Il riconoscimento facciale all’italiana

È stata lanciata venerdì la campagna #ReclaimYourFace che ha ad oggetto la firma di una iniziativa della società civile (EuropeanCitizens’ Initiative – ECI) con lo scopo di imporre il divieto di pratiche di sorveglianza di massa svolta tramite le tecnologie biometrico. L’ECI chiede alla Commissione Europea una regolamentazione stringente di queste tecnologie, volta ad evitare interferenze con i nostri diritti fondamentali di cittadini.

“Ma in Italia mica si usano queste telecamere intelligenti….”: FALSO! Questa iniziativa ci tocca proprio da vicino.

Eh sì, perché nel gennaio 2017 il Ministero degli Interni ha chiuso un bando di gara avente ad oggetto l’aggiudicazione di un appalto per la fornitura di un Sistema Automatico di Riconoscimento Immagini S.A.R.I. Più precisamente, l’appalto riguardava la realizzazione di una soluzione completa (“chiavi in mano”) per il riconoscimento automatico di volti in diversi scenari (Fonte: Capitolato Tecnico di appalto). L’appalto è stato vinto dalla società Parsec 3.26 S.r.l. per il lotto relativo al “Sistema SARI-Enterprise” e dalla società BT Italia S.p.A. per il lotto relativo al “Sistema SARI Real-time”.

Si tratta infatti di due sistemi in uno: nello scenario Real-Time l’algoritmo è in grado di analizzare in tempo reale i volti presenti in una zona ristretta e di confrontarli con quelli presenti in una watch-list, creando poi degli alert nel caso di risultato positivo. Nello scenario Enterprise, invece, il software viene utilizzato per cercare all’interno di una banca dati di grandi dimensioni dei match (i.e. identità corrispondenti) partendo da una foto. SARI Enterprise è stato ideato come strumento di «supporto di operazioni di controllo del territorio in occasione di eventi e/o manifestazioni».

Ma chi lo usa SARI? E su che database opera?

First things first: SARI viene utilizzato dalla forze di polizia per confrontare le immagini rilevate dalle telecamere con i dati contenuti nel database AFIS (Automated Fingerprint Identification System). Il sistema AFIS contiene al suo interno tutti i dati necessari per l’identificazione di un soggetto: fotosegnalazioni effettuate a fini preventivi o giudiziari, impronte digitali ma anche dati anagrafici e biometrici di persone che sono state sottoposte a rilievi.

Dunque, semplificando: se inserisco nel sistema “statico” SARI-Enterprise la foto di un soggetto sospettato, il software cercherà se la sua immagine corrisponde ad un profilo contenuto nel database AFIS.

E pare che sia andata proprio così: nel 2018 la Polizia di Stato comunicava di aver arrestato a Brescia due ladri grazie proprio al nostro amico riconoscimento facciale.

N.B. Nel database di Sari, che conterrebbe 9 milioni di profili, pare che 8 su 10 dei profili riguardino soggetti stranieri.

Ad oggi, non risulta che il sistema SARI Real-Time sia stato ancora utilizzato.

E fin qui, tutto bene (mica tanto…).

Perché come ci rivela l’inchiesta condotta da Riccardo Coluccini per Irpimedia, nel Novembre 2020 il Ministero ha chiuso un altro bando di gara. L’oggetto? Individuare il miglior sistema di riconoscimento facciale da utilizzare in tempo reale sui migranti alle frontiere. Ad oggi sappiamo solo che il Ministero ha avviato una procedura negoziata con la stessa Parsec 3.26, in assenza di ulteriori competitors sul mercato.

“E quindi? Tanto sono stranieri….”: FALSO, caro amico (razzista, quindi forse non così tanto nostro amico).

Perché in realtà il Ministro per le politiche giovanili e lo sport Spadafora ha annunciato nel Febbraio 2020 di voler utilizzare sistemi di videosorveglianza con riconoscimento facciale” negli stadi per “aumentare la sicurezza sugli spalti e contrastare gli episodi di razzismo e discriminazioni”.

Ed in effetti, come riporta AlgorithmWatch, il sistema è stato testato negli stadi nel giugno 2019, durante la finale Under 21 della European Cup. L’obiettivo era monitorare gli ingressi nello stadio per identificare soggetti che erano stati sottoposti ad un daspo.

Ma c’è di più: nel Settembre 2019 si annunciava l’utilizzo di SARI per “per comparare la foto posta sulla tessera dell’abbonato con il volto di chi sta varcando il tornello ma che potrebbe essere utilizzato dalle forze dell’ordine con diverse finalità: dall’individuare chi, soggetto a daspo, tenta di entrare allo stadio, alla segnalazione di possibili terroristi”.

