Brunei vs Parlamento Europeo: the final battle

Fermi tutti. Scusate, c’eravamo sbagliati.

Lunedì abbiamo pubblicato questo post http://bit.ly/SultBrunei, nel quale si raccontava della lettera che il Parlamento Europeo ha inviato al Sultano del Brunei in seguito alla riforma del codice penale, che reintroduce gravi pene corporali e pena di morte per reati come furto e rapina, ma anche per adulterio ed omosessualità. Nel post davamo conto, con tono preoccupato, della risposta del Sultano che pareva invece minimizzare le potenziali violazioni dei diritti umani.
Ciò che non potevamo immaginare era però il reale contenuto della lettera spedita dal Sultano, che ha risposto in grande stile alle osservazioni del Parlamento, regalando al mondo intero una memorabile pagina di diritto.
Dopo aver analizzato l’intero documento, dobbiamo chiedere scusa come giuristi per non aver compreso l’evidente spirito progressista dell’intera riforma, probabilmente così avanzato da non permetterci di coglierlo a pieno.
In uno stucchevole e zuccheroso florilegio di salamelecchi, il Sultanato para le accuse mosse dal Parlamento Europeo e illumina le nostre ottenebrate menti.
Innanzitutto, rimarca la propria sovranità e autonomia – peraltro mai messe in discussione – rivendicando anzi una secolare tradizione di pace e prosperità, ove fondanti sono stati i valori religiosi. I diritti umani, in quest’ottica, non possono essere acriticamente accettati, ma devono essere calati nel particolare contesto socio-culturale-giuridico (più una serie di altri aggettivi). Traduzione: i diritti umani li gestiamo come meglio crediamo, con buona pace della vostra tradizione occidentale.
Poteva forse mancare un appello al rispetto e alla tolleranza dell’altrui tradizione? Sarebbe stato come privare il pranzo di Pasqua dell’agnello, quindi ecco che il Sultanato si appella a questi valori per difendere la riforma del codice penale. Ironico che rispetto e tolleranza siano invocati da chi considera l’omosessualità un reato, ma sicuramente sarà tutto spiegato nel prosieguo della missiva.
Ecco infatti che giunge il momento più prettamente didascalico, e chi legge ha proprio la sensazione di assistere a un grande momento di civiltà giuridica.
È necessario sapere che l’ordinamento del Brunei ha natura duale: da un lato la Syariah, applicata ai cittadini professanti la fede islamica, dall’altro un sistema ispirato al common law, per chi appartiene ad altre religioni.
Il crepitìo che si sente in sottofondo è dovuto all’art. 3 della Costituzione che è andato incontro ad autocombustione.
All’interno di questo sistema, i reati di adulterio e sodomia servono a preservare i valori della famiglia, con particolare riguardo per le donne. Queste birichine. Tuttavia, sono reati e pene che si applicano solo ai musulmani, oppure a chi dovesse commetterli con un musulmano, poiché il suo atto intaccherebbe la purezza della fede.
Entrando più nel dettaglio, si chiarisce che non si sottopone mica chiunque all’hadd (lapidazione con fine di morte o amputazione): occorre che non meno di due o quattro uomini (a seconda dei casi, si presume) di alto valore morale abbiano testimoniato.
Falso allarme, possiamo tutti tirare un sospiro di sollievo.
Addirittura, ci spiega il Sultano, si tratta di una soglia di certezza ben più alta del cosiddetto “oltre ogni ragionevole dubbio”, impiegato nei sistemi di common law e, dal 2006, anche in Italia. Insomma, standard probatori così rigorosi garantiscono che le pene siano inflitte solo quando la certezza sia granitica, a prova di bomba. Incredibile non averci pensato prima.
Per non parlare delle frustate: il colpevole (o vittima? La distinzione sfuma) sarà vestita e il fustigatore non potrà alzare la frusta sopra la propria testa né rompere ossa e lacerare la carne, ma anzi dovrà infliggere i colpi con moderata forza. Un capolavoro di garantismo, chissà come ha fatto la comunità internazionale ad indignarsi.
La rassegna è conclusa con uno dei casi più complessi, quello della pena di morte: viene ribadita la necessità di soddisfare rigorose richieste probatorie ma, soprattutto, questa potrà essere evitata grazie al perdono da parte dei parenti della vittima o, se richiesto dai medesimi, col pagamento del diyat, che viene tradotto in inglese con ‘blood money’. Insomma, la pena di morte dipende dalla benevolenza della famiglia della vittima: dovessero essere rancorosi, sarà difficile farla franca.
Del resto, queste regole non è che siano state inventate da qualche legislatore particolarmente virulento, ma derivano direttamente da Allah e dal Corano, quindi non è che possano essere ignorate in alcun modo. Quest’ultima frase non è inventata, ma è la traduzione del paragrafo 15 della lettera.
Che abbaglio abbiamo preso!
Non ci resta che correggere il tono ingiustamente critico adottato nel precedente post, invitando tutti quanti a guardare al Brunei come la nuova frontiera di tutela dei diritti umani.
P.S.: in caso fosse sfuggito, questo articolo ha un contenuto volutamente sarcastico. Avremmo potuto trattare la questione sotto un profilo più asettico e giuridico, ma il tono stesso della lettera del Sultano ci è parso un tale capolavoro di trollata da meritare una risposta sulla medesima falsariga.

