RIUNIONI O INVASIONI – PARLIAMO BENE DEL “DECRETO RAVE”

Qualche tempo dopo l’emanazione del c.d. “Decreto Rave”, a mente fredda, abbiamo provato a fare una riflessione un po’ più ampia sulla disposizione e sulle sue implicazioni.

Come noto, in occasione del primo Consiglio dei Ministri, il nuovo Governo ha approvato il Decreto Legge n.162 contenente “Misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia, nonché in materia di obblighi di vaccinazione anti SARS-COV-2 e di prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 31 ottobre 2022.

In particolare, l’art. 5 del decreto introduce norme in materia di occupazioni abusive e raduni illegali, modificando la fattispecie di cui all’art.434-bis del codice penale, anche se solo in senso formale.

La norma dispone che: “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica consiste nell’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati, commessa da un numero di persone superiore a cinquanta, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica. Chiunque organizza o promuove l’invasione di cui al primo comma è punito con la pena della reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro 1.000 a euro 10.000. Per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita.”

L’occasione per l’utilizzo (proprio necessario?) della decretazione d’urgenza è sorta da un rave party organizzato, svoltosi e poi interrotto a Modena. La disciplina pertanto sembrerebbe collocarsi in un determinato ambito, almeno per quanto riguarda la finalità esplicitamente dichiarata dal Governo. Tuttavia, la portata estensiva e arbitraria della norma, di fatto non tipizza in modo tassativo e determinato la condotta di invasione penalmente rilevante e dunque, potrebbe essere applicata a molti altri casi concreti in cui sono presenti analogie. Ma su questo l’art.17 della Costituzione è molto chiaro: “I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi. Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso. Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.”

Di contro, i rave sono contesti liberi e gratuiti, che rappresentano una società pluralista e inclusiva; nascono alla fine degli anni ‘80 come atti di dissidenza politica e diventano un vero e proprio stile di vita, contro il proibizionismo e la repressione, costituendo oggi un fenomeno culturale esistente in tutto il mondo. Ad oggi, a latere di una sempre maggiore repressione giudiziaria, si nota il crescente utilizzo di strumenti “di polizia” quale l’ampio utilizzo di misure di prevenzione e, nello specifico, di fogli di via obbligatori adottati nei confronti di partecipanti ai rave parties. Sul punto, StraLi ha già avuto modo di contestare tale utilizzo dinnanzi alle autorità giudiziarie competenti, ottenendo importanti risultati, ai quali si rimanda (https://www.strali.org/ilcasomisurediprevenzione).

La norma in analisi, costituisce un reato di pericolo, privo di logica giuridica perché collegato a due elementi: la partecipazione di un numero superiore a cinquanta persone e lo scopo di invasione legato all’organizzazione di un raduno. La condotta di organizzazione deve quindi essere dolosa e posta in essere prima dell’invasione di un “un numero di persone superiore a cinquanta”, sicché non basterà individuare trenta persone occupanti arbitrariamente un edificio o un terreno per procedere all’applicazione della legge.

Inoltre, le pene edittali sono molto elevate, sia per chi organizza che per chi partecipa, e questo impedirebbe la messa alla prova di cui all’art.168-bis c.p. che consente di ottenere l’estinzione del reato, a seguito di condotte volte all’eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose derivanti dal reato, nonché, ove possibile, il risarcimento del danno dallo stesso cagionato.

Poi, non è chiaro come si possa identificare il pericolo per l’ordine pubblico, l’incolumità̀ pubblica o la salute pubblica – previsto come elemento necessario della norma – e come lo si possa riferire ad un’occupazione arbitraria, con un’incriminazione piuttosto severa che si presta ad applicazioni poliziesche di repressione del dissenso: tale pericolo da dove dovrebbe nascere? Il raduno sarebbe meno pericoloso se si verificasse in accordo col proprietario di un terreno che mette a disposizione il proprio immobile? Non si rischia in tal modo di inserire in una prescrizione penale un elemento eccessivamente discrezionale, tipico di misure di polizia o comunque di organi quali la Questura o la Prefettura?

