MESSICO E NUVOLE (DI GAS)

In Messico, da diversi anni, attivisti impegnati nella difesa dell’ambiente, insieme alle comunità locali e alle popolazioni indigene, si battono contro il Proyecto Integral Morelos, già quasi completato e costato un miliardo di dollari.

Cos’è il Proyecto integral Morelos? È un megaprogetto energetico, molto ambizioso, che comprende varie opere. L’installazione di un gasdotto, lungo 160 chilometri, per il trasporto giornaliero di circa 320 milioni di metri cubi di gas naturale per alimentare le due centrali, che passa attraverso le falde del vulcano Popocatèpetl e attraverso le terre di più di 60 comunità degli stati di Morelos, Puebla e Tlaxcala. Il gasdotto sarà gestito dalle imprese spagnole Elecnor e Anagas e dall’impresa italiana Bonatti. Due centrali termoelettriche nella comunità di Huexca (stato di Morelos) che saranno gestite dall’impresa spagnola Abengoa. Un acquedotto, lungo 12 chilometri e di quasi un metro di diametro, che dovrebbe trasportare 50 milioni di litri di acqua al giorno per alimentare le centrali.

Perché lo vogliono fare? Lo scopo principale e reale è quello di fornire energia elettrica alle enclavi industriali di Morelos, Puebla e Tlaxcala che già esistono e stimolano il processo di industrializzazione in altre regioni del Paese. La Federal Electricity Commission (CFE) ha agito, sin dal 2011, come manager subalterno di tre società spagnole (Abengoa, Alecnor ed Enagas) che hanno ottenuto profitti milionari in altre parti del Messico e dell’America Latina. La CFE ha fatto visita alle comunità cercando di convincere i suoi abitanti sui presunti benefici del progetto, minacciando gli avversari, frammentando le comunità e, spesso, utilizzando la polizia e l’esercito per reprimere la resistenza. Tutto ciò per promuovere un modello di sviluppo che pesa solo il fattore economico.

Quali diritti calpesta? Il progetto ha un gravissimo impatto sociale ed ambientale. Rischia di compromettere la sopravvivenza delle comunità indigene e colpisce, in vari modi, gli abitanti dei tre stati e centinaia di comunità. Esiste un pericolo dovuto al trasporto di quantità ingenti di gas naturale; inoltre buona parte del percoso è una zona vulcanica considerata ad alto rischio a causa della vicinanza del vulcano Popocatèpetl. In più, l’acquedotto saccheggerà l’acqua che nutre la vita agricola di dozzine di comunità indigene e contadine di Morelos. I membri del campo zapatista in difesa delle acque del fiume Cuautla, situato nel comune di Ayala (Morelos), da anni fanno resistenza per impedire lo smaltimento nel fiume dell’acqua utilizzata dalla centrale termoelettrica di Huexca.

Chi è Juan Carlos Flores Solis e cosa ha subito? Juan Carlos Flores Solis è un difensore dell’ambiente. È componente ed avvocato unico del Fronte dei popoli per la Difesa della Terra e dell’Acqua, fondato nel 2008 per organizzare la resistenza del Proyecto, insieme all’Assemblea permanente dei popoli di Morelos. Tutte le forme di lotta sono pacifiche, a differenza della risposta dello Stato. Juan Carlos ha partecipato a diverse iniziative di coordinamento in difesa del territorio in Messico ed ha contribuito a creare e promuovere radio di comunità negli stati di Puebla e Morelos.

E’ stato accusato e incarcerato ingiustamente nel 2014 per la sua attività di difesa dei diritti umani nell’ambito della lotta contro il Proyecto Integral Morelos. È stato scarcerato dieci mesi dopo l’arresto e ha affrontato diversi procedimenti penali prima di essere completamente scagionato nel maggio 2018. Attualmente si sta occupando di cause, in diversi processi, a favore dei diritti delle comunità native nàhuatl di Morelos, Puebla e Tlaxcala, compreso il Poryecto Integral Morelos. A causa del suo impegno nell’organizzazione e difesa dei diritti umani nel Fronte per la Difesa della Terra e dell’Acqua, si trova in una situazione di rischio, in particolare dopo l’omicidio di un altro membro del Fronte, Samir Flores Soberanes, ucciso nel marzo 2019.