WIKILEAKS VS. CIA

Un caso mediatico e giudiziario che ha condotto al potenziamento della tutela dei dati personali. Può parlarsi di strategic litigation?

Che cos’è Wikileaks?

Wikileaks è un’organizzazione internazionale senza scopo di lucro nata nel 2007 che svolge, per il tramite del proprio sito internet, attività volta alla divulgazione di fatti e notizie impiegando le nuove tecnologie mediatiche. A differenza dei giornali tradizionali, con cui spesso si trova a collaborare, Wikileaks offre la possibilità a tutti di inviare documenti, informazioni e soffiate (giusto appunto, leaks) garantendo l’assoluto anonimato del mittente e ne fa pubblicazione online senza elaborazioni o censure.

Questa “macchina che uccide segreti”, per utilizzare la definizione del giornalista Andy Greenberg, rivendica il proprio ruolo di organizzazione non contro la privacy bensì contro la segretezza, sulle basi concettuali del movimento culturale e generazionale denominato cypherpunk secondo cui tanto le organizzazioni di potere devono essere trasparenti quanto i singoli cittadini devono poter proteggere la propria riservatezza.

Chi è Julian Assange?

Julian Assange, australiano, classe 1971, giornalista, programmatore ed attivista. Fondatore e leader di Wikileaks, ne ha composto le fattezze dopo una giovinezza nel mondo dell’informatica underground e ne è stato direttore dagli albori e sino al settembre 2018, momento in cui ha passato il testimone all’islandese Kristinn Hrafnsson.
Assange è un personaggio carismatico e ampiamente discusso, le cui forti prese di posizione e protagonismi sono spesso state indicate come la causa, insieme all’assenza di una “responsabilità editoriale” nelle scelte di pubblicazione, di un declino di Wikileaks sullo scivoloso pendio della cosiddetta “noble cause corruption”.
Dal giugno del 2012 è beneficiario di asilo politico presso l’ambasciata ecuadoriana a Londra, dove ha trovato rifugio sfuggendo alle richieste di estradizione in Svezia, dove pende nei suoi confronti un procedimento giudiziario per violenza sessuale (avrebbe, infatti, costretto due donne ad avere rapporti sessuali con lui senza l’utilizzo del profilattico). Secondo i suoi sostenitori, la Svezia sarebbe solo un tramite per una successiva estradizione negli Stati Uniti, dove potrebbe essere incriminato per spionaggio e attività antigovernativa.
L’11 aprile 2019, l’Ecuador revoca l’asilo politico concessogli e Assange viene consegnato in arresto alle autorità londinesi. Gli viene notificata la richiesta di estradizione anche da parte degli Stati Uniti d’America.

Quali sono le rivelazioni di Wikileaks sulle modalità di controllo sui singoli utilizzate dalla CIA, dal Governo americano e, più ampiamente, dai poteri forti del mondo?

Negli anni, Wikileaks ha effettuato numerosissime rivelazioni, di fondamentale influenza sulle dinamiche politiche mondiali così come sui mercati internazionali: dalle uccisioni dei civili in Iraq (e tutto il caso del whistleblower “private Manning” che ne è seguito) alle intercettazioni da parte degli Stati Uniti di ben tre Presidenti francesi (Chirac, Sarcozy, Hollande), incluso il coinvolgimento nella sottrazione e diffusione di file riservati della Sony Picture con la conseguente compromissione dei rapporti diplomatici tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord (affaire “The Interview”).
La principale categoria di documenti ricevuta da Wikileaks è costituita da documenti amministrativi e militari spesso coperti dal segreto di Stato ed è sulla “next generation mass surveillance”, quindi sulle modalità di controllo di massa con strumenti tecnologici avanguardistici, che negli ultimi anni Wikileaks ha colpito i segreti governativi, degli Stati Uniti e non solo.

Questi i “leaks” più salienti:
• 2011-2014, Spyfiles: diventa di dominio pubblico l’esistenza di un enorme e remunerativo mercato della sorveglianza digitale, ove i governi statali commissionano ed acquistano da società private strumenti di controllo e cyberspionaggio per poter accedere ad ogni informazione e conversazione, decostruendo i sistemi di sicurezza di computer, smartphone e persino di televisori e altri oggetti collegati a Internet. Tra le punte di diamante di quest’industria, lo spyware Fin Fisher. Il governo italiano non è immune ed anzi viene coinvolto direttamente con la “disclosure” relativa ad acquisti di strumenti di sorveglianza informatica nel caso Hacking Team del luglio 2015.
• 2015, NSA world spying: emerge come l’Agenzia di Sicurezza Nazionale statunitense abbia nel tempo controllato in maniera massiva milioni di persone, raccogliendo enormi moli di dati.
• 2017-today, Vault 7, CIA hacking tools revealed: è l’ultima rivelazione che ha suscitato particolare interesse e consiste nel disvelamento da parte di Wikileaks dei codici di sicurezza informatica con cui la CIA ha spiato i dispositivi Android, Apple e Windows di un’infinita lista di soggetti, di rilevanza diplomatica, politica, economica, criminale, entro e fuori i propri confini.

