SE DOBBIAMO ACCONTENTARCI DELLA TAMPON TAX AL 10%

È della scorsa settimana la discussione in merito alla proposta del governo di tagliare l’IVA sui cosiddetti “prodotti assorbenti per l’igiene femminile” -chiamata impropriamente “tampon tax” a livello internazionale -portandola dal 22 al 10%. La proposta si trova all’interno del Documento Programmatico di Bilancio (DPB), testo tutt’altro che definitivo: esso s’inserisce nell’iter per la redazione della legge di bilancio annuale, legge notoriamente travagliata in quanto porta allo scontro di tutte le forze politiche.

La notizia è stata comunque accolta, dal mondo delle ONG e dei movimenti femministi, con un miscuglio di emozioni, dal tiepido stupore allo sdegno. Decontestualizzato e analizzato singolarmente, l’abbassamento dell’IVA sugli assorbenti e su altri prodotti per l’igiene mestruale di per sé è un fatto positivo. Nel momento in cui la proposta viene calata nel contesto giuridico e fiscale da cui è nata, nonché analizzata alla luce di fattori sociologici e culturali, ecco che assume una forma più precisa: quella di un premio di consolazione.

In Italia, l’aliquota ordinaria IVA è del 22%, che costituisce anche la fascia più alta delle aliquote attualmente previste. Fra i beni inseriti in questa fascia, oltre a molti prodotti per l’igiene mestruale, troviamo alcuni beni considerati di lusso o comunque non essenziali.

Rispetto all’aliquota ordinaria, esistono poi delle riduzioni per determinate categorie di bene, anch’esse variabili. La fascia più bassa è quella che impone un’IVA al 4%, perlopiù per determinati generi alimentari o risorse essenziali, seguita dalla fascia di aliquota IVA al 5%. Nella fascia immediatamente più bassa rispetto a quella ordinaria, quella del 10%,dove si vorrebbero spostare assorbenti e prodotti per l’igiene mestruale, troviamo sì beni come medicinali o risorse naturali per l’uso quotidiano e/o domestico, ma anche tartufi, tabacchi, francobolli da collezione.

Alcuni prodotti per l’igiene mestruale attualmente sono compresi fra i beni tassati al 5%, ma si tratta soltanto di prodotti eco-friendly, come coppette mestruali e assorbenti biodegradabili. Oltre ad essere ancora scarsamente conosciuti nel contesto italiano, si tratta dei prodotti più difficilmente reperibili e, comunque, più costosi. È evidente da questa suddivisione che sia l’attuale assetto con l’IVA al 22%, sia la proposta attualmente in discussione dello spostamento di fascia, non considera assorbenti e beni per l’igiene mestruale come prodotti di primaria necessita.

Tuttavia, questo dato di fatto si scontra con la pura e semplice realtà: il ciclo mestruale non è una scelta, è una funzione fisiologica propria dell’organismo di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo e in tutta Italia. La contraddizione della tampon tax e di questa concezione dei beni ad essa correlata s’inserisce in un fenomeno più generale e preoccupante che prende il nome di povertà mestruale. Si tratta della condizione per cui categorie di persone, aventi il ciclo mestruale, non riescono ad accedere non solo ai prodotti igienici, ma anche a tutti i servizi necessari per garantire benessere e salute nella gestione delle mestruazioni, per ostacoli economico-sociali. È un problema che tocca anche il prezzo eccessivo dei beni oggi toccati dall’alta tassazione in Italia, ma non lo esaurisce.

La combinazione fra dato fiscale sulle attuali fasce dell’aliquota IVA in Italia e il dato socio-economico sulla povertà mestruale rendono le recenti notizie sulla tampon tax, più che una buona notizia, un insoddisfacente contentino. Sono molti i movimenti che si sono espressi per una tassazione più equa e meno impattante per questi prodotti, in tutto il mondo. Esempi virtuosi di politiche volte a rendere accessibili questi beni a tuttз: nel Regno Unito, da gennaio la maggior parte dei prodotti per l’igiene mestruale non sono più soggetti a IVA; prima, il Canada aveva seguito la stessa strada. In molti Paesi dell’Unione Europea, come Francia e Germania, la tassazione è stata portata nella fascia più bassa delle aliquote IVA. Nel 2020, il parlamento scozzese ha approvato una legge che ha obbligato le autorità locali a fornire assorbenti e prodotti igienici in via gratuita.