L’ultimo comma della norma, sulla “confisca obbligatoria estesa alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché di quelle utilizzate nei medesimi casi per realizzare le finalità dell’occupazione”, sembra rappresentare una scelta di politica legislativa contraria al principio di ragionevolezza e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti. In questo caso, potranno essere applicate misure ablatorie e di prevenzione, quali la sorveglianza speciale o la confisca obbligatoria, al pari di quanto previsto per i sospettati di reati di mafia, i cui fatti potenzialmente interferiscono con i diritti costituzionali, quali in particolare il diritto di riunione, di manifestazione del pensiero, di associazione e di sciopero.

La vaghezza della norma potrebbe non costituire un difetto per chi legifera, ma un modo per consentire ampi spazi di intervento delle forze dell’ordine, che potranno intervenire in via anticipata, anche solo qualora il pericolo fosse presunto, senza dover troppo dimostrare, in termini di giudizio, la pericolosità effettiva del raduno. Ma aldilà dello specifico fenomeno di rave party, la portata applicativa della norma travalica le motivazioni di questa scelta politica, collocandosi in uno Stato democratico, basata sul pubblico confronto, sulle riunioni e sui raduni, in qualsivoglia contesto sociale.

Pur con molte perplessità, dunque, attendiamo la conversione in legge del decreto – è attualmente in corso di esame in commissione al Senato https://www.senato.it/leg/19/BGT/Schede/Ddliter/55935.htm – per valutare le modifiche apportate sulla disciplina, rimanendo comunque vigili e pronti ad individuarne eventuali profili di incostituzionalità.

A cura di Sara Bruno

LA LUNGA STRADA VERSO IL (E LONTANO DAL) 25 NOVEMBRE

Il 25 novembre ricorre ogni anno a ricordarci i connotati violenti della discriminazione nei confronti delle donne. Nella giornata eletta dall’Assemblea Generale dell’ONU quale memento annuale della lotta alla violenza di genere, sorge spontaneo soffermarsi a riflettere sull’evoluzione che tale fenomeno attraversa e le oscillazioni che lo riguardano. Di anno in anno, siamo portati a chiederci quale sia il bilancio rispetto all’anno precedente, se vi sia stata una variazione nei dati, se possa dirsi che questi dati riflettano il diffondersi di una cultura che fa del rifiuto della violenza la propria imprescindibile premessa. Nell’accostarsi a tali valutazioni, appare di particolare rilievo inserirle nella cornice legislativa del panorama internazionale: mentre gli strumenti messi a disposizione dal panorama nazionale tendono ad essere più noti e fruibili, si tende spesso a trascurare il contesto più ampio offerto dal diritto internazionale.

Al contrario, è proprio in tale contesto che, sulla scia delle istanze femministe degli anni Settanta, i diritti delle donne hanno acquisito rilievo autonomo e precipuo anche da un punto di vista legislativo. Divenuti consapevoli delle discriminazioni che colpiscono le donne in maniera sproporzionata, gli Stati hanno formalmente preso l’impegno di assicurare la parità sostanziale, oltre che formale, di ogni essere umano dinanzi alla legge e, a tal fine, rimuovere attivamente gli ostacoli che lo impediscano.

Era il 18 dicembre 1979 quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la Convenzione per l’Eliminazione di Tutte le forme di Discriminazione contro le Donne (CEDAW), tutt’oggi il più importante strumento internazionale giuridicamente vincolante in materia di diritti delle donne. La cifra distintiva della Convenzione, nonché il suo maggior pregio, è quella di aver offerto per la prima volta una definizione di “discriminazione nei confronti delle donne” condivisa da tutti gli Stati parte, che abbraccia “ogni distinzione, esclusione o limitazione basata sul sesso, che abbia come conseguenza, o come scopo, quello di compromettere o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio da parte delle donne, quale che sia il loro stato matrimoniale, e su una base di uguaglianza tra l’uomo e la donna, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in ogni altro campo” (art. 1 CEDAW). Attraverso questo strumento, gli Stati firmatari della Convenzione hanno condannato “la discriminazione nei confronti delle donne in tutte le sue forme”, convenendo di impegnarsi a garantire l’applicazione effettiva del principio di uguaglianza tra uomo e donna attraverso l’introduzione, o la modifica, di strumenti legislativi adeguati, che assicurassero la piena adesione e la conformità a tale obbligo da parte di autorità, enti pubblici e istituzioni (art. 2).