Quali conseguenze politico-legislative, negli Stati Uniti e nel mondo, ha portato l’avvento di Wikileaks?

I tentativi di incriminazione nei confronti di Julian Assange e di altri volti più o meno noti dell’organizzazione sono sorti in parallelo ad un violento dibattito sulla valicabilità dei limiti della sfera personale di ognuno e sugli strumenti esistenti e possibili a tutela dei dai sensibili. Le fughe di notizie pubblicate da Wikileaks, le rivelazioni di Edward Snowden, il cosiddetto Datagate, la commercializzazione dei dati Facebook e Cambridge Analityca impongono oggi di guardare con occhi nuovi al diritto alla riservatezza ed alla sua tutela.
Tale esposizione senza precedenti delle tecniche di controllo sulle popolazioni da parte di molteplici governi nazionali ha impattato tanto i rapporti diplomatici internazionali (ad esempio, nell’ottobre del 2015 la Corte di Giustizia dell’Unione Europea decreta l’invalidità del safe harbor, regime di scambio commerciale di dati di cittadini europei verso gli USA, poiché non adeguatamente tutelati) quanto un diffuso spirito di allerta nella società civile.
In tal senso, una dichiarazione del Garante Italiano della privacy, Antonello Soro: “è essenziale anzitutto investire su sistemi di privacy by design e by default, volti a ridurre il rischio di invasioni nella nostra sfera privata a partire dalla stessa configurazione dei dispositivi. Ma soprattutto, occorre non rassegnarsi al processo apparentemente inarrestabile di sorveglianza globale, cui siamo sempre più esposti e che notizie come questa purtroppo confermano“.
Sospinto da tale contesto e dalla sempre più veloce evoluzione e globalizzazione della tecnologia moderna è, poi, il Regolamento Privacy dell’Unione Europea (n. 679 del 2016, GDPR), il cui obiettivo è quello di restituire agli individui il controllo dei propri dati personali e più ampiamente, alle sfere di riservatezza i propri perimetri di inviolabilità.

Un nuovo concetto di privacy?

Può sostenersi, dunque, che tutti gli avvenimenti fin qui ripercorsi abbiamo inciso sulla società internazionale al punto da indurre l’enorme rivoluzione normativa che il GDPR porta con sé ed una vera e propria metamorfosi del concetto di privacy?
Pensiamo di sì.
L’elaborazione originale del concetto si deve proprio all’esperienza statunitense e ad una contrapposizione con il potere pubblico: diritto a non subire perquisizioni e sequestri irragionevoli su persona, domicilio, corrispondenza e beni. Così formulato, il principio di tutela della privacy trova trasposizione a livello internazionale, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Quella prima definizione, però, come “diritto ad essere lasciati soli” oggi ha lasciato il posto ad una connotazione più articolata e così riassumibile:“the individual’s ability to control the circulation of information relating to him, a power that is essential to maintaining social relationship and personal freedom”.
Stona, ancor più alla luce di tutto quanto sinora detto, la consapevolezza che nel nostro sistema costituzionale non esista un vero e proprio diritto alla privacy: tra i diritti fondamentali da tutelare nel sistema italiano figurano il domicilio e la corrispondenza, da cui la privacy si desume senza però che sia adeguatamente formulato il concetto di vita privata, un concetto del resto non universalmente definibile bensì mobile e cangiante, poiché muta in relazione all’evoluzione sociale e tecnologica di una popolazione.
Di certo, sono due gli aspetti imprescindibili che concorrono, oggi, ha delimitare il perimetro del diritto alla privacy: la facoltà di trattenere determinate informazioni nella propria sfera privata, da un lato, ed il potere di controllarne la rivelazione e l’uso pubblico, dall’altro.
E parlando di “sfera privata” il riferimento volge a qualcosa che ha oggi una fisionomia del tutto nuova, evolutasi nel passaggio da domicilio a domicilio informatico. Basti pensare che nel 2017, secondo Whatsapp, sono stati scambiati nel mondo circa 55 miliardi di messaggi, 4 milioni e mezzo di fotografie ed 1 milione di video ogni giorno.
Uno smartphone contiene più informazioni su di noi (sul nostro orientamento sessuale, sulle nostre decisioni politiche, sulla nostra situazione sanitaria, sulla nostra situazione finanziaria, sui nostri movimenti e molto altro) di qualsiasi altro “posto fisico”.
Ed in tale nuovo spazio personale innumerevoli nuovi strumenti interferiscono con la nostra privacy: Wikileaks ci ha mostrato come la CIA abbia un enorme arsenale di strumenti di “captazione” dei dati informatici, a partire dai trojan horses, ovvero malware che una volta inoculati in un qualsiasi dispositivo informatico ne prendono il controllo accedendo ai dati, alle app, alla videocamera, alle chiamate.