Oltre la tampon tax, è evidente che bisogna cambiare la cultura e la percezione del ciclo mestruale, nonché pretenderne una visione diversa dalla classe politica. Avere il ciclo non è una scelta, non è un lusso: avere accesso a tutti i servizi igienico-sanitari, dagli assorbenti alle strutture mediche, per garantire una mestruazione sicura, è un diritto. È un diritto trasversale, di innumerevoli categorie di persone che sono impattate a livelli diversi da questa struttura gravosa, nonché dalla cultura della disinformazione e del tabù che l’accompagna. Non ci accontentiamo della tampon tax al 10%, per quanto possa essere un leggero miglioramento rispetto alla situazione attuale. Vogliamo il diritto di sentirci in salute senza essere marginalizzatз.

A cura di Greta Temporin

IL CAPORALATO DELLA GIG ECONOMY

Ci sono realtà che, di per sé, sembrano nate per essere dibattute. Una di queste è quella dei cosiddetti riders, i lavoratori che sfrecciano sulle loro biciclette per portare il cibo ordinato a domicilio a casa. I riders fanno parte della “gig economy” (l’economia dei lavoretti che dovrebbe essere incentrata su occupazioni saltuarie e non particolarmente invasive del tempo e delle energie del lavoratore, parte di quel modello economico basato sul lavoro a chiamata, occasionale e temporaneo e non su prestazioni lavorative stabili e continuative) ma sono spesso sottoposti a condizioni che poco spartiscono con il concetto di “lavoretto”, costretti a lavorare per molte ore, in condizioni disagevoli e per paghe misere.

Sono incessanti, quindi, i temi di discussione che orbitano intorno alla realtà di questa specifica categoria di lavoratori. Se (sembra) essersi superato lo stigma etico morale che inizialmente accompagnava i riders, molti rimangono i ragionevoli dubbi nei confronti, anche, delle condizioni lavorative in cui questi sono obbligati a lavorare.

Se le problematiche laburistiche sono molte ed eterogenee, ci sono alcuni aspetti delle condizioni lavorative dei riders che impongono riflessioni sulla liceità delle condizioni lavorative in cui, sovente, questi sono costretti a lavorare. Vi sono dei limiti, infatti, che, se superati, fanno inesorabilmente scivolare i diritti dei lavoratori da posizioni tutelabili attraverso il ricorso al giudice del lavoro (quindi a un giudice, comunque, civile) a diritti tutelati (e tutelabili) attraverso il ricorso al giudice penale. Labile è, infatti, il confine fra condizioni di lavoro difficili (ma lecite) e condizioni insostenibili e, quindi, integranti il reato di c.d. caporalato da parte del datore di lavoro.

Quest’ultimo (tecnicamente “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”) punisce sia chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori” che chi “utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”. Ai sensi dello stesso articolo sono indici di sfruttamento:

“1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro; 4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.”

In sintesi, quindi, sono indice di sfruttamento la continua corresponsione di retribuzioni che siano palesemente difformi dai contratti nazionali o, comunque, sproporzionate rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato, la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro e ai riposi, la violazione della normativa in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro, nonché la sottoposizione dei lavoratori a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o situazioni alloggiative degradanti.

Una prima lettura, anche superficiale, del reato di caporalato è già sufficiente a suggerire come le condizioni lavorative dei riders possano essere agevolmente ricomprese nel novero di quelle incriminate dalla norma. Questi sono, infatti, famosi per lavorare anche molte ore per una paga misera ed essere spesso privati delle mance loro date, sfruttati in ogni modo al solo fine di ottimizzare il servizio delle piattaforme digitali per cui lavorano.

Fino a pochi giorni fa sembrava difficile riuscire a veder riconosciuta l’illegalità delle condizioni lavorative dei riders da un giudice. I Tribunali sembravano sordi alla piena comprensione del disagio esistenziale dei lavoratori i quali, spesso, al pari dei manovali assunti per raccogliere pomodori nel sud Italia, sono individui emarginati socialmente, facili da sottomettere e da controllare. Tuttavia, il panorama giurisprudenziale relativo allo sfruttamento dei riders ha avuto una svolta con una recente pronuncia del Giudice per l’Udienza Preliminare di Milano, dott.ssa De Pascale, la quale ha riconosciuto, per la prima volta, in capo a un intermediario della filiale italiana di Uber Eats, la responsabilità penale per il reato di caporalato.