Il Comitato CEDAW è stato introdotto con l’intento di assicurare l’interpretazione e l’applicazione uniforme della Convenzione a livello globale. A tal fine si è dotato dello strumento delle Raccomandazioni Generali, delle quali si è servito per chiarire e definire la portata della Convenzione, colmando talune lacune lasciate nel testo dall’acerbità del dibattito in tema di diritti umani delle donne sul finire degli anni Settanta. Le Raccomandazioni Generali, tra le altre cose, descrivono le forme che può assumere la discriminazione nei diversi ambiti della vita sociale, lavorativa e politica, indicando misure concrete che gli Stati sono incoraggiati a intraprendere per contrastare questo fenomeno. Queste comprendono la conduzione di indagini e la raccolta di dati statistici, la promozione di programmi di formazione per i membri dell’apparato giudiziario e di polizia, la promozione di campagne di sensibilizzazione, l’istituzione di programmi di riabilitazione per gli autori di violenza, programmi di informazione e di educazione, servizi di supporto alle famiglie delle vittime (para. 24 Raccomandazione Generale n. 19).

Altrettanto significative, tra le mansioni affidate al Comitato, sono le Comunicazioni. A seguito dell’adozione del Protocollo Facoltativo alla CEDAW nel 2000, le cittadine degli Stati firmatari che lamentino una mancata protezione dei propri diritti da parte delle autorità statali possono sottoporre la questione al Comitato, ricevendo da quest’ultimo un parere non vincolante. Anche attraverso questo strumento, il Comitato non ha mancato di evidenziare che, alla luce delle disposizioni della Convenzione, si richiede agli Stati non solo che assicurino alla donna una risposta istituzionale adeguata e tempestiva, ma anche che assumano l’adeguata diligenza nell’impedire la commissione di tali atti da parte di privati, nel condurre le relative indagini, e nell’assicurare pieno risarcimento quando dovuto.

Gli obiettivi prefissati dalla CEDAW sono stati ripresi da una serie di strumenti legislativi successivi. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite si è riunita nuovamente nel 1993 per adottare la Dichiarazione sull’Eliminazione della Violenza contro le Donne e istituire la figura della Relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla Violenza contro le Donne, le sue Cause e le sue Conseguenze. Il Consiglio d’Europa ha adottato ad Istanbul nel 2011 la Convenzione sulla Prevenzione e la Lotta contro la Violenza nei confronti delle Donne e la Violenza Domestica (la c.d. Convenzione di Istanbul).

Quest’ultima ha mutuato il gergo usato dalla CEDAW, e si è dotata a sua volta di un meccanismo di controllo, il GREVIO, che valuta in maniera indipendente il rispetto da parte degli Stati degli obblighi da essa derivanti. Le valutazioni svolte periodicamente da questo Gruppo di Esperti mettono in luce diversi aspetti di criticità, tra cui spicca il permanere di zavorre culturali che impediscono il pieno esercizio dei propri diritti da parte delle donne.

A fronte di tale panorama legislativo, sorge spontaneo chiedersi quale impatto effettivo abbiano tali strumenti nella vita quotidiana delle donne. In tal senso è abbastanza significativo che, come notato dal Parlamento Europeo nella Risoluzione del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione di Istanbul, in base alle indagini effettuate dall’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), nessun Paese dell’Unione Europea abbia ancora conseguito pienamente la parità di genere. Peraltro, abbastanza tristemente, oltre dieci anni dopo la sua approvazione, ancora non tutti gli Stati membri dell’Unione Europea hanno aderito alla Convenzione di Istanbul.