Nessun nuovo strumento – neanche il GDPR – tratta specificatamente di tali strumenti e tantomeno la giurisprudenza italiana ha mostrato finora di sapervi fare adeguatamente fronte (la formulazione di domicilio informatico non si è accompagnata al riconoscimento dello stesso come diritto fondamentale e, ad esempio, si è censurato l’utilizzo dei trojan da parte dell’autorità pubblica solo quando esso si attivi su un dispositivo mantenuto all’interno del domicilio fisico… come se il nostro telefono non contenesse dati e comunicazioni sensibili e meritevoli di tutela una volta varcata la porta di casa!).

Resta esempio virtuoso quello tedesco, dove sin dal 1983 la Corte costituzionale federale sviluppa la nozione di “autodeterminazione digitale” ed ove, nel 2008, a partire da un giudizio connesso all’utilizzo dei trojan, ha visto affermarsi il riconoscimento di un nuovo diritto fondamentale, quello “alla riservatezza ed all’integrità dei sistemi informatici”.

Dunque, ancora molta strada deve essere fatta per porre limite a questo inarrestabile controllo orwelliano sulla sfera personale di ciascuno, ed in tal senso, così come ha contribuito (che la si guardi positivamente o negativamente) l’opera di Wikileaks, è fondamentale suscitare una richiesta collettiva di rispetto all’interno della società.

Wikileaks vs. CIA: è strategic litigation?

Posto che la strategic litigation, tecnica giudiziaria di matrice anglosassone utilizzata nell’ambito della salvaguardia dei diritti fondamentali e attività principale di Strali, ha, tra gli altri, lo scopo di perseguire un adattamento degli ordinamenti (nazionali e sovranazionali) in relazione ai cambiamenti imposti dalla continua evoluzione della realtà sociale, possiamo definire l’affaire Wikileaks, e il suo effetto mediato in termini di implementazione della normativa privacy, un caso di strategic litigation sovranazionale?

Noi pensiamo di sì, anche se necessariamente va interpretato come un caso atipico. Atipico almeno per due fattori:

– per il mezzo utilizzato: il momento giudiziario, che è la via principale nei casi di scuola e cui, in genere, si adisce per ottenere tutela, è qui rovesciato. L’aula di tribunale è si teatro della vicenda Wikileaks e del data gate ma solo poiché i suoi protagonisti, Chelsea Manning, Edward Snowden e Julian Assange si sono ritrovati sul banco degli imputati… non ci è dato sapere se fin dall’inizio abbiano immaginato che le cose andassero così;
– per l’esito ottenuto: poiché è stato maggiore l’impatto, in termini di incremento di tutela della riservatezza, in Europa rispetto agli Stati Uniti, culla della vicenda, con un peculiare sconfinamento degli esiti della “strategia” portata avanti nei disvelamenti di Wikileaks.

Ad ogni modo, così come i concetti di cui oggi abbiamo trattato, quella della strategic litigation non è una scienza esatta ma uno strumento mutevole, i cui lineamenti debbono poter adattarsi verso l’obiettivo finale: la tutela di un diritto fondamentale. Che il caso esposto sia strategic litigation o meno, oggi la palla passa in mano a tutti noi ed alla volontà di salvaguardare le nostre sfere personali ed i nostri dati. Per farlo, abbiamo a disposizioni normative nazionali e, soprattutto, sovranazionali e numerosi giudici cui rivolgerci: un teatro sicuramente proficuo di strategic litigation in cui ci aspettiamo si svilupperà nei prossimi anni e di cui speriamo di poter essere parte attiva.

WCF – WTF?!?!

A due settimane dal Congresso Mondiale delle Famiglie (WCF) vi parliamo di alcuni degli ideali caldamente difesi dagli organizzatori dell’evento. E vi spieghiamo perché noi non li condividiamo.

Iniziamo dal presidente del WCF, Toni Brandi, che durante uno degli incontri ha sostenuto come “gli indicatori di benessere siano correlati alla famiglia” e che “da alcuni studi risulta che nelle famiglie tradizionali ci sono meno violenze contro i bambini, migliori indicatori di salute, meno problemi psicologici, meno disoccupazione, meno consumo di alcol e di droga, meno criminalità”.
Ci piacerebbe che Brandi acquisisse consapevolezza del fatto che di studi ne esistono molti altri, frutto di menti distanti dal conservatorismo americano, i quali sostengono che il concetto di benessere psico-fisico non è associato all’immagine della famiglia tradizionale. Le famiglie in cui i bambini crescono meglio sono quelle in cui ricevono affetto e protezione, anche quando mamma e papà non hanno un anello sull’anulare sinistro, sono quelle in cui ai bambini si racconta la verità sul mondo (anche sul sesso!), sono quelle in cui i genitori sono psicologicamente e/o fisicamente sani, pur essendo loro stessi figli di genitori che non sono stati uniti in matrimonio. È una verità amara, ma pensare che basti il matrimonio per salvare la società dalla piaga dei maltrattamenti, del disagio psichico e dell’abuso di sostanze è irreale, e anche troppo facile.

In effetti sarebbe alquanto assurdo far derivare in maniera automatica la felicità umana dal mero perfezionamento di un negozio giuridico quale il matrimonio, per di più escludendo tutta una serie di persone dal negozio medesimo. Si crea un corto-circuito logico difficilmente sanabile.

