni.

Questi sono, però, solo alcuni dei casi mediaticamente più conosciuti. Secondo uno studio condotto da ReSOMA (Research Social Platform On Migration), infatti, solo fino al dicembre 2019, centosettantuno persone in tradici Paesi dell’EU sono state perseguite penalmente per le loro azioni umanitarie.

…Come sia possibile tutto questo?

Nel 2002, il Consiglio dell’UE adotta la c.d. Facilitation Directive, volta a definire il favoreggiamento dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali nel territorio comunitario. Ai sensi dell’art. 1 (1) (a), è passibile di sanzione “chiunque intenzionalmente aiuti una persona che non sia cittadino di uno Stato membro ad entrare o a transitare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa all’ingresso o al transito degli stranieri”, così definendo (seppur in modo vago) il reato di facilitazione dell’ingresso e del transito. Secondo l’art. 1 (1) (b), invece, integra il reato di facilitazione di soggiorno “chiunque intenzionalmente aiuti, a scopo di lucro, una persona che non sia cittadino di uno Stato membro a soggiornare nel territorio di uno Stato membro in violazione della legislazione di detto Stato relativa al soggiorno degli stranieri.”. Questo sembrerebbe, dunque, il fondamento giuridico che “giustificherebbe” le azioni delle autorità degli Stati europei. Se non fosse che la legislazione in questione attribuisce agli Stati Membri la facoltà di esentare le azioni umanitarie dall’elenco dei reati (art. 1 (2)). Proprio richiamando questa disposizione, e rammaricandosi che pochi Stati Membri avessero incorporato l’esenzione per “assistenza umanitaria” nelle loro legislazioni (allo stato attuale, 9 Stati UE), il Parlamento Europeo nel 2018 ha adottato una risoluzione non vincolante in cui ha espresso preoccupazione sul fatto che le leggi dell’UE sull’aiuto alle persone migranti stiano avendo conseguenze indesiderate per coloro che forniscono loro assistenza umanitaria. Dopo quasi cinque anni, la situazione non è andata migliorando, e anzi, la solidarietà è sempre più spesso criminalizzata. E proprio lo scorso 18 gennaio, il Parlamento Europeo in seduta plenaria è ritornato sul tema e la Commissaria Johansson ha fermamente dichiarato che “l’assistenza umanitaria […] non può e non deve essere criminalizzata”.

E cosa sta succedendo in Italia?

Dal canto suo, la posizione geografica del Bel Paese non gli consente di esimersi dall’essere, spesso, al centro dell’attenzione in riferimento a procedimenti, giudiziali e non, di criminalizzazione della solidarietà.

Spesso, tuttavia e per fortuna, i procedimenti penali aperti a carico di chiunque si prodighi per salvare vita nel Mediterraneo si concludono senza alcuna condanna. Seppur, quindi, vi è una tendenza almeno a tentare di condannare la solidarietà, perseguendo chi decida di occupare la propria vita per salvare la vita a chi parte alla volta del Mediterraneo alla ricerca di una nuova vita, più degna, sembra esserci, anche, una tendenza a riconoscere (seppur indirettamente) il valore sociale di chi si prodiga per salvare la vita altrui.

Vi è un caso, però, che non solo non sembra in procinto di chiudersi velocemente ma appare anche esemplificativo della volontà di voler, ad ogni costo, trovare il modo di processare la solidarietà. Ci riferiamo al noto caso IUVENTA (nave che ha salvato più di 14.000 vite nel Mediterraneo prima di trovarsi, per anni, ferma in porto, sotto sequestro), aperto a Trapani. Attualmente il procedimento penale a carico dell’equipaggio della IUVENTA si trova nella fase dell’udienza preliminare ma sembra procedere a rilento per una serie di “sfortunate coincidenze” fino a questo punto, quali i continui rinvii delle udienze per arrivare alla negazione, ai soggetti coinvolti, apolidi, di un traduttore adeguato. Queste hanno, ognuna per la sua parte, contribuito a creare un clima di estrema sfiducia nei confronti dell’amministrazione della giustizia. In particolare, preme evidenziare come il procedimento a carico dell’equipaggio della IUVENTA configuri un esempio di come la giustizia venga, spesso, esercitata con pesi e misure diverse in riferimento al soggetto che subisce il processo.