Questa arretratezza è particolarmente vera per l’Italia che, pur a fronte di una attività legislativa all’apparenza adeguata, si scontra con il permanere di barriere tangibili ed invalicabili che ostacolano le donne nel pieno esercizio dei loro diritti. Nonostante l’esistenza di spinte contrarie che puntano all’evoluzione della situazione, i dati parlano chiaro: resta difficile per le donne essere credute (o non ri-vittimizzate) quando denunciano violenza sessuale o maltrattamenti, resta difficile ottenere provvedimenti cautelari effettivi che le tutelino dai loro aggressori, e ancor più confidare in un giudizio equo dinanzi all’organo giudicante e vedere riflesso anche in ambito civile, nelle cause relative all’affidamento della prole, l’esito dei giudizi che condannano i loro partner violenti in ambito penale. Sebbene la Cassazione aderisca ormai in maniera granitica all’orientamento che include il consenso quale elemento caratterizzante il reato di violenza sessuale, la nostra legislazione lo ritiene tanto marginale da non averlo ancora incluso nella definizione della fattispecie di reato (art. 609-bis c.p.). Per quanto riguarda il femminicidio, parossismo di questa mancata tutela, i dati restano allarmanti e, la prima metà di 2021, si parla di circa uno ogni quattro giorni.

Per la sua visione antiquata e stereotipata della violenza di genere in ambito giudiziario, l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo più volte, a partire dalla storica sentenza Talpis v Italia. L’anno scorso, in particolare, la Corte EDU ha censurato il “linguaggio colpevolizzante e moraleggiante” adottato dalla Corte d’Appello di Firenze nella decisione di un caso di violenza sessuale di gruppo che assolveva gli imputati per mancanza di credibilità della persona offesa.

Nonostante l’emanazione della l. n. 69/2019, c.d. Codice Rosso, con il precipuo intento di introdurre nel nostro ordinamento un regime di particolare tutela, di carattere sostanziale e processuale, nei confronti delle donne vittime di violenza, permangono radicati gli stereotipi di genere, i quali esplicano la loro brutalità non soltanto nella commissione dei reati, ma anche, e più gravemente, nella risposta istituzionale dei soggetti che, a fronte di tali reati, dovrebbero assicurare protezione e tutela alle persone offese.

Mentre gli strumenti predisposti a livello internazionale abbisognano di un intervento attivo da parte dei legislatori nazionali, affinché sia dato corso agli obblighi assunti, è altresì vero che senza tali strumenti la strada da percorrere sarebbe ancor più lunga e tortuosa. Essi, infatti, definiscono il contenuto minimo che tutti gli Stati parte sono tenuti ad assicurare alle donne di tutto il mondo, impongono lo standard al di sotto del quale non può propriamente parlarsi di tutela.

Tuttavia, da sole, le fonti di diritto non bastano: serve un ripensamento sistemico circa la capacità del sistema giudiziario di comprendere il fenomeno della violenza di genere e predisporre adeguati strumenti di tutela in tal senso, tanto successiva quanto preventiva. Ciò non può che avvenire, necessariamente, nella fase dell’educazione e della sensibilizzazione, a tutti i livelli e in tutti gli aspetti della vita. Secondo il meccanismo che è proprio dei diritti umani, l’individuazione di ciò che “ci si augura sia” è necessario ad individuare il punto di arrivo, e di nuova ripartenza, ovvero il raggiungimento di un ideale in cui nessuna convenzione e nessuna carta saranno più necessarie.

Il 25 novembre commemora la lotta alla violenza di genere di carattere fisico. Tutti gli altri giorni dell’anno continuano a combatterla su tutti i fronti.

A cura di Sarah Lupi

LAWS CAN’T HIDE NO MORE

Wars have always constituted a momentum of significant technological advancement. It was so then: it is so today, including in the war in Ukraine. Even though in this specific case only two are the parties confronting themselves on the ground, many more States contribute indirectly to supporting one party or the other as the conflict unfolds.


In this respect, weapons are largely provided on both sides. Notably, it has been since the beginning of the conflict that Ukraine purchases autonomous weapons from several countries – Turkey in the first place. So has Russia allegedly done with North Korea.

More recently US has reportedly planned to sell to Ukraine very peculiar and highly technological weapons: the MQ-1C Gray Eagles. In the same wake, Turkey has been a large supplier of Bayraktar-TB in Ukraine and in Nagorno Karabakh before.

These are drones that can be armed with specific missiles for battlefield use. They carry out armed attacks and show a great capacity in terms of outreach, precisions, and weight (rectius: number of weapons) they may carry.