Il ministro Pillon durante lo stesso congresso ha affermato che “Dio, la patria e la famiglia naturale sono i soli veri valori”. Prendendo le distanze dal creazionismo, e affiancandoci a teorie che supportano il pensiero evoluzionistico, comprenderemo però che i valori veri, quelli che dovrebbero ispirare gli ideali e i comportamenti dell’uomo, hanno poco a che fare con la fede in un Dio, con i colori di una bandiera o con il legame matrimoniale di un UOMO e una DONNA. I valori che dovrebbero guidare le azioni umane, o quelle della famiglia “ideale”, si raggiungono quando siamo in grado di proteggere i nostri figli dal pericolo, pur lasciandoli liberi di esplorare il mondo, o quando riusciamo ad insegnar loro che la diversità è un’opportunità di crescita e non di discriminazione. L’essere umano è un animale sociale, e per sopravvivere ha bisogno di nutrirsi di relazioni umane sane, non di obblighi morali, patriottismi o dettami religiosi.

È ovvio che l’imprenditore russo Alexei Komov, che al congresso ha parlato dei programmi di Home Schooling che sta promuovendo in tutto il mondo, non la pensi allo stesso modo. Forse Komov non si è tenuto al passo con le numerose evidenze neuroscientifiche, che dimostrano inequivocabilmente l’influenza positiva del contatto tra pari durante l’età dello sviluppo psicofisico dei bambini. Forse Komov non sa che il confronto diretto tra i bambini permette loro di crescere meglio, e che il gioco stimola l’attività del nucleo ventrale del nervo vago, che permette a tutti di noi di socializzare e di vivere in sicurezza.

E parlando di bambini, ci sembra doveroso ricordare l’atto di propaganda delle associazioni pro-vita che, durante l’assemblea plenaria del congresso, consegnavano ai partecipanti feti in plastica a cui hanno dato il nome Michele, con l’obiettivo di dar voce ai bambini nel grembo materno. In nome del diritto alla libertà di pensiero e di parola, i sostenitori pro-vita hanno deciso che Michele vorrebbe nascere in ogni caso, anche se mamma e papà non sono pronti a crescerlo dignitosamente, anche se mamma è un’alcolizzata e prima di prendersi cura di qualcuno deve farsi aiutare, anche se papà la picchia tutti i giorni e prima di insegnare a Michele ad andare in bici ha bisogno di farsi curare pure lui.

Parimenti, ci chiediamo il senso della legge appena approvata in Ohio e che vieterà l’aborto se è già stato tracciato il battito cardiaco del feto, fenomeno che a volte precede addirittura la scoperta della gravidanza da parte della madre! Sotto questo profilo, ci limitiamo a ricordare che negli Stati Uniti i tribunali hanno già dichiarato incostituzionali quattro leggi con simili finalità; questo rappresenta un altro caso emblematico di Strategic Litigation che seguiremo con attenzione.

Ad ogni modo, non ci saremmo potuti aspettare granché da un congresso che è stato aperto dal quacchero statunitense Brian Brown. Come spesso accade, i sostenitori di questo modello di famiglia finiscono per manifestare grosse incongruenze, e la politica nostrana presente a Verona ne è stato un fulgido esempio. Quanto a Brown, basti sapere che al di là dei suoi accorati appelli in difesa di tradizione e naturalità, egli è uno strenuo sostenitore di Donald Trump, che sarebbe opportuno non prendere ad esempio come paladino della famiglia tradizionale.

StraLi supporta una visione di mondo priva di schemi e concetti che siano unicamente volti a limitare la libertà delle persone, senza che ne derivi alcun beneficio per la società. La Strategic Litigation servirà anche a difendere questa libertà dai soprusi e dalle sopraffazioni di chi vuole privare altri dei propri diritti.

Winter has come.

Forse bisogna ringraziare la pervicacia e caparbietà di Jon Snow, forse il coraggio di Greta Thunberg, forse le tante e piccole voci che da anni si sfiancano in difesa dell’ambiente, ma finalmente, con colpevole ritardo, sembra che il mondo si stia lentamente destando dal torpore che lo ha avvolto negli ultimi anni e stia prendendo coscienza del gravissimo problema causato dall’impatto dell’uomo sul clima del pianeta, e più in generale sull’ambiente.

Buongiorno principessa!

Fronteggiare adeguatamente il cambiamento climatico ed ambientale richiederà profondi mutamenti a livello sociale, economico, ma anche giuridico, ed è ovviamente quest’ultimo il profilo di maggior interesse per StraLi.

Nell’ambito della strategic litigation sono pochi gli esempi di battaglie giudiziarie che abbiano contribuito a significativi passi avanti sulla tutela del clima e dell’ambiente, mentre più numerose sono state le pronunce che hanno riconosciuto come legittime le attività di organizzazioni quali Greenpeace. Tuttavia, in questi ultimi esempi Greenpeace era chiamata a difendersi dalle iniziative legali altrui, senza avere dunque la possibilità di chiedere in concreto provvedimenti che contribuissero a migliorare la situazione generale. Semplificando, si può dire che la dinamica processuale li abbia costretti a giocare in difesa.