E lo stadio di Torino segue a ruota testando un sistema di tornelli intelligenti “anti-virus” , chiamato Feel Safe, che misura la temperatura del corpo e utilizza il riconoscimento facciale per verificare che i tifosi indossino correttamente la maschera.

I problemi sono tantissimi: dalla mancanza di trasparenza sul funzionamento tecnico di tali sistemi (explainability, anyone?) ai profili relativi alla protezione dei dati (ma dove sono finite le valutazioni d’impatto).

Insomma, tempi grami per metterci la faccia: riprendiamocela!

A cura di Alice Giannini

Dal diritto ambientale ai diritti dell’ambiente

L’attenzione verso la necessità di condurre uno stile di vita maggiormente ecosostenibile tramite l’adozione di abitudini maggiormente orientate verso il rispetto dell’ecosistema si sta trasformando, negli ultimi anni, nella promozione e nell’adozione non solo di abitudini personali di vita green ma, anche e soprattutto, in una maggiore consapevolezza civica in merito alla necessità di tutelare l’ambiente per garantire (anche) la salute umana.

In questo senso, da tempo si discute della possibilità (necessità) di riformare il diritto ambientale a favore di una visione più ecocentrica di questo, sottolineando l’importanza di iniziare a valutare la salute ambientale come un bene indipendente dalla vita umana. In questo senso si è quindi sottolineata la necessità di responsabilizzare individui, enti e Stati in merito alle condotte eco-insostenibili o, addirittura, eco-distruttive. Le battaglie promosse da ong, associazioni, enti o, talvolta, anche cittadini privati, sono molte ma, purtroppo, si contano, invece, abbastanza velocemente gli interventi legislativi volti a tutelare l’ambiente. Si discute, addirittura, d’introdurre un nuovo, specifico, crimine (il c.d. reato di ecocidio) per chiunque attenti alla salute dell’ecosistema al punto da danneggiarlo in maniera irreparabile, crimine che, al pari del genocidio, sottintende condotte così gravi da risultare in contrasto con la stessa natura umana che dovrebbe, tendenzialmente, rivolgersi alla tutela e protezione (anche) dell’ecosistema.

Innumerevoli sono state, negli ultimi anni, le iniziative eco-friendly da parte di singoli, associazioni e ONG, tra queste una ha avuto un esito particolarmente felice, ci si riferisce all’iniziativa di quattro ong francesi (Greenpeace, Oxfam, Fondazione Nicolas Hulot e Notre Affaire à tous) per far accertare l’inadempimento dello stato francese nei confronti delle obbligazioni assunte con gli accordi di Parigi del 2015, nonché con la Strategia Nazionale Low Carbon per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica.

Il 03 febbraio 2021, il Tribunale Amministrativo di Parigi ha infatti condannato la Francia a una multa (evidentemente simbolica) di 1 euro per non aver rispettato gli impegni presi nel controllo del cambiamento climatico a seguito di una causa intentata dalle ong sopra menzionate.

La condanna è simbolica ma, comunque, storica. Si pone, infatti, come la prima condanna pronunciata nei confronti di uno Stato per non aver adempiuto agli obblighi assunti nella prevenzione, controllo e repressione del cambiamento climatico, da tempo al centro di dibattiti politici, giuridici e sociali.

Il Tribunale francese ha dato ascolto alle innumerevoli voci che, da tempo, sollecitano gli Stati a prestare maggiore attenzione alla salute dell’ecosistema (basti dire che le quattro ONG promotrici della causa avevano raccolto 2,3 milioni di firme per una petizione in cui chiedevano al governo di rispettare gli accordi sul clima prima di intraprendere la causa giudiziaria per far vedere riconoscere la violazione francese degli accordi di Parigi).

La pronuncia in oggetto è, quindi, un primo (importante) passo per il riconoscimento (anche giudiziale) del diritto individuale a vivere in un ambiente che sia sano. La pronuncia francese potrebbe aprire (finalmente) la porta ad un diritto ambientale dall’approccio ecocentrico e non, meramente, antropocentrico, riconoscendo il diritto dello stesso ambiente ad essere rispettato (e, verrebbe da dire, tutelato), indipendentemente dai danni che un ambiente insalubre potrebbe provocare all’uomo.

Ancora non è dato sapere se lo Stato verrà obbligato ad agire sia per risarcire i danni provocati con la propria inadempienza che per modificare le proprie condotte per renderle ossequiose degli accordi di Parigi, ma rimane il fatto che la responsabilità statale è stata accertata.

È ancora presto per fare previsioni sulle conseguenze che una sentenza simile potrebbe avere sulla giurisprudenza futura, tuttavia non si può che apprezzare l’innovatività della pronuncia francese che si pone come precedente importante a livello nazionale ma, dato il tema, anche internazionale.