In fact, both these weapons subscribe to the category of lethal autonomous weapon systems (LAWS), i.e., systems that are, to a different extent, unmanned. In other terms, they operate without human input, or quite so.

This article provides some little guidance to get us some bearings in the universe of lethal autonomous weapons and shed a light on relating major legal debates – as the notion of autonomy in the context of weaponry is still under dilemma and shows a certain degree of controversies, on both political and legal levels.

To begin with, the concept of autonomy calls for some clarification. The ICRC defines LAWS as ‘weapon systems that can learn and adapt [their] functioning in response to changing circumstances in the environment in which [their] are deployed’. However, there is no general agreement on the definition and parties have come up with alternatives focusing, at times, on technical elements, at others, on human control. In this respect, a comprehensive overview is provided by UNIDIR (United Nations Institution for Disarmament Research).

At any rate, those systems rely on artificial intelligence (AI), which generally refers to the capacity of machines to emulate human thought and replicate human action in real-world environment. A specific set of AI is what is called machine learning. Machine learning systems are endowed with algorithms allowing them to elaborate data and come up with patterns through which they adjust their own behavior. All happens without human intervention. Experts distinguish AI from machine learning by referring to narrow AI and general AI. In the former case, machine will be provided with data (and guidance) they will act upon: they are designed for specific tasks. In the latter case, instead, general artificial intelligence (GAI) acts upon some input and little (or no) oversight: machines of this kind elaborate preliminary data, make relations between them, and come up with ultimate results that are far stretched from the initial data provided. Possibly, they may cover a far-fetched range of tasks.

For instance, a narrow AI system will need a specific identity to target someone. On the contrary, GAI can be given with general information (such as, general physical features), which will be processed and it will act accordingly. Machine learning refers to this latter category. This technology informs the level of autonomy machines used in warfare have. In this respect, for classification’s sake, experts do not tend to refer to the quality of AI implied only, but, most importantly, to the level of human control that rests upon those systems. In this wake, LAWS are subdivided into three categories:

  1. Human in the loop. Humans play a role in all steps of their implementation and activation, from programming, to planning an attack until controlling it and eventually deactivating it. In other words, those weapons perform tasks independently but only when delegated by their (human) operator.
  2. Human on the loop. Those systems that carry out attacks independently, but constantly supervised by human control. Humans can eventually override any decisions.
  3. Human out the loop or fully autonomous weapons. Except for programming part, those weapons are able to carry out all steps of military attacks (from searching, identifying and launching) independently of any human input.

Technology has made gigantic steps in this field. This holds true in the battlefield: the weapons mentioned at the beginning of the article prove it. Similarly, progresses are visible in security and law enforcement operations (for instance, see here).

Yet, answering the question “are fully autonomous weapons among us already?” is not an easy task.

In fact, for a State to make the capacity to build machine learning systems public constitutes an asset to a certain extent only. Of course, showing off the ability to develop certain technologies allow States to gain a major role in the playing field (in other words, a way to flex their muscles against competitors).

Yet, in warfare, showing too much can easily backfire. In fact, for strategic reasons, the military is not prone to share methods of lawfare or the way they assess proportionality (a fundamental rule of the conduct of hostilities). By doing so, they risk hampering the effectiveness of their operations and attacks on the ground. This is also a good way to shield from liabilities or find a way out to that. This is true for the generality of operations.

Today, the fact that States having the capacity to develop such technologies are not directly involved in armed conflicts render the political dilemma a less impingent one. As a result, evidence of implementation of machine learning systems pops up every now and then. First, a UN Report (S/2021/229), published in March 2021 by the UN Panel of Experts on Libya (Res 1973/2011) confirmed the use of a drone, the Kargo 2, powered by artificial intelligence. More recently, evidence of AI used in warfare come from several frontlines: from Iraq, Nagorno-Karabakh, Ethiopia and ultimately Ukraine.

Yet, when it comes to LAWS, there is an additional element to consider: the suitability of the existing legal framework.

International humanitarian law (IHL), i.e., the body of norms governing the rules of armed conflicts as encapsuled in the four 1949 Geneva Conventions and their Additional Protocols (APs) as well as relating customary norms, have been created in a moment in history where autonomy was far from being associated to weapons.