Scarseggiano invece le pronunce dei tribunali che riconoscano positivamente un diritto a vivere in un ambiente sano come parte del più generico diritto alla salute, per cui sotto questo profilo vi è ancora molto lavoro da fare. Un aiuto può tuttavia giungere dalla Corte Interamericana dei Diritti dell’Uomo, che nel novembre 2017 ha emesso un’advisory opinion, traducibile con ‘parere consultivo’, in materia climatica. Trattandosi di un’opinione e non di una sentenza non ha ovviamente alcun valore vincolante, per quanto autorevole l’organo che l’ha pronunciata.

Il caso
La Colombia si è rivolta alla Corte chiedendo un chiarimento sulle obbligazioni di ogni Stato derivanti dalla Convenzione Americana sui Diritti Umani (nota anche come Patto di San José), nell’ambito della protezione del diritto alla vita e all’integrità personale.

Più nello specifico, la Colombia ha chiesto se uno Stato possa essere ritenuto colpevole di aver violato o anche solo minacciato i diritti umani di una persona causando un danno all’ambiente attraverso la propria condotta.

La Corte ha in effetti riconosciuto l’esistenza di uno stretto legame tra la protezione dell’ambiente e la realizzazione di altri diritti umani, in virtù del fatto che il deterioramento ambientale non può che nuocere all’effettivo godimento degli altri diritti. La considerazione è abbastanza intuitiva e poggia su basi logiche difficilmente confutabili: semplicemente, fino ai giorni nostri non ci si era posti il problema della connessione – che ormai dovremmo definire inestricabile – tra i diritti umani e l’ambiente. Per fare un esempio molto banale: si può parlare di diritto alla salute in un’area ove le falde acquifere sono profondamente inquinate? O peggio ancora, ove l’aria ha una tale concentrazione di microparticelle che il solo fatto di respirare (attività indispensabile per l’essere umano) può causare delle malattie?

Ne consegue necessariamente che gli Stati devono tutelare i diritti umani che sono minacciati dal degrado ambientale, per cui sono tenuti ad adempiere ad una serie di obbligazioni di natura ambientale.

Per di più, il diritto a un ambiente salubre è già stato codificato in alcuni sistemi: per restare nell’ambito americano, l’articolo 11 del Protocollo di San Salvador al Patto di San José riconosce espressamente sia tale diritto che un’obbligazione in capo agli Stati affinché si adoperino per proteggere, preservare e migliorare l’ambiente medesimo.

Questo diritto ha una duplice dimensione: collettiva, in quanto posto a tutela delle generazioni presenti e future, ed individuale, perché appunto la sua violazione può avere gravi ripercussioni sui vari diritti riconosciuti alla singola persona. Ben si comprende, a questo punto, come un ambiente sano debba essere considerato un diritto fondamentale per l’esistenza dell’umanità.

Responsabilità e giurisdizione
La domanda di partenza della Colombia riguardava l’eventuale responsabilità di uno Stato in riferimento alle condotte commesse fuori dal territorio dello Stato medesimo o con effetti che li travalichino. Il concetto chiave analizzato dalla Corte è quello della giurisdizione, che è più ampio rispetto al territorio fisico. All’interno del Patto, la giurisdizione si estende ben oltre i confini geografici e pertanto uno Stato deve garantire il rispetto dei diritti umani a tutte le persone che si trovano sotto la propria giurisdizione, anche se non fisicamente presenti nel proprio territorio.

In altre parole, la Corte sembra gettare le basi per il riconoscimento di un dovere ulteriore in capo agli Stati, che, in virtù della primaria importanza che un ambiente salubre ha nel godimento dei vari diritti umani, devono adoperarsi affinché questo sia adeguatamente tutelato. A tal fine, proprio per evitare che ci si nasconda dietro la scusa della giurisdizione, questo concetto viene interpretato in maniera molto elastica e non può essere invocato in propria difesa.

Il futuro
La strategic litigation può fare molto in materia di diritto dell’ambiente. Dove non arrivano le norme (di qualunque genere e tipo) può invece giungere la pronuncia di un tribunale, che ha il pregio di poter essere eseguita coattivamente, cioè grazie all’intervento della forza pubblica.

In un obiter dictum, espressione latina che indica una frase non strettamente connessa col corpo di un testo, la Corte si è spinta a dire che anche i diritti economici, sociali e culturali sono messi a rischio dall’eventuale mancato adempimento delle obbligazioni poste a tutela dell’ambiente. Questo passaggio sembra voler strizzare l’occhio ad un futuro sviluppo di questa linea argomentativa, ove l’ambiente costituisce una sorta di perno attorno al quale ruotano i diritti umani.

Quando furono concepiti e cristallizzati i diritti umani che ai giorni d’oggi sono considerati basilari, mancava la consapevolezza che questi dovessero necessariamente poggiare, a loro volta, su un altro diritto, collegato però ad una situazione di fatto. Preservare l’ambiente servirà a dare piena attuazione ai vari diritti dell’uomo, perché in assenza di questo elemento resteranno scritti sull’acqua.

 

Fine pena mai e rito abbreviato: game over.

Altro girone altro regalo dal nostro governo gialloverde.

