Il fallimento di uno stato (o quando una persona privata della libertà si toglie la vita)

Da tempo Strali lotta per far in modo che i diritti delle persone trattenute nei Centri di Permanenza per il Rimpatrio siano (almeno) gli stessi di quelli riconosciuti ai soggetti sottoposti ad una “vera” detenzione. Ed è con grande sconforto che accogliamo la notizia del suicidio avvenuto la notte scorsa nel CPR di Corso Brunelleschi (Torino).

A togliersi la vita è stato Musa Balde, il ragazzo di 23 anni che due settimane fa circa era stato vittima di una violenta (diventata poi mediatica) aggressione a Ventimiglia ad opera di tre persone. In seguito ad identificazione svolta dalle forze di polizia, veniva accertato che era stato soggetto ad un provvedimento di espulsione nel mese di Marzo e per questo motivo veniva portato nel CPR torinese.

La situazione di vulnerabilità psicologica di Musa, tuttavia, era nota ed infatti si trovava in osservazione in isolamento sanitario (la c.d. area Ospedaletto). D’altronde chi non sarebbe vulnerabile due settimane dopo aver subito un pestaggio con calci e pugni da tre persone mentre si è riversi al suolo?

A ciò si aggiunge la situazione di degrado che caratterizza il CPR di Torino. Lo stesso Garante nazionale delle persone private della libertà personale, nel suo rapporto sui CPR pubblicato poco più di un mese fa, constatava la mancanza di acqua calda, di porte o tende per garantire la riservatezza all’interno dei servizi igienici e nelle docce, di aree adeguate per svolgere attività sportiva, la quasi impossibilità per i soggetti “detenuti” di rivolgersi agli operatori (questi infatti rimangono all’estero dei settori detentivi e si avvicinano alle cancellate solo in alcuni momenti della giornata)…

Come fare, quindi, a rivolgere un grido di aiuto quando si è totalmente isolati?

E non fraintendeteci, non si tratta di pura retorica: i migranti trattenuti hanno diritto al rispetto della loro dignità umana. E tale diritto è malleabile ed assume varie forme: dal poter trascorrere alcune ore all’aria aperta, con la possibilità di vedere il cielo, al ricevere cure sanitarie adeguate.

L’aspetto forse più grave, sul quale ci siamo già battuti come associazione, è appunto la totale inadeguatezza dell’assistenza sanitaria fornita all’interno del CPR di Torino. Sempre secondo quanto affermato dal Garante nel suo rapporto annuale, infatti, in questa struttura c’è un’alta concentrazione di persone affette da disagio psichico che viene isolata dal resto della popolazione detenuta senza che a ciò consegua una vera e propria presa in carico dal punto di vista sanitario.

Già nel luglio 2019, nella stessa area sanitaria Ospedaletto, si era tolto la vita un altro “ospite” del CPR. Eppure tali locali dovrebbero essere sottoposti ad una “continua sorveglianza medica”: peccato che l’area stessa di isolamento sanitario sia fisicamente dislocata dal presidio medico del centro. Ed i fatti di Torino si inseriscono in un triste trend nazionale: negli ultimi due anni sono morte cinque persone nei CPR del territorio italiano.

La responsabilità nei confronti delle persone private della libertà personale è collettiva: “Una persona affidata alla responsabilità pubblica deve essere presa in carico e trattenuta nei modi che tengano conto della sua specifica situazione, dell’eventuale vulnerabilità e della sua fragilità”.

E ciò deve valere sia che le persone siano detenute per aver commesso un reato, che nel caso di privazioni della libertà “senza reato” come quella dei CPR.

Need we say less?

A cura di Alice Giannini

Il diritto all’oblio – intervista su Radio Banda Larga

Cos’è il diritto all’oblio? Come farlo valere – e quando è lecito chiederne l’applicazione – in un mondo in cui ogni informazione, immagine o dichiarazione caricata sul web è a disposizione di chiunque digiti il nostro nome sulla barra di un motore di ricerca?

Ne abbiamo parlato nel corso della trasmissione di Radio Banda Larga “Voce” condotta dalla giornalista Giorgia Mecca.

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Praticamente diritto – podcast

Valentina Nichele, produttrice del podcast “Praticamente diritto – il diritto nella vita di tutti i giorni”, intervista due membri dell’Associazione per parlare di strategic litigation, come funziona e perché è importante che questo strumento venga utilizzato sistematicamente anche in Italia per la tutela dei diritti fondamentali.