In tal senso, appare particolarmente significativo come, all’equipaggio della IUVENTA, sia stata negata la presenza di un traduttore adeguato per potergli permettere di seguire (e capire) il procedimento a proprio carico. Ancora una volta, quindi, il procedimento penale diventa non solo un mezzo per (cercare di) amministrare la giustizia ma uno strumento di emarginazione per le categorie più deboli (come quella degli apolidi). Il diniego di una traduzione adeguata del procedimento penale si risolve, evidentemente, in una negazione all’esercizio del diritto di difesa, il quale, per essere considerato tale, deve necessariamente risultare in una difesa che possa definirsi, per costante giurisprudenza convenzionale, pratica ed effettiva. Nel caso IUVENTA non vi è molto da indagare in riferimento all’effettività e praticità del diritto di difesa, essendo impedito, addirittura, il diritto alla traduzione.

Troppo spesso la giustizia sembra essere incapace di garantire lo stesso grado di tutela dei diritti a tutte le categorie di persone processate (Lino Pepino parla, non a caso, di una giustizia forte con i deboli ma debole con i forti) e tale tendenza sembra acuirsi nei procedimenti aperti, in Italia e in Europa, a carico – spesso – di volontari. Persone che dedicano il proprio tempo libero o, addirittura, la propria vita, a cercare di salvare vite, aiutando chi si trova ad affrontare uno dei viaggi più pericolosi possibili (la traversata del Mediterraneo).

A cura di Serena Zanirato e Carlotta Capizzi

PIÙ TENSIONI, PIÙ ARMI

L’equazione “più tensioni-più armi” è una costante nel nostro ordinamento, se non addirittura globale. La connessione tra l’ambito delle armi e quello dell’ordine pubblico e della sicurezza si riflette implicitamente nel nostro stesso quadro costituzionale, che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in queste due materie (art. 117, comma 2, lett. d) e lett. h) della Costituzione). Invero, è la legislazione statale a stabilire cosa debba intendersi per “armi” ed i limiti entro i quali se ne possa ammettere l’uso, e allo stesso tempo a disciplinare i casi e i modi di utilizzo di queste da parte delle forze di polizia, anche locale, per garantire l’ordine pubblico e la sicurezza (a titolo esemplificativo, la legge n. 65/1986 disciplina l’ordinamento della polizia municipale e l’armamento di questa).

Se si prende ad esempio la nostra recente storia legislativa, si può notare che le normative concernenti l’introduzione dell’utilizzo di nuove armi sono state adottate per ragioni di contrasto a fenomeni di illegalità e violenza in occasione di manifestazioni sportive, di riconoscimento della protezione internazionale e in generale per ragioni di sicurezza pubblica. In particolare, ambiti quali i disordini durante le manifestazioni sportive o la richiesta di protezione internazionale hanno portato all’adozione del decreto-legge n. 119/2014, convertito con la legge n. 146/2014, il quale ha previsto l’avvio della sperimentazione della pistola elettrica cosiddetta TASER. Questa parola è l’acronimo di “Thomas A. Swift’s Electric Rifle”, che si riferisce al libro per bambini Tom Swift and His Electric Rifle di Victor Aplleton, pubblicato nel 1911. Oggi il TASER rientra normativamente nella categoria di “arma comune ad impulsi elettrici” (a seguito del d.l. n. 113/2018). Si tratta, infatti, di una pistola elettrica che emette brevi scariche ad alta tensione e bassa intensità al fine di immobilizzare e quindi neutralizzare il soggetto che le riceve, provocando una momentanea paralisi dei muscoli ed evitando quindi il contatto fisico diretto. Sono nuovamente ragioni in materia di immigrazione, sicurezza pubblica, “funzionalità del Ministero dell’Interno” e criminalità organizzata a fare sì che venga adottato il decreto-legge del 4 ottobre 2018 n. 113, convertito, con modificazioni, in legge n. 132 del 1º dicembre 2018. L’art. 19 di tale normativa ha previsto la proroga della sperimentazione dei dispositivi ad impulso elettrico, da avviare presso la polizia locale. La possibilità di utilizzarli sarebbe determinata sulla base di condizioni predefinite, anche in accordo con le aziende sanitarie locali, ed all’esito di una procedura che vede coinvolta la Conferenza unificata, ovverosia la Conferenza Stato-città ed autonomie locali e la Conferenza Stato-Regioni, e l’adozione di un decreto ministeriale. Lo strumento è stato dato in dotazione in via prodromica e sperimentale alle forze di polizia di alcune città italiane. È importante sottolineare che, pur avendo qualificato questi dispositivi come “armi” (d.l. n. 119/2014, d.l n. 113/2018 e l. n. 110/1975), A livello legislativo, tuttavia, non sono ancora stati inclusi, in modo definitivo, nella dotazione di armamento delle forze di polizia, salvo prevedere tali percorsi di sperimentazione. La sperimentazione adottata con i decreti sopracitati rimane, quindi, ad oggi, una sperimentazione. La Suprema Corte, con sentenza n. 126 del 24 maggio 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 5 della legge della Regione Lombardia n. 8/2021 limitatamente alle parole “dissuasori di stordimento a contatto”. Invero, la normativa regionale aveva previsto la possibilità per la polizia locale di dotarsi di dispositivi ad impulso elettrico a contatto, ampliando il catalogo degli strumenti in dotazione ai corpi in servizio. La Regione, stabilendo che le forze di polizia locale possono dotarsi di tali dispositivi, ha violato la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di armi (art. 117, comma 2, lett. d), Cost.).