Martedì scorso, 2 aprile, il Senato ha approvato in via definitiva il disegno di legge n. 925, che reintroduce nell’ordinamento l’impossibilità di accedere al rito abbreviato per i soggetti imputati di reati puniti con la pena dell’ergastolo.

Al Governo gialloverde questa riforma piace tantissimo: per una ‘pena certa’, dicono, per evitare che determinate scelte processuali frustrino la reazione punitiva prevista dal legislatore. Per dare maggior sicurezza ai cittadini.

Per comprendere la portata di questo cambiamento è necessaria una breve premessa.

Se è chiaro che ‘ergastolo’ significa che il condannato non uscirà (di regola) dalla prigione se non con i piedi davanti, è utile spendere due parole sul concetto di ‘rito abbreviato’. In sostanza, l’imputato rinuncia alla fase dibattimentale, che è la fase del processo più lunga, dove vengono sentiti i testimoni, i consulenti, i periti e lo stesso imputato se lo vuole e che racchiude in sé tutte le garanzie tipiche del processo penale. Il giudice, da parte sua, deciderà esclusivamente in base agli atti raccolti dal Pubblico Ministero – tradizionalmente ‘antagonista’ del soggetto alla sbarra – durante le indagini.

Quante volte nei film il testimone chiave, che durante le indagini aveva rilasciato dichiarazioni accusatorie nei confronti dell’imputato, cambia versione davanti al giudice facendo assolvere il tizio che fino a quel momento sembrava ormai spacciato? Ecco, questa cosa succede anche nella realtà e chi sceglie l’abbreviato si gioca, tra le altre, anche questa possibilità. È una sorta di do ut des: l’imputato rinuncia ad alcune garanzie che l’ordinamento gli offre consentendo una notevole diminuzione dei tempi processuali; in cambio, riceve uno sconto di pena di un terzo. È così che una pena determinata in sei anni verrà ridotta a quattro, ad esempio.

Ed era così che, fino al primo aprile scorso, l’ergastolo poteva trasformarsi in trent’anni di reclusione.

Ma torniamo alla riforma appena approvata.

Tanto per cambiare, StraLi nutre fortissimi dubbi – eufemisticamente parlando – sulla tenuta costituzionale della norma così come modificata. In particolare, appare evidente la violazione della finalità rieducativa, costituzionalizzata al comma terzo dell’art. 27, che la pena necessariamente deve (almeno astrattamente) perseguire per essere considerata legittima.

Ma non solo. Il rito abbreviato permette di concludere i procedimenti più rapidamente: una modifica come questa è antitetica alla attuale tendenza di riduzione dei tempi della giustizia in ossequio al principio del giusto processo, nel quale rientra il diritto per l’imputato di essere giudicato in tempi ragionevoli, anch’esso presente in Costituzione all’art. 111.

Ma a prescindere dalle considerazioni di costituzionalità, quel che maggiormente preoccupa è il vento che muove cambiamenti come questo. Il diritto penale non può essere la risposta ai problemi sociali. Non è certo infliggendo l’ergastolo al posto di trent’anni di carcere – lo ripetiamo, trent’anni: tre volte dieci. O cinque volte sei. Insomma, un’eternità! – che si eviterà in futuro il compimento di omicidi, le affiliazioni alla criminalità organizzata, i sequestri di persona, gli attacchi terroristici.

Modifiche come questa hanno il cattivo odore della sviolinata ai comuni cittadini, per dare l’impressione di un Italia più sicura, in cui chi sbaglia una sola volta paga e paga per sempre.

Riders Vs Foodora

Nel sistema italiano la tutela dei lavoratori deve confrontarsi quotidianamente con nuove esigenze sociali e col rapido sviluppo della tecnologia, che dà vita a nuove tipologie di rapporti di lavoro, spesso gestiti quasi integralmente tramite l’utilizzo di dispositivi elettronici ed app.

Un esempio emblematico di questo fenomeno è costituito dal rapporto di lavoro instaurato tra ormai numerose aziende che forniscono servizi di “Food Delivery” e i c.d. “riders”, ossia coloro che effettuano materialmente la consegna: come possono essere regolate tali nuove realtà e come possono essere trovate adeguate tutele per i “nuovi” lavoratori?

Per inquadrare la fattispecie, occorre innanzitutto analizzare come si svolge la prestazione lavorativa dei riders e a questo proposito abbiamo considerato il caso più rappresentativo, oggetto di contenzioso nei mesi passati: il caso Foodora.

Caratteristiche del rapporto di lavoro
I riders sottoscrivono con l’Azienda un contratto di collaborazione coordinata e continuativa e la gestione del rapporto di lavoro avviene attraverso una piattaforma digitale ed una app per smartphone. Il lavoratore è libero di candidarsi o non candidarsi per una specifica corsa e, nel caso in cui lo faccia, si impegna ad eseguire la consegna, tramite l’utilizzo di una propria bici, tassativamente entro 30 minuti (pena applicazione a suo carico di una penale di 15 euro). Il lavoratore deve provvedere ad inoltrare all’INPS la domanda di iscrizione alla gestione contributiva per gli autonomi e può recedere liberamente dal contratto con 30 giorni di preavviso.