CLICCA QUI per ascoltare il podcast

Donne e migrazioni

In una realtà ancora fortemente patriarcale come quella in cui viviamo, il dibattito sulle donne migranti si è manifestato per la prima volta negli anni Settanta del Novecento. L’osservazione dei processi migratori femminili ha tuttavia portato ad una più ampia riflessione sulle logiche di sfruttamento economico, politico e sociale del sistema capitalista.

Gli anni Settanta, nel mondo occidentale, furono caratterizzati dall’emergere di movimenti femministi della seconda ondata, movimenti di rivendicazione fondati principalmente sulla liberazione delle donne dalle dinamiche patriarcali. Le femministe si batterono, tra le tante cose, per il diritto all’aborto, per una sessualità consapevole e sicura e per potersi emancipare dai loro mariti e compagni dal punto di vista economico.

Ciò comportò un aumento, negli anni successivi, di donne che entrarono attivamente nel mercato del lavoro, nonostante le possibilità di carriera e di guadagno fossero, e siano ancora oggi, notevolmente ridotte rispetto a quelle degli uomini. Pur non volendo, fornirono al sistema capitalista una nuova modalità di sfruttamento della forza lavoro a basso costo.

Ma le conseguenze dell’apertura del mercato lavorativo alle donne occidentali sono anche altre: l’ambiente domestico resta abbandonato, le donne non hanno più la possibilità di occuparsi dei bambini e degli anziani di famiglia a tempo pieno e hanno bisogno di qualcuno che le sostituisca.

Nasce, tra gli anni Ottanta e Novanta, quella che verrà definita dagli studi sociali la catena della cura, un movimento migratorio tutto al femminile che comporta l’arrivo di donne migranti in Europa e Stati Uniti.

L’Italia in particolar modo accoglierà in un primo momento donne provenienti soprattutto dalle Filippine e, successivamente, dall’Europa dell’est, dall’America Latina e dall’Africa sub-sahariana. Per la prima volta nella storia si verifica un fenomeno di migrazione di massa con protagoniste le donne; non sono più gli uomini a fungere da apri-pista, a trasferirsi altrove per lavoro nell’attesa di trasferire anche i propri cari attraverso pratiche di ricongiungimento familiare.

Le donne in questione si ritroveranno a ricoprire un ruolo sociale del tutto nuovo. Da un lato la migrazione permette loro di emanciparsi dal ruolo di mogli e madri, potendo dimostrare ai loro mariti di essere perfettamente in grado di occuparsi anche economicamente della propria famiglia, dall’altro il loro soggiorno all’estero si rivela spesso molto più lungo del previsto, finendo per causare ripercussioni negative sulle proprie relazioni familiari, specialmente quelle con i figli che si lasciano dietro.

Tuttavia, la loro emancipazione risulta fittizia nel momento in cui approdano nel paese d’arrivo. Si ritrovano infatti, una volta sistemate, a ricoprire nuovamente quei tradizionali ruoli di cura assegnati alle donne, sostituendo le donne europee che ora si dedicano alla carriera.

I processi migratori femminili permettono inoltre al sistema capitalista di acquisire nuova forza lavoro da sfruttare, senza per questo doversi far carico dei costi di mantenimento delle stesse: la formazione di queste donne avviene, infatti, nei paesi di origine e si trasferiscono in Europa solo nel corso della vita lavorativa, per poi fare ritorno in vecchiaia nella terra natia.

Durante il loro soggiorno in Europa, queste donne si relazionano con differenti forme di discriminazione che si sviluppano sulla linea dell’intersezionalità, concetto accuratamente definito dalla giurista Kimberlé Crenshaw nel corso degli anni Ottanta (il termine “intersezionalità” descrive la sovrapposizione -o “intersezione”- di diverse identità sociali e le relative possibili particolari discriminazioni, oppressioni o dominazioni). Essere donna non implica per tutte la stessa cosa, i livelli di subordinazione a cui si è sottoposti sono da valutare anche in relazione alle altre caratteristiche identitarie, quali colore della pelle, etnia, condizione economica.

Le donne migranti della catena della cura risultano dunque discriminate su più fronti, vengono incasellate nelle etichette di donne di casa e di madri, la loro intera esistenza sembra ridotta alla sola condizione lavorativa in cui si trovano in quel momento. Identificate spesso come vittime, non vengono valutate le loro capacità e conoscenze in altri ambiti, non viene permesso loro di avere una propria vita privata. Costrette dal nuovo sistema a vivere in casa delle persone per cui lavorano, spesso senza nemmeno una propria stanza o senza poter invitare a casa amici o partners.