Ancora, la stessa Giudice ha convertito un sequestro di 500 mila euro in contanti (disposto durante le indagini) in un risarcimento danni di 10 mila euro per tutti i 44 fattorini costituitisi parte civile nel processo, nonché 20 mila euro di risarcimento alla Cgil e alla Camera del Lavoro di Milano.

La pronuncia risulta particolarmente interessante per una serie di circostanze che la rendono, a suo modo, innovativa e, si spera, precursora di un nuovo indirizzo giurisprudenziale che tuteli (anche) i lavoratori dell’economia digitale, ancora troppo spesso parte di un’economia ignorata dalla giustizia.

In primo luogo, la sentenza milanese è, come anticipato, la prima condanna per caporalato a favore dei riders, i quali per la prima volta, si vedono riconosciuto il loro diritto a non essere sottoposti a condizioni lavorative deprimenti per la loro dignità umana.

In secondo luogo, poi, si è finalmente avuta la dimostrazione di come anche i “lavoretti” necessitino di protezioni e tutele (anche giuridiche) al pari dei lavori continuativi e non occasionali, soprattutto laddove i “lavoretti” di diminutivo abbiano solo il nome ma si configurino come mestieri tedianti per l’equilibrio psicofisico del lavoratore stesso.

Insomma, si spera che questa prima sentenza sia solo il punto di partenza per una giurisprudenza illuminata in grado di riconoscere e tutelare i diritti dei lavoratori (tutti).

A cura di Carlotta Capizzi

INTELLIGENZA ARTIFICIALE E GIUSTIZIA PENALE: STRALI TRA LE FIRMATARIE DELLA LETTERA AL PARLAMENTO UE

Con lo sviluppo, negli anni più recenti, di nuove tecnologie e con l’ampio uso di dispositivi tecnologici nella nostra quotidianità si affaccia anche il problema di come tali tecnologie vengano utilizzate nell’ambito della giustizia penale. Di recente, infatti, si è assistito ad un incremento dell’uso di tali tecnologie, tra le quali i sistemi di intelligenza artificiale (IA), nell’ambito del procedimento penale e da ciò sorgono preoccupazioni relativamente all’impatto che tali tecnologie avrebbero (e hanno) sui diritti e le garanzie processuali.

Per questi motivi la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) (NdA commissione permanente del Parlamento Europeo) ha presentato a luglio scorso un rapporto sull’intelligenza artificiale nel diritto penale e sul suo utilizzo da parte delle autorità giudiziarie in tale ambito. Nel rapporto la LIBE prende una posizione forte sui rischi di lesioni dei diritti fondamentali degli individui collegati all’impiego di sistemi di IA da parte delle forze dell’ordine. In particolare, la LIBE chiede che venga impedito l’utilizzo di tecnologie di riconoscimento facciale per motivi di polizia. La recente proposizione di alcuni emendamenti al rapporto ha portato all’attivazione rapidissima della rete delle organizzazioni che, come Strali, si occupano di litigation nell’ambito dei diritti digitali.

Ma facciamo un passo indietro e spieghiamo un po’ cosa intendiamo per IA nel procedimento penale prima di passare a parlarvi di quello che è successo.

L’IA viene utilizzata fin dalla fase investigativa, ad esempio, per l’individuazione di sospettati, o addirittura in una fase precedente alla commissione di un reato, per capire dove o da chi un certo reato possa essere commesso in futuro.

I sistemi di IA possono poi essere utilizzati nella fase pre-processuale dall’autorità competente, il giudice, per decidere se rilasciare l’accusato su cauzione ovvero, in una fase successiva, se rinviare a giudizio o ancora se condannare o assolvere l’imputato. L’utilizzo di queste tecnologie rappresenta un rischio (e una minaccia) per la garanzia – fondante il sistema processuale penale – della presunzione di innocenza.