A fronte della prestazione, Foodora corrisponde al lavoratore 5,60 euro lordi l’ora, provvede al versamento dei contributi previdenziali e assicurativi, ma non ha potere gerarchico né disciplinare.

Il caso
L’ evidente fluidità dell’inquadramento ha portato i riders a sollevare la questione in giudizio, chiedendo una riqualificazione del rapporto da parasubordinato a subordinato, con la conseguente richiesta di ricevere le somme loro spettanti a titolo di differenze retributive ed indennità risarcitorie. Tali domande erano state rigettate dal Giudice di primo grado, ritenendo che mancassero alcuni elementi determinanti per poter parlare di subordinazione: da un lato l’obbligatorietà e la continuità della prestazione da parte dei fattorini, dall’altro l’assenza di potere gerarchico/disciplinare da parte di Foodora.

Ripresentata la questione in secondo grado, la sentenza n. 29 del 4.2.2019 della Corte d’Appello di Torino ha accolto in maniera parziale le richieste sollevate dai riders a tutela dei propri diritti. In particolare, viene loro riconosciuto il V livello del CCNL logistica trasporto merci, pur non inquadrandoli come lavoratori subordinati, in quanto svolgevano una prestazione lavorativa al di sotto delle 20 ore settimanali e mancava il requisito dell’obbligatorietà della prestazione, circostanze definite poco compatibili con la natura subordinata del rapporto di lavoro.

Per la prima volta in assoluto, la Corte ha accordato maggiori tutele a questa nuova fattispecie di lavoro, applicando al caso concreto la previsione normativa dettata dall’art. 2 del d.lgs. 81/2015 (parte del cd. Jobs Act), che estende la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro personali, continuative, e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente, ma senza la costituzione della subordinazione.

Le criticità secondo StraLi
Ad avviso di StraLi, la decisione di primo grado ha dato rilevanza esclusivamente all’inquadramento parasubordinato dei contratti firmati dai riders, senza considerare se effettivamente vi fosse piena corrispondenza tra il nomen iuris (il titolo dato al contratto, una sorta di etichetta) e la realtà della prestazione svolta dai ricorrenti, né se i “Riders” fossero concretamente sottoposti al potere direttivo ed organizzativo del datore di lavoro.

D’altra parte, la sentenza della Corte d’Appello pare essere solo in parte soddisfacente: pur riconoscendo maggiori tutele e diritti a questa nuova categoria di lavoratori, ha negato in capo agli stessi la natura subordinata del rapporto di lavoro, nonostante l’accertata effettiva integrazione funzionale del lavoratore nell’organizzazione altrui e l’assenza di autonomia organizzativa, che invece dovrebbe essere elemento centrale della parasubordinazione.

In ultima analisi, la Corte non ha considerato l’obbligo del lavoratore di porre a disposizione del datore di lavoro le proprie energie e di impiegarle con continuità, fedeltà e diligenza, secondo le direttive e la turnistica impartite dal datore di lavoro per il perseguimento dei fini della società.

La natura “strategica”
Il caso è, secondo STRALI, un esempio di come i casi giuridici possano determinare il riconoscimento di nuovi diritti e garanzie che devono trovare spazio nel nostro ordinamento, in sintonia con l’evoluzione della nostra società. In assenza di un esplicito intervento legislativo, l’intervento dei tribunali può sopperire e colmare questa lacuna. Nel caso Foodora, la Corte sembra aver ricavato una forma di lavoro ibrida: pur non riconoscendo l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, ha considerato gli aspetti del tutto nuovi del rapporto in questione – le componenti tecnologiche e le modalità di prestazione del lavoro – valutandone la scarsa autonomia e quindi la necessità di riconoscere maggiori tutele in capo al lavoratore, proprio perché le concrete modalità di svolgimento della prestazione non permettono di inquadrarla nella categoria della parasubordinazione.

Il futuro
La rilevanza del caso Foodora non si limita ai diritti dei riders. La natura “strategica” della questione, di interesse per StraLi, permetterebbe di annoverare nella nuova fattispecie tutti quei profili di lavoratori che, non qualificati come subordinati, soffrono degli svantaggi propri del lavoro autonomo ma al contempo delle imposizioni del lavoro dipendente, il tutto senza godere delle tutele adatte al tipo di prestazione.

Parliamo, a titolo esemplificativo, dei lavori a partita iva presso gli studi professionali e delle prestazioni occasionali con compenso a ritenuta d’acconto: in tali casi, lo scarso potere contrattuale del lavoratore – dovuto alle contingenze del mercato del lavoro – non trova protezione nel tessuto normativo, lacunoso e inadatto, e si auspica che possano essere considerati profili meritevoli di attenzione, alla stregua dei fattorini di Foodora, che hanno già in parte vinto la loro battaglia.

Ci auguriamo che la sentenza commentata possa segnare l’inizio di una nuova era, ove i tribunali siano sempre più orientati a valutare con estrema attenzione lo svolgimento del rapporto di lavoro, al di là di quanto scritto sulla carta, in modo da poter garantire ai lavoratori i dovuti diritti e tutele.

 

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