IL VERO COSTO DEL BLACK FRIDAY: IMPATTO SOCIALE E IMPATTO AMBIENTALE

Anche quest’anno, come ormai da diversi anni, il Natale sembra arrivare in anticipo grazie all’avvento del Black Friday, che si svolgerà il 27 novembre. Come molte altre tradizioni che si sono radicate nella cultura occidentale, il Black Friday trova le sue origini negli Stati Uniti d’America: nacque infatti nella città di Philadelphia, negli anni ’50, dove durante il weekend della festa del Ringraziamento visitatori e acquirenti affollavano le vie del centro, creando problemi di ordine pubblico per le forze di polizia. In seguito, negli anni ’80, si diffuse la tradizione di identificare il venerdì successivo alla festa del Ringraziamento come il giorno ufficiale di apertura delle spese natalizie, con sconti e promozioni in tutto il Paese.

Al giorno d’oggi, il Black Friday segna l’inizio della stagione dello shopping natalizio in tutto il mondo. Per l’intera giornata è possibile acquistare una grande varietà di prodotti, dai capi di abbigliamento agli utensili per la casa, a prezzi stracciati; il venerdì nero è solitamente seguito dal Cyber Monday, un lunedì di sconti imperdibili per tutto ciò che concerne la tecnologia e l’elettronica. Tuttavia, oramai le promozioni non si limitano più a queste date prefissate: negozi e catene incominciano a scontare i propri prodotti già da giorni, se non da settimane prima del venerdì successivo al giorno del Ringraziamento. E se negozi e grandi magazzini sono ancora presi d’assalto da folle e code chilometriche di potenziali consumatori, il grande protagonista del Black Friday è senza dubbio l’e-commerce. La vendita e l’acquisto online del tipo Business to Consumer (B2C) sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni: con pochi click, l’acquirente può farsi spedire diverse tipologie di prodotti insieme, spesso utilizzando un’unica piattaforma, a prezzi estremamente convenienti. Secondo i dati dell’Osservatorio sull’eCommerce B2C del Politecnico di Milano, nel 2019 in Italia gli acquisti online hanno subito un’impennata del +15% rispetto all’anno precedente, per un valore totale di 31,6 miliardi di euro. Col perdurare della pandemia di Covid-19, queste cifre sembrano essere già aumentate esponenzialmente e destinate a farlo ancora in questi ultimi mesi del 2020.