E ancora, quando tali nuove tecnologie sono utilizzate durante la fase processuale possono grandemente impattare – come detto in precedenza – sulle garanzie del giusto processo. Si può menzionare, ad esempio, il principio di immediatezza del processo, e dunque la necessità che l’imputato sia presente in aula (salvo eccezioni esplicitate dalla legge); o il principio di pubblicità delle udienze, che verrebbe meno durante processi “virtuali”; o ancora, il diritto ad una difesa effettiva, anch’esso limitato, soprattutto qualora l’imputato si trovi in detenzione, poiché quest’ultimo non avrebbe accesso a colloqui confidenziali con il proprio legale rappresentante.

Per questo, come proposto dalla Vice-Presidente Dragicevic-Dicic della organizzazione International Commission of Jurists durante un evento a lato al Consiglio dei Diritti Umani tenutosi lo scorso 30 settembre dedicato al tema, dovrebbe spettare al giudice la decisione caso per caso se “concedere” il processo virtuale e, nel caso, prendere ogni misura necessaria per assicurare le garanzie del giusto processo.

Inoltre, altre questioni vengono sollevate circa l’utilizzo di IA e nuove tecnologie nell’ambito della giustizia penale, tra cui la difficoltà di accedere a mezzi di ricorso quando i propri diritti sono violati a causa dell’utilizzo di questi dispositivi ; o ancora la questione della privatizzazione (cioè lo sviluppo dei sistemi di IA da parte di società private) e il successivo uso da parte di autorità pubbliche.

Ci dirigiamo verso la conclusione.

Come anticipato all’inizio di questo articolo, la LIBE nel suo rapporto si esprime con termini molto duri. La richiesta che viene fatta al Parlamento è quella di prendere posizione netta a favore dell’utilizzo limitato (e regolato) di queste tecnologie. Ne vengono sì riconosciuti i vantaggi, ma anche i potenziali rischi sui diritti fondamentali riconosciuti a livello europeo: vengono menzionati il processo decisionale opaco, i diversi tipi di discriminazione, l’intrusione nella nostra vita privata, le sfide alla protezione dei dati personali, la dignità umana e la libertà di espressione e di informazione. E questi rischi sono ancora più accentuati nel campo del diritto penale, dove è in gioco anche il diritto fondamentale dell’individuo alla propria libertà e sicurezza, la presunzione di innocenza, il diritto ad un rimedio efficace il principio del giusto processo.

Fino a qui, quindi, tutto bene.

A fine settembre, infatti, vengono presentati tre emendamenti al rapporto dal contenuto preoccupante. Nel primo emendamento (A9-0232/1) viene proposto che le forze di polizia siano autorizzate ad utilizzare sistemi di IA per prevedere la criminalità futura. Nel secondo emendamento viene fortemente ridotto l’impatto della moratoria relativa all’utilizzo dei sistemi di riconoscimento facciale nei luoghi accessibili al pubblico. Nel terzo emendamento viene richiesto espressamente di permettere la sorveglianza biometrica di massa “nella misura in cui il suo utilizzo sia strettamente necessario per obiettivi molto specifici come la ricerca mirata di vittime di reati o la prevenzione di un attacco terroristico o di un’altra minaccia imminente alla vita o all’integrità fisica di una persona” e purché sia soggetta ad un’autorizzazione giudiziaria preventiva che ne limiti l’applicazione sia spaziale che temporale.

Riassumendo, tramite questi emendamenti si andrebbe a tagliare le gambe al rapporto, limitando moltissimo la sua efficacia (e quindi la protezione dei diritti).

E’ per questo motivo che StraLi si è unita ad altri 41 membri della società civile nel firmare una lettera ai parlamentari europei affinché votassero contro questi emendamenti.

E così è stato: vittoria!

Tale azione, tra l’altro, si inserisce nell’ambito della campagna Reclaim Your Face volta a richiedere alla Commissione europea di proibire gli usi indiscriminati o arbitrariamente mirati della biometria che possono portare a una sorveglianza di massa illegale. Se vuoi contribuire anche tu, firma qui!

Leggi qui i comunicati stampa della campagna Reclaim Your Face e di EDRi.