All’inizio di marzo del 2018, la Commissione nazionale per i diritti umani (CNDH), dopo aver indagato sulle denunce presentate dalle popolazioni colpite, ha stabilito che il Proyecto Integral Morelos viola i diritti umani degli abitanti di Morelos, Puebla e Tlaxcala ed ha emesso una raccomandazione rivolta agli allora titolari del Ministero dell’ambiente e delle risorse naturali, al Direttore generale della Commissione federale dell’energia elenttrica (CFE) e al Direttore generale dell’ex Commissione nazionale per lo sviluppo dei Popoli indigeni (CDI).

Ricordiamoci che esiste un “progresso” economico che non sempre coincide con lo sviluppo umano.

A volte i diritti umani dei più deboli passano in secondo piano, smascherando – se mai ce ne fosse bisogno – come sia il profitto, e non il benessere, il barometro delle azioni delle multinazionali.

CARO SALVINI, NON HAI DI NUOVO CAPITO NULLA

Con la sentenza n. 29460/2019 le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono intervenute sul decreto sicurezza e immigrazione, “decreto Salvini”, un gentile omaggio del Capitano (grazie, non aspettavamo altro!) che introduce nel nostro ordinamento novità delicatissime come il raddoppio dei tempi di detenzione degli irregolari, l’inasprimento delle misure in materia di Daspo urbano e l’abolizione della protezione umanitaria.

Ecco, proprio su quest’ultima brillante iniziativa la Suprema Corte ha detto la sua, riguardo a un caso di competenza del Tribunale di Trieste. La storia è questa: tre ragazzi, un bengalese e due gambiani, richiedono il permesso di soggiorno umanitario per motivi di lavoro, studio e “pericolo generico nel paese d’origine”. La Commissione Territoriale fa spallucce e i tre portano il caso in Tribunale. La Corte d’Appello dà loro ragione, ma la decisione viene annullata con rinvio dai giudici di Cassazione.

Festa grande a casa Salvini, chiaramente: avuta notizia della sentenza, l’ex ministro non ha saputo trattenere l’entusiasmo e ha dichiarato che “sui permessi umanitari aveva ragione la Lega. L’ha stabilito la Corte di Cassazione. È la migliore risposta agli ultrà dei porti aperti e che vorrebbero cancellare i decreti sicurezza”.

Però, le cose non stanno proprio così: se è vero che la Cassazione non ha accordato il permesso ai richiedenti, è altrettanto vero che i giudici hanno motivato la decisione con ragioni non esattamente salviniane.

In primo luogo la Corte ha stabilito che, per il principio d’irretroattività, il decreto del Capitano non può essere applicato alle richieste presentate prima del 5 ottobre 2018, data della sua entrata in vigore. E meno male, perché fra le prime conseguenze del decreto si è visto come le Commissioni Territoriali, appoggiate dal Ministero dell’Interno, avevano di fatto smesso di valutare le richieste di protezione umanitaria. Risultato? Un impressionante calo delle concessioni, ad oggi pari all’1%. Finita la pacchia!

Già, peccato che ora, grazie all’intervento della Corte, chi si è visto chiudere la porta in faccia in virtù di una legge inapplicabile, potrà giustamente pretendere il riesame della sua domanda.

Per quanto riguarda poi le condizioni necessarie per ottenere la protezione, va detto che sul punto le nostre aspettative vengono un po’ deluse: rifacendosi alla storica sentenza n. 4455/2018, la Corte ha confermato che bisogna bilanciare l’integrazione del soggetto in Italia con la “specifica compromissione” dei diritti umani a cui sarebbe sottoposto nel proprio Paese. Insomma, vivere, studiare e lavorare in Italia non è ancora abbastanza per aggiudicarsi il permesso.

Peccato, sarà per la prossima volta (speriamo); nel frattempo, mandiamo bacioni consolatori all’ex ministro confidando che, avendo finalmente decifrato l’oscuro testo della sentenza, abbia capito che c’è poco da festeggiare.