In questo panorama, a spiccare è la piattaforma Amazon, che si è imposta come l’azienda leader nel settore in tutto il mondo. Il gigante dell’e-commerce e le sue offerte hanno attecchito anche in Italia, che negli ultimi anni ha visto un aumento di web shopper fra una popolazione storicamente restia all’acquisto online e l’apertura di un numero sempre maggiore di stabilimenti Amazon. Se in tempi di incertezze e restrizioni sempre più stringenti alla libertà di circolazione lo shopping conveniente rappresenta certamente un’occasione di svago e relax, c’è un costo dietro il fenomeno Black Friday e Cyber Monday. Un costo che è emerso sempre più chiaramente di anno in anno, con l’aumento delle vendite online. L’impatto di questo fenomeno si produce sia sul piano sociale e dei diritti dei lavoratori, sia sul piano ambientale. Con l’aumento delle vendite e degli acquisti online e con l’espansione di Amazon, si è anche registrata una costante crescita, ogni anno, degli scioperi e delle proteste legate alle condizioni dei lavoratori del settore. Le denunce dei magazzinieri hanno portato alla luce una giornata lavorativa e dei turni estenuanti per poter soddisfare la montagna di ordini quotidiani e attenersi ai rigidi standard di velocità che Amazon promette ai propri acquirenti. Ciò comporta uno sforzo fisico e la ripetizione costante di determinati movimenti che, alla lunga, hanno provocato problemi di salute a moltissimi lavoratori. Tutto questo in un regime di stretto controllo sulla produttività del singolo: sono numerose le testimonianze secondo le quali le pause, persino per un pranzo tranquillo o per una sosta in bagno, non sono benviste all’interno dell’ambiente di lavoro e inficiano sulle possibilità per il dipendente di avere un avanzamento di carriera o persino mantenere il posto. Già nel 2019 si sono diffuse in tutta Europa le proteste dei lavoratori negli stabilimenti Amazon. L’Italia non è stata da meno, a partire dagli scioperi e dalle dichiarazioni dei dipendenti dell’hub di Castel San Giovanni, in provincia di Piacenza. I sindacati hanno fatto sentire la loro voce non solo per esporre le rigide condizioni lavorative a cui i dipendenti sono normalmente sottoposti; nel corso del 2020 e della prima ondata di Covid-19, hanno anche denunciate le carenze dei magazzini per ciò che concerne la sicurezza sanitaria, il mantenimento delle distanze e la dotazione di dispositivi di sicure. Ora che siamo nel pieno della seconda ondata della pandemia, gli occhi restano puntati su come Amazon e gli altri attori dell’e-commerce bilanceranno la necessità di gestire la mole di ordini e scadenze – cosa che provoca anche un raddoppio dei lavoratori, spesso attraverso agenzie di somministrazione di lavoro – e l’obbligo di garantire la dignità e la salute dei dipendenti. Ma il Black Friday non ha solo un impatto sulle migliaia di persone che, col loro lavoro, ne sostengono i ritmi e i costi forsennati. L’aumento esponenziale dei consumi ha delle pesanti conseguenze anche in tema d’impatto ambientale, a 360°, a partire dai prodotti che vengono in effetti acquistati. I campioni delle vendite durante il Black Friday e il Cyber Monday sono prevalentemente due: prodotti di fast fashion e prodotti di elettronica e tecnologia. Nel primo caso, col termine identifichiamo quel settore dell’abbigliamento le cui imprese realizzano un grande numero di collezioni ogni anno, realizzando abiti a costi assai ridotti, accessibili in quantità molto grande e a prezzi vantaggiosi. I costi ambientali della lavorazione della materia prima e del confezionamento del prodotto si riflettono in particolare sulla gestione delle risorse idriche, eccessivamente sfruttate per il mantenimento di livelli di produzione elevate, e sulla diffusione nell’ambiente di sostanze nocive necessarie per la lavorazione dei prodotti. Lo stesso discorso vale per tecnologia ed elettronica, protagoniste degli sconti del Cyber Monday: smartphones, auricolari e altri dispositivi richiedono lo sfruttamento di materie prime e minerali che hanno costi ambientali elevati sia per la loro estrazione e lavorazione, che successivamente quando è necessario smaltirli. In entrambi i casi, infatti, i beni acquistati sono a rapida obsolescenza: gli acquisti massicci del Black Friday producono un’ingente quantità di scarti; i prodotti hanno una vita sempre più breve, per poi essere trasformarti nel giro di poco tempo in rifiuti. L’impatto del Black Friday sull’ambiente non si limita però a questo. Le dinamiche consolidate dalla diffusione dell’e-commerce hanno aumentato anche i costi ambientali collaterali. Il packaging dei prodotti spediti e consegnati agli acquirenti ha effetti deleteri sull’ambiente: sono tonnellate di plastica e di carta che vengono impiegate esclusivamente per l’imballaggio. Il riciclaggio in questi casi fornisce una risposta solo parziale per evitare lo spreco. Inoltre, l’impiego di mezzi di trasporto per la consegna effettiva del pacco comporta un aumento massiccio anche delle emissioni di CO2 nell’atmosfera. Tutti questi fattori hanno portato i più grandi gruppi e movimenti a difesa dell’ambiente a condannare il Black Friday come fenomeno: nel 2019, le proteste autunnali del movimento Fridays for Future hanno lanciato lo slogan “Block Friday” proprio per denunciarne gli alti costi. StraLi, così come le altre realtà impegnate nella difesa dei diritti dei lavoratori e nella tutela dell’ambiente, rivolge un duplice invito: alle istituzioni, affinché si facciano carico di controllare che sia garantita la dignità dei lavoratori e siano rispettati gli impegni nella lotta contro la crisi climatica anche nella gestione del Black Friday e del Cyber Monday; e ai consumatori, affinché l’acquisto sia sempre più consapevole dei costi che comporta per persone e ambiente.