Donne che vivono nell’attesa di risparmiare una somma di denaro sufficiente per fare ritorno al proprio paese, ma che spesso non riescono nell’impresa. E quando ci riescono, affrontano la difficoltà di doversi reintegrare in un ambiente sociale e familiare che spesso trovano cambiato o che non le riconosce.

Tale fenomeno rappresenta, secondo alcuni, un fallimento delle teorie femministe: le donne europee hanno agito e parlato solo per sè stesse, hanno ottenuto il diritto di lavorare fuori casa, ma a discapito di altre donne. La vera conquista femminista avrebbe dovuto essere quella di mettere in discussione il ruolo degli uomini all’interno della società, dividendo con loro il peso del lavoro domestico. I ruoli maschili risultano invece invariati e con loro l’intero sistema patriarcale.

A cura di Luisa Ruffa

Qual è lo stato dei diritti di chi produce i vestiti che indossiamo?

È appena terminata la Fashion Revolution Week, una settimana di incontri, eventi e confronto per la comunità globale che si occupa di moda sostenibile, ambientalismo e diritti dei lavoratori nell’industria tessile.

L’evento, organizzato dall’associazione no profit Fashion Revolution, cade ogni anni nella settimana del 24 aprile, in commemorazione delle vittime del disastro di Rana Plaza. Il Rana Plaza è stato un edificio di otto piani, locato nella periferia di Dacca, Bangladesh, che ospitava alcune fabbriche d’abbigliamento e diverse migliaia di lavoratori e lavoratrici nell’industria tessile – impiegati per la produzione di grandi catene come Primark, Walmart, H&M e per il gruppo Inditex.

Il 24 aprile 2013, l’edificio subì un cedimento strutturale di entità considerevoli, che portò alla morte più di mille persone e né ferì il doppio, rendendolo il quarto più grande disastro industriale della storia. I problemi dell’edificio erano noti ai proprietari delle fabbriche tessili, che però disposero comunque il rientro dei lavoratori e delle lavoratrici al suo interno per rispettare le consegne e gli standard produttivi. Le vittime furono perlopiù giovani donne.

La settimana è stata ricca di momento di dialogo e confronto da parte delle più importanti personalità e community dedicate alla moda etiche e sostenibile. A otto anni di distanza dal disastro di Rana Plaza tuttavia, qual è il reale stato dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel settore tessile in tutto il mondo?

La pandemia pare aver esacerbato lo sfruttamento e l’abbandono nelle catene di produzione e distribuzione nel settore dell’abbigliamento, in particolare di quello della cosiddetta fast fashion. Già prima della diffusione del Covid-19 avvenuta nel 2020, essa si presentava come uno dei settori più redditizi al mondo e, al contempo, come una delle industrie in cui suoi dipendenti soffrono di più a causa di condizioni di lavoro estremamente precarie.

Orari di lavoro estenuanti per un salario medio bassissimo, esposizione continua a prodotti nocivi per la salute e per l’ambiente, mancanza di sicurezza negli ambienti di lavoro sono solo alcune delle violazioni sistematiche dei diritti di chi lavora nell’industria tessile globale, come riporta anche la piattaforma dedicata di Human Rights Watch.

Considerata anche la posizione geografica della maggior parte degli stabilimenti (che troviamo perlopiù in Asia e in America Latina) e la composizione della loro forza lavoro, segnaliamo che queste condizioni colpiscono perlopiù categorie che si trovano già in una posizione di minoranza o di sistematica discriminazione. Si tratta perlopiù di donne – soggette anche ad abusi e molestie sessuali sul posto di lavoro, come riporta il Global Fund for Women – perlopiù di colore o comunque non bianche, in posizioni economiche e sociali estremamente svantaggiate.

La sicurezza e la stabilità degli edifici dove gli operai e le operaie lavorano sono spesso precarie. Dopo il disastro di Rana Plaza, tentativi di arginare la precaria situazione degli stabilimenti e garantire un ambiente di lavoro sicuro ci sono stati. Un esempio positivo è stato senza dubbio il cosiddetto “Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh” (detto anche the Accord), siglato nel 2013: si tratta di un patto vincolante fra brand, rivenditori e sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici, volto ad assicurare in Bangladesh, un’industria RMG (Ready Made Garment) rispettosa della sicurezza e dei diritti umani.