A cura di Carlotta Capizzi

Quelle mutilazioni genitali che sono (per ora) legittime: il caso delle persone intersessuali

L’Europa, baluardo dei diritti umani e della democrazia, nasconde un terribile segreto. Nonostante l’Unione Europea condanni molto duramente le Mutilazioni Genitali Femminili (MGF), la stessa attenzione non viene rivolta alle mutilazioni inferte alle persone intersessuali.

Ma, innanzitutto, che cos’è l’intersessualità?

Secondo il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, le persone intersessuali sono individui che, a livello di sesso cromosomico, gonadico o anatomico, non possono essere identificati come esclusivamente maschili o femminili. Ciò significa che l’intersessualità si può manifestare in maniera evidente, quando ad esempio i genitali presentano un’ambiguità, ma anche in maniera più nascosta, quando essa si palesa a livello cromosomico.

“Intersessualità” è, quindi, un termine ombrello che indica tutte quelle condizioni congenite per cui lo sviluppo del sesso di un individuo è considerato “atipico”. Infatti, essendo le nostre società costruite su un forte binarismo del sesso, tutti coloro che non cadono strettamente né in una né nell’altra categoria vengono considerati fuori dalla norma.

Le Nazioni Unite stimano che, in percentuale, le persone che presentano dei tratti intersessuali siano tra lo 0,05% e l’1,7 % della popolazione. Tuttavia, è legittimo pensare che la percentuale possa essere più alta: ancora oggi, l’intersessualità è una condizione poco conosciuta e molti tra quelli che la vivono preferiscono non esporsi per il conseguente rischio di stigmatizzazione.

Uno egli scenari possibili è che, alla nascita, il sesso del neonato sia difficile da assegnare. La prassi comune, in questi casi, è che i genitali vengano resi “conformi” o vengano “normalizzati” attraverso operazioni chirurgiche e trattamenti ormonali.

La comunità intersessuale si riferisce a questo tipo di interventi come mutilazioni genitali e spesso le conseguenze sono drammatiche. Tali trattamenti provocano delle modifiche irreversibili sul corpo dei bambini intersessuali, i quali, in seguito, possono sviluppare diversi problemi di salute e gravi traumi psicologici. Tra le ripercussioni fisiche di queste vere e proprie mutilazioni si annoverano genitali sfregiati e non funzionali, sterilità, dolore cronico, perdita importante o totale di sensibilità genitale, incontinenza urinaria e/o fecale e scompensi ormonali. Inutile a dirsi, chi subisce questo tipo di violazione sul proprio corpo è maggiormente incline a sviluppare rifiuto nei confronti dell’ambiente sanitario.

Che ruolo ha il diritto in tutto questo?

Da una parte, la concezione strettamente binaria del sesso è legittimata proprio dalla legge, quando essa ne riconosce e regolarizza solo due – maschi e femmine. La maggior parte di legislazioni europee non ha introdotto alcun indicatore per persone non binarie e, di conseguenza, queste sono considerate invisibili agli occhi dello Stato.

Dall’altra, mancano protezioni legali adeguate. Nonostante le operazioni che i neonati intersessuali subiscono non siano necessarie e vengano eseguite – ovviamente – senza il pieno ed informato consenso della persona interessata, entro i confini europei non esiste un divieto esplicito per ciò che concerne tali mutilazioni.

Infatti, il diritto internazionale e quello europeo considerano l’intersessualità ed i problemi ad essa legati solo in alcuni strumenti di soft law, i quali non sono vincolanti per gli Stati. Nessuno strumento di diritto internazionale né europeo è stato adottato per rendere proibite queste pratiche.

A livello nazionale, l’unico Paese che ha esplicitamente incluso l’intersessualità nel diritto alla non discriminazione è Malta: tramite un atto legislativo del 2015, denominato GIGESC Act (Gender Identity, Gender Expression and Sex Characteristics Act), è diventato l’unico paese europeo a vietare per legge le operazioni su minori se non necessarie ed in mancanza di consenso informato.

Tuttavia, anche laddove – come nel caso di Malta – il diritto includa e tenti di proteggere le persone intersessuali, le mutilazioni continuano ad essere una pratica diffusa.

Cosa si può fare per fermare queste pratiche abominevoli?

Senza dubbio, è necessario parlarne. Sono ancora molte le persone che non hanno un’effettiva conoscenza della condizione intersessuale, e ancora di più quelle che non sono al corrente delle mutilazioni genitali sui neonati intersessuali.

Inoltre, è fondamentale che vengano adottate misure legislative per rendere queste operazioni esplicitamente vietate ma, come mostra il caso maltese, da sole non eradicano il problema. La legge, infatti, dovrebbe procedere di pari passo ad un’appropriata educazione sul tema, rivolta soprattutto agli ambienti sanitari e scolastici.

(In foto, la bandiera intersex).

A cura di Martina Molinari

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