Dissuasori di stordimento a contatto, arme ad impulso elettrico, storditori elettrici, stungun, TASER, sono tutti nomi con cui si indicano questi strumenti, operanti vuoi toccando fisicamente il corpo dell’offeso vuoi mediante il lancio di piccoli dardi che a contatto con la persona scaricano energia elettrica. La Corte costituzionale italiana ha più volte affermato che i dispositivi in questione sono idonei a recare un danno alla persona (Corte di cassazione penale, sent. n. 4627/2021; Corte di cassazione penale, sent. n. 49325/2016). I potenziali rischi per il soggetto che riceve le scariche elettriche possono riguardare un’imminente caduta a causa dell’immobilizzazione, le condizioni psico-fisiche particolari dell’individuo colpito (delle quali l’operatore può non essere a conoscenza al momento dell’azione), come anche l’errore di mira, con conseguenti lesioni in parti sensibili del corpo. Si tratta di strumenti sicuramente in grado di offendere l’incolumità delle persone. L’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) ha definito il TASER uno strumento di tortura. Infatti, in alcuni Stati quest’arma è ampiamente utilizzata e non sempre in maniera legale.

Nonostante ciò, è evidente la necessità, in presenza di tensioni, di rispondere alle esigenze di ordine pubblico tramite l’utilizzo di simili equipaggiamenti. Ci si chiede se sia questa la risposta giusta e più efficace. L’Agenzia europea dei diritti fondamentali, ad integrazione delle formazioni di altre agenzie europee del settore, ha elaborato un manuale di formazione del personale di polizia basata sui diritti fondamentali, che possa aiutare le forze dell’ordine a rispettarli e proteggerli concretamente, garantendo l’uso della forza esercitato in conformità dei principi di legalità, necessità e proporzionalità ai fini di tutelare diritti quali la non discriminazione, la dignità e la vita. È questa la principale sfida delle attività di polizia: quella di proteggere i diritti umani con i mezzi meno intrusivi. Spesso, tuttavia, le forze dell’ordine percepiscono i diritti umani come un ostacolo alle proprie attività di lavoro, dando origine ad una dicotomia tra sicurezza, da un lato, e diritti umani, dall’altro. Un corpo di polizia che opera con professionalità orientando le proprie attività ai diritti fondamentali, invece, è un’importante fonte di legittimità. Se la maggior parte degli strumenti utilizzati ha come obiettivo quello di recare un danno alla persona, tale fiducia viene inevitabilmente meno. Sono senza dubbio comprensibili il disagio ed i problemi che si affrontano “in strada”, ma bisognerebbe valorizzare l’idea che la polizia è piuttosto un’istituzione deputata all’erogazione di servizi alla cittadinanza e non un solo un corpo armato orientato al controllo.

A cura di Nicole Valentina Zemoz

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