L’accordo ha introdotto un sistema di monitoraggio e ispezione indipendente degli stabilimenti, nonché comitati interni alle singole fabbriche composti di rappresentanti democraticamente eletti fra i lavoratori ed è stato un notabile esempio di multistakeholder governance. Tuttavia, resta un accordo a termine, localizzato al solo Stato del Bangladesh. Altri Stati produttori, come India, Pakistan e Cina, dovrebbero seguire l’esempio, innanzitutto nell’incoraggiare la sigla di simili accordi tra sindacati indipendenti dei lavoratori e brand, nonché nel tutelare i primi e la loro posizione contrattuale.

È notabile il caso che ha posto di nuovo la Cina sotto i riflettori per il trattamento riservato alla minoranza etnica degli Uiguri, turcofoni prevalentemente di religione islamica perlopiù insediati nel Nord-Est del Paese. La minoranza era già al centro della discussione e delle rivendicazioni internazionali, in quanto sistematicamente perseguitati dallo Stato cinese – tanto che si è parlato, a proposito, di genocidio culturale, oltre che di sistematiche violazioni di diritti umani.

Nel 2020 inoltre è emerso che numerosi brand e produttori nell’industria della moda hanno continuato a rifornirsi di cotone e filato proveniente dallo Xinjiang, regione autonoma cinese in cui hanno vissuto e vivono tutt’ora la maggior parte delle persone di etnia Uigura. È stato illustrato come la produzione avvenga perlopiù attraverso lo sfruttamento del lavoro forzato di queste persone, come riportato anche dalla campagna Abiti Puliti.

In generale poi, il Covid-19 ha inasprito le condizioni in cui gli operai e le operaie tessili si trovano a vivere e lavorare. In seguito all’improvviso calo della produzione avuta nel 2020 e alla nuova difficoltà di spostamento delle materie prime, dovuta alla riorganizzazione del lavoro e alla chiusura delle frontiere, molti brand hanno deciso di risparmiare andando a tagliare proprio sulle categorie più deboli della catena produttiva. Milioni di lavoratori e lavoratrici negli stabilimenti tessili, in particolare quelli locati nel subcontinente indiano e nel Sud-Est asiatico, hanno visto il proprio posto di lavoro a rischio o hanno affrontato un licenziamento senza preavviso.

Molti di loro sono stati costretti a recarsi comunque a lavoro in condizioni igienico-sanitarie non all’altezza per la prevenzione della diffusione del virus Covid-19. Infine, innumerevoli brand hanno sospeso i pagamenti dei salari, protraendo questa situazione per svariati mesi e ponendo la sopravvivenza dei propri dipendenti e delle loro famiglie a rischio, come riportato anche da Human Rights Watch.

Come può agire il singolo consumatore in difesa dei diritti di chi dall’industria tessile subisce tali ingiustizie ed è esposto a soprusi e abusi?

Scelte individuali etiche possono essere fatte ricercando brand sostenibili – caratteristica che può essere controllate generalmente sul sito web di ogni produttore. Se essi presentano in maniera chiara e trasparente ogni passaggio della propria catena di produzione, indicando gli stabilimenti in cui i materiali vengono trattati e i prodotti fabbricati, nonché i Paesi in cui sono collocati, offrono una garanzia a chi acquista.

Tuttavia, le scelte individuali, per quanto consapevoli, non sono sufficienti. È necessario dare voce alle vittime di questo modello produttivo incentrato sullo sfruttamento, condividerne le storie e contribuire a fare pressione sui brand. Questo si può fare aderendo alle campagne e alle iniziative sempre più numerose, che mettono al centro proprio i lavoratori e le lavoratrice e amplificano la loro voce.

Fra queste, segnaliamo il movimento Who Made My Clothes, noto proprio a questo scopo dopo il disastro di Rana Plaza, e la campagna #PayUpFashion, volta a domandare salari dignitosi e pagamenti eseguiti nelle tempistiche previste all’industria dell’abbigliamento. Donare e supportare le organizzazioni che difendono i sindacati dei lavoratori in ciascun Paese produttore e contribuiscono a metterli in network è un passo importante, che ogni consumatore può compiere, per unirsi e domandare insieme il rispetto dei diritti umani.

A cura di