A cura di Serena Zanirato e Alice Giannini

ABORTO IN TEXAS: SOSPESA LA LEGGE, LA BATTAGLIA CONTINUA

È delle ultime ore la notizia che il giudice distrettuale di Austin, Robert L. Pittman, si è schierato col Dipartimento di Giustizia dell’amministrazione federale americana che ha infiammato gli Stati Uniti nelle ultime settimane. Con un provvedimento, infatti, è stata momentaneamente bloccata la controversa legge, di recente approvata in Texas, che ha vietato l’interruzione volontaria di gravidanza nella quasi totalità dei casi, all’interno dello Stato del Sud degli Stati Uniti.

La legge, il Senate Bill 8, si presenta come un modello di “legge del battito cardiaco” (“heartbeat bill”), perché vieta l’interruzione di gravidanza qualora il personale medico riscontri “attività cardiaca” nell’embrione intesa come pulsazione, anche nel caso in cui l’organo cardiaco non sia ancora del tutto formato: un fenomeno che si riscontra, solitamente, attorno alla sesta settimana di gravidanza.

A questa regola non fanno eccezioni i casi di incesto e stupro solitamente previsti anche dalle più restrittive leggi sull’aborto nel mondo: l’interruzione può essere praticata nonostante il battito solo per gravi casi di complicazioni e minacce per la salute. Viene punito severamente non solo il personale medico che pratichi un’interruzione oltre questi (pochissimi) casi, ma anche chiunque, con la propria attività, incentivi o agevoli l’interruzione: uno spettro di soggetti che vanno da personale di cliniche e consultori a coloro che aiutino un soggetto a pagare le spese per l’intervento, o forniscano assistenza personale.

Si tratta della più restrittiva regolazione sull’aborto negli Stati Uniti, che di fatto rende inaccessibili molti diritti riproduttivi.La domanda che sorge spontanea è: il Texas, Stato parte della Repubblica Federale degli Stati Uniti, può farlo?

L’interruzione volontaria di gravidanza è legalmente garantita a livello federale. In un sistema fondato sul precedente come quello americano, ciò è sancito da una storica sentenza della Corte Suprema del 1973, la sentenza “Roe v. Wade”. Tuttavia, non c’è una legge federale che sancisca modalità uniche per tutti gli Stati: ogni Stato ha la propria normativa di riferimento. E il Senate Bill 8 texano non è la prima legge attraverso cui gli Stati, perlopiù quelli governati dal Partito Repubblicano, hanno cercato di limitare molto o quasi del tutto la possibilità d’interrompere una gravidanza.

Dal 2019, si è assistito a un’ondata di provvedimenti in questo senso, denunciati da molti istituti e piattaforme che si occupano di diritti. Il fatto che l’aborto sia garantito non da una legge federale, ma da un precedente giudiziale, rende la questione un dibattito costantemente acceso. Ormai è chiaro che le organizzazione anti-abortiste, supportate dalle forze politiche a loro più vicine, hanno intrapreso una battaglia precisa e sistemica per capovolgere “Roe v. Wade” e arrivare un divieto totale d’interrompere la gravidanza.

Allo stesso modo, il Senate Bill 8 ha acceso la fiamma della contestazione di chi questo diritto lo vuole tutelare. Migliaia di manifestanti hanno marciato per tutte le città degli Stati Uniti, per un totale di 660 manifestazioni in tutto il Paese. In seguito a ciò, anche l’amministrazione federale e il Presidente Joe Biden si sono schierati in difesa dell’autodeterminazione e dei diritti riproduttivi: è stato grazie a un ricorso dell’amministrazione federale che si è arrivati al blocco temporaneo della legge.

Questo crea anche una spaccatura col più alto organo giudiziario degli Stati Uniti: la Corte Suprema –ad oggi, a maggioranza conservatrice – aveva infatti respinto la medesima richiesta, formulata sulla base di dubbi d’incostituzionalità del Senate Bill 8, a settembre. È una piccola vittoria, ma la battaglia è ancora lunga. Infatti, è già annunciata l’intenzione del governo del Texas di appellare la decisione del giudice Pittman. La Corte d’Appello federale che si occuperà di esaminare il caso ha già respinto una volta una richiesta di bloccare l’entrata in vigore della legge.

Noi non possiamo che osservare col fiato sospeso e questo iter politico e giudiziario che mette a repentaglio i diritti riproduttivi e la salute di milioni di persone, esprimendo piena solidarietà a chi protesta e lotta per l’autodeterminazione.

A cura di Greta Temporin

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