Dai Matte’ non te la prendere, l’importante è crederci sempre!

8 DAYS A WEEK: ESISTE UN DIRITTO A SCOLLEGARSI?

Sono le 22:30 e appare una notifica di whatsapp, una mail fa capolino sullo schermo del telefono. È il datore di lavoro che chiede se è tutto pronto per la riunione di domani o si accerta che il lavoro della giornata appena trascorsa sia stato adeguatamente concluso. Cosa faccio? Non rispondo? Non posso non rispondere…

Proviamo allora a capire qualche cosa in più, districandoci tra la disciplina in materia di orario di lavoro, diritto al riposo e un diritto di nuova emersione, il cd. diritto alla disconnessione.

L’art. 36, comma 2 della nostra Costituzione prevede, con un disposto cristallino, che «la durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge». I costituenti hanno così ravvisato la fondamentale esigenza che la prestazione lavorativa debba essere circoscritta entro limiti durata prestabiliti, per poter garantire al lavoratore la conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare.

Per individuare la prima legge in questione bisogna però risalire a prima dell’entrata in vigore della Costituzione e in particolare agli anni ’20, quando con un regio decreto venne accolta anche nel nostro paese la rivendicazione della giornata lavorativa di 8 ore. Oggi la materia è disciplinata dal d.lgs. n. 66 del 2003, il quale non prevede più un limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa, disciplinando solamente un limite settimanale di 40 ore che deve essere calcolato come media su un periodo non superiore all’anno.

In realtà si potrebbe sostenere che un limite giornaliero di durata della prestazione lavorativa sia comunque previsto dalla normativa vigente in via indiretta, quantificandolo in 13 ore. Ciò si ricaverebbe dalla norma (art. 7 del d.lgs. n. 66/2003) che stabilisce che siano necessarie 11 ore di riposo consecutivo ogni 24, quindi 24 – 11 = 13!

Senonché, oltre al fatto che il diritto al riposo ha innumerevoli eccezioni, è evidente la differenza tra una disciplina che individui un limite all’orario di lavoro e un limite che invece si ricava in via interpretativa. In questo secondo caso si può certamente dubitare che il precetto costituzionale sia rispettato.

Il dubbio emerge con maggiore forza se si pensa che oggi i mezzi tecnologici determinano una pervadente invasione della sfera privata del lavoratore, non solo oltre le ore di lavoro giornaliero, ma magari anche durante le ore di riposo, creando un legame di reperibilità costante tra datore e lavoratore, figlio della logica del “lavorare sempre e ovunque”. Così, il limite tra la possibilità di gestire il proprio lavoro con modalità di tempo e di luogo flessibili, con effetti positivi sulla conciliazione vita-lavoro, e una situazione di connessione ininterrotta diventa assai labile.

E non è un caso che il tema abbia ricevuto particolare attenzione soprattutto con riferimento alla tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, con specifico riferimento a patologie quali tecnostress, dipendenza tecnologica, stress da super lavoro ecc. Non sarebbe allora il caso di agire sul piano della prevenzione di questi fenomeni, oltre che sul piano della cura e del ristoro dei pregiudizi subiti?

Tuttavia, se non ci pensa la legge, ci pensano le parti sociali. L’azione sindacale, attraverso la contrattazione collettiva, ha infatti spesso cercato di limitare in via generale le conseguenze distorsive della disciplina legislativa in materia di orario di lavoro. E il Contratto collettivo Istruzione e Ricerca è quello intervenuto per primo, nella sezione scuola, riconoscendo alla contrattazione integrativa la possibilità di disciplinare il diritto alla disconnessione. Diversi accordi aziendali ne sono seguiti al fine di contemperare le esigenze di efficacia e qualità dei servizi con il benessere dei lavoratori.

Questo però da solo non basta, non basta perché la Costituzione impone una riserva di legge. Forse è giunto il tempo di disciplinare il diritto alla disconnessione (oggi regolato solo nell’ambito del lavoro agile dalla legge n. 81/2017) e di dare, in via più generale, effettiva attuazione all’art. 36, comma 2 della nostra Costituzione.

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