Therefore, a wide range of concerns loom around the feasibility of existing IHL norms to LAWS. Notably, LAWS constitute a major stress-test for the rules of conduct of hostilities. Those are: use of means and methods of warfare which are not prohibited (Art 35 AP I), targeting military objectives (Art 52 AP I – and customary for both international and non-international armed conflicts), carry out attacks that are proportionate (Art 51 and 57 AP I which have customary status and apply to both international armed conflicts and non-international armed conflicts) and endowed with feasible precautions (Art 57 and 58 AP I having customary status as well).

To begin with, legitimate targets comprise military personnel and objectives. There is no big issue when it comes to stable armed forces (those generally wear uniforms and are clearly distinguishable from civilian population). This is possibly compatible with a machine learning system provided with the right information (such as the color the uniform).

And yet, what happens when it comes to non-state armed groups where members are not identifiable by uniforms?

Even providing alternative insights, such as specific physical features, is highly dangerous, given the likelihood to confuse fighters and civilians. Programming LAWS to target individuals with specific attributes may lead to broadening too far the range of potential targets, in denial of any protective aim towards the civilian population.

To add to that, last-minute surrender is another very controversial case-scenario. IHL states that people become an unlawful target as soon as and for such time as they are hors de combat (i.e., they desist from taking part to active hostilities). Is an autonomous weapon able to recalibrate an attack in such a scenario at any given moment without any human input?

Implications on the rule of proportionality walk down the same path and goes even further. Proportionality requires parties to consistently assess conditions and modulate military actions (and reactions) accordingly. That targetability of prima facie civilian objects (think of a bridge, or a school), and in general conducting hostilities in urban areas is possible only where attacks reduce civilian harm to its minimum extent. This all depends on very factual and punctual conditions. Are there alternatives? Has the attack programmed at a moment where civilians are not expected to be around? Are alternatives available in case the proportionality assessment changes due to a major presence of civilians than initially expected? Proportionality truly is contingent based. Can LAWS deal with unpredictable factors in this respect?

As things stand, it seems that LAWS encompass a margin of mistake that can never be foreseen and forestalled by humans. Against this framework, all fundamental rules (or quite so) of the conduct of hostilities are grounded upon a subjective, henceforth human, element which can never be replaced by technologies.

For these reasons, some argue for a total ban on LAWS.

On a different note, some experts are confident in the capacity of existing rules to adapt to autonomous weapon systems. Besides highlighting the obvious advantages (to mention some: accuracy, higher chances to spare human lives – from both military and civilian sides, reducing the margin of human error), the argument on the inherent subjective nature of the rules of the conduct of hostilities is rebuked. Or, at least, largely reduced. Take the proportionality rule, for instance. As mentioned earlier, the military is very reluctant to share criteria by which they assess proportionality. They largely remain an uncharted territory. For the military, playing the subjective card (i.e., criteria are assessed according to the sense of experts in a given scenario) can be an easy way out to avoid sharing information. Hence, we assume proportionality is fundamentally subjective, but the contrary has never been excluded. Perhaps, entangling the rules on proportionality more objectively is possible more than thought. In the end, what these experts suggest is to shift the perspective on existing rules. By conceiving them under a new, objective-oriented glow can dissipate false concerns on LAWS.

Lastly, it is worth mentioning the general tendency to anthropomorphize LAWS. As many experts have highlighted (see here and here, for instance), it is misleading to think of weapon autonomy as interchangeable with human control. In fact, machine learning is established upon directives (in the form of algorithms) that are programmed by humans, and it only could be so. Therefore, even when addressing fully autonomous weapons, a ‘least path of resistance’ of human control remains. Hence, a persistent use of anthropormorphized language when referring to LAWS muddies the waters even more and enlarges the ‘unmissable subjective element’ precautionary tale.

At any rate, despite attempts, the international community struggles to set regulatory benchmarks for the moment being (for an overview, see here).

Clearly, not only concerns are multifold under this topic. There are implications on the use of these technologies in peacetime and daily situations as well. Given the unlikely scenario where LAWS are banned out, it is rather more reasonable pushing the international community and State to converge on shared basic rules to their use in warfare and elsewhere.

A cura di Silvia Tassotti

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