A cura di Greta Temporin

ITALIA SANZIONATA DALLA CGUE PER L’INQUINAMENTO DELL’ARIA

La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha accertato che l’Italia ha violato in modo sistematico e continuativo la normativa comunitaria in tema di qualità dell’aria

Il 10 novembre 2020 si è concluso un percorso giudiziario iniziato dalla Commissione Europea nel 2014 e volto a far accertare, dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la violazione da parte dell’Italia della Direttiva 2008/50/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa alla qualità dell’aria ambiente: in parole povere, ambisce a rendere l’aria più pulita in Europa.

La Direttiva, per quanto qui d’interesse, mira a tutelare la salute umana, nonché quella ambientale, tenendo in considerazione la circostanza per cui gli agenti inquinanti l’aria sono prodotti da numerose fonti (anche naturali) e tende quindi a bilanciare le esigenze di tutela dell’ecosistema con le necessità (anche) economiche degli Stati membri. A tal fine la Direttiva prevede quindi la possibilità, per gli Stati, di richiedere e ottenere l’autorizzazione affinché i limiti dei livelli d’inquinamento dell’aria possano essere violati per ragioni specifiche o in determinate regioni.

Venendo al caso italiano, la Commissione Europea ha segnalato alla Corte il fallimento italiano nell’adempiere alle obbligazioni della sopra citata direttiva, in particolare a quelle previste dall’art. 13, in combinato disposto con l’allegato XI alla Direttiva 2008/50/CE e dall’art. 23/1 in combinato disposto con la sezione A dell’allegato XV della stessa direttiva, dal 1° gennaio 2008 al 28 giugno 2017. Gli obblighi previsti dagli artt. 13 e 23 prevedono, rispettivamente, i limiti di diossido di solfuro, PM10, piombo e monossido di carbonio che gli Stati si impegnano e non superare e l’obbligo di adottare piani regolatori per l’abbassamento del livello d’inquinamento dell’aria per le zone in cui i livelli d’inquinanti eccedono quelli previsti dall’art. 13, nonché di mantenere eventuali periodi di violazione degli obblighi sopra menzionati ristretti al più breve periodo possibile.

In particolare, la Corte di Giustizia Europea ha ritenuto, alla luce dell’obiettivo della Direttiva 2008/50/CE di evitare, prevenire e ridurre effetti pregiudizievoli per la salute umana e per l’ambiente derivanti dall’emissione eccessiva di agenti inquinanti, che l’Italia, alla luce dei dati raccolti dai report annuali sulle emissioni di PM10, dal 2008 al 2017 ha regolarmente ecceduto i limiti previsti dalla Direttiva 2008/50/CE, omettendo anche di adottare piani regolatori idonei a limitare al più breve tempo possibile gli eccessi derivanti dalle emissioni.

La violazione, più specificatamente, non può negarsi laddove lo Stato abbia rispettato i limiti per alcuni anni, violandolo in altri (come, invece, ha sostenuto l’Italia durante l’iter processuale) in quanto gli obiettivi di tutela della salute umana e ambientale della Direttiva sono raggiungibili solo laddove, una volta raggiunti gli obiettivi previsti dalla direttiva nel più breve tempo possibile, questi siano sempre rispettati. Allo stesso modo, la violazione italiana rimane sistematica e continuativa nonostante ci siano state delle tendenze diminutive delle emissioni di PM10 durante gli anni in quanto la mera riduzione graduale (e temporanea) delle emissioni non è sufficiente per garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla Direttiva relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa.

Ancora, nonostante possa essere vero che i limiti siano stati ecceduti (anche) a causa di ragioni naturali o connaturate a esigenze produttive, queste non sono idonee a giustificare la violazione dei limiti previsti dall’art. 13 laddove lo Stato non abbia provveduto ad ottenere la specifica autorizzazione a violare tali limiti (autorizzazione che l’Italia non ha provveduto ad ottenere) di cui si è brevemente accennato sopra.

Allo stesso modo, la Corte di Giustizia ha ritenuto che l’Italia abbia violato l’art. 23 della Direttiva in quanto ha omesso di adottare tutte le misure necessarie per evitare che il periodo di violazione dei limiti previsti dall’art. 13 fosse il più breve possibile, omettendo di adottare regolamenti o, comunque, misure necessarie ad abbassare i livelli di emissione di PM10, i quali, peraltro, erano già oltre i limiti al tempo in cui la Direttiva è diventata esecutiva, nel 2011 (basti dire che, ad esempio, la Sicilia ha adottato un piano regolatore solo nel 2018). Ancora, i report di alcune delle regioni (Umbria, Lazio, Campania) toccate dalla pronuncia della Corte hanno omesso di indicare il termine temporale entro cui miravano a raggiungere i livelli di emissioni previsti dalla normativa, rendendo impossibile valutare la meritevolezza dei loro piani regolatori, mentre le regioni che hanno indicato il termine finale entro cui miravano a ottenere gli obiettivi previsti dalle Direttive (Emilia-Romagna, Toscana, Veneto, Lombardia e Piemonte) hanno previsto termini troppo estesi (addirittura il Piemonte ha ritenuto di indicare il 2030 come anno di raggiungimento dei limiti. Ancora, misure più drastiche per il raggiungimento dei limiti imposti sono state adottate solo dopo che lo Stato è stato raggiunto dalla notizia dell’apertura del procedimento a suo carico.

La Corte ha quindi ritenuto l’Italia responsabile per la violazione della Direttiva relativa alla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, costatando la violazione sistematica e continuativa della Direttiva e sottolineando la tardività degli interventi normativi italiani in riferimento agli specifici obblighi previsti dall’art. 23.

A cura di Carlotta Capizzi

Presidenziali USA: come funziona il sistema elettorale e perché è ancora tutto in bilico

Mentre in alcuni Stati ancora si contano le schede e in altri già si parla di riconteggio e di brogli elettorali, il mondo è in attesa di conoscere con definitiva certezza chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America. In attesa di un risultato che, chiunque sarà il vincitore, sarà probabilmente uno dei più controversi della storia americana, ripercorriamo insieme un sistema elettorale da molti punti di vista unico nel suo genere, per meglio comprendere queste elezioni e il loro risultato.

Gli aventi diritto di voto sono tutti i cittadini statunitensi che abbiano raggiunto la maggiore età, cioè 18 anni. Costoro sono normalmente chiamati a scegliere il Presidente e il Vicepresidente della Repubblica Federale ogni quattro anni, in un election day che si svolge il martedì successivo al primo lunedì di novembre.

Tuttavia, in molti Stati le votazioni a volte si aprono con settimane di anticipo: questa apertura consente agli aventi diritto di votare dall’estero e, soprattutto, consente anche ai cittadini che si trovano in patria di votare per posta. Il meccanismo del voto per posta – o absentee ballot o mail-in ballot – non costituisce una novità introdotta di recente, ma uno strumento già ampiamente utilizzato nelle elezioni statunitensi. Ogni Stato della Repubblica Federale ha proprie specifiche regole per tale meccanismo, ma in generale le schede elettorali vengono spedite direttamente ai cittadini americani, che possono poi decidere se riconsegnarle in anticipo per posta oppure di persona durante l’election day. L’equo svolgimento di tutti i meccanismi di voto è affidato ai consigli elettorali di ogni distretto cittadino. Il sistema di voto attualmente utilizzato trova la sua fonte principale direttamente nella Costituzione degli Stati Uniti d’America, precisamente nell’art. 2 sez. I come modificato dagli Emendamenti XII, XXII e XXIII. Esso può essere definito come indiretto: la popolazione è innanzitutto chiamata a dare la propria preferenza alla lista dei candidati Presidente e Vicepresidente che preferisce – scegliendo fra tutte le liste disponibili, anche quelle indipendenti, per quanto nella storia degli Stati Uniti la partita si sia sempre giocata fra i candidati dei due partiti più grandi del Paese, quello Democratico e quello Repubblicano. Tuttavia, il giorno delle elezioni ad essere eletti dal voto popolare non sono i candidati alla presidenza e vicepresidenza, bensì i cosiddetti “grandi elettori” delle loro liste, che compongono il Collegio elettorale degli Stati Uniti d’America. Si tratta di elettori delegati, le cui liste sono presentate da ciascun candidato alla presidenza: il numero totale di elettori delegati che ciascuno Stato e il Distretto di Columbia può esprimere è correlato al numero di rappresentanti al Congresso statunitense che quel territorio può esprimere – per un totale di 538 grandi elettori.

Concluso l’election day, in base ai risultati del voto popolare, vengono individuati i grandi elettori per ciascuno Stato. Anche in questo caso, ogni Stato è libero di determinare i parametri per questa assegnazione: alcuni individuano i grandi elettori secondo un sistema proporzionale alle risultanze del voto popolare, ma la maggior parte adotta un sistema che viene definito come winner-takes-all; si elegge in blocco la lista, associata al relativo candidato Presidente, che ottiene la maggioranza dei voti popolari. Per ottenere la vittoria alle elezioni, i candidati alla presidenza e vicepresidenza devono superare la soglia di 270 voti da parte dei grandi elettori così selezionati. Questi ultimi votano a scrutinio segreto e, tecnicamente, senza vincolo di mandato elettorale, ma è accaduto raramente che si registrassero variazioni nella preferenza espressa dai grandi elettori. Il sistema elettorale americano appare quindi come uno dei complessi al mondo: il sistema dei grandi elettori apre alla possibilità che un candidato non riesca ad essere eletto, anche con la maggioranza assoluta del voto popolare ma senza il numero necessario di voti da parte dei grandi elettori. Si tratta dello scenario verificatosi nelle elezioni del 2016, dove Donald Trump venne eletto Presidente nonostante la sfidante Hillary Clinton avesse ottenuto oltre 3 milioni di voti in più. Inoltre, le elezioni presidenziali di quest’anno sono senza dubbio fra le più turbolente e problematiche nella storia del Paese. La presidenza Trump è stata attraversata da controversie: solo nel 2020, la pandemia di Covid-19 e l’inasprirsi delle questioni sociali relative soprattutto agli abusi della polizia contro gli afroamericani e il razzismo sistemico della società americana hanno polarizzato il dibattito pubblico e spaccato in due la società americana. A livello tecnico, la situazione sanitaria nel Paese ha portato a un boom del voto per posta: quasi 100 milioni di statunitensi hanno infatti usufruito dei meccanismi di voto anticipato, una cifra senza precedenti. A conteggi non ancora ultimati, questo ha già generato polemiche e accuse di ritardi inaccettabili e di brogli elettorali in molti Stati. Al momento, i conteggi già eseguiti e le previsioni negli Stati in cui c’è ancora attesa danno come vincitore Joe Biden, candidato alla Presidenza del Partito Democratico. La maggioranza di grandi elettori sarà però risicata e il Partito Repubblicano ha presentato già ricorsi alle Corti di diversi distretti e Stati per denunciare ritardi e brogli soprattutto nello spoglio dei voti effettuati per posta – che sembrano aver favorito i democratici e aver ribaltato i risultati in numerosi distretti. In queste ore, l’attuale Presidente Donald Trump ha annunciato di essere intenzionato a fare ricorso al massimo organo giudiziario degli Stati Uniti d’America, la Corte Suprema. Per quanto prima del voto la Corte abbia dato torto proprio alle istanze di Trump, rafforzando la legittimità del voto per posta, la composizione conservatrice potrebbe favorire il Presidente in carica e crea ancora grandi incertezze sui risultati di queste elezioni. Solo una cosa è certa: potrebbero trascorrere giorni, addirittura settimane prima che gli spogli e le risultanze acquisiscano una certezza tale da farci indicare con esattezza il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Se anche le urne sono chiuse, la battaglia per la Presidenza è ancora nel vivo.

A cura di Greta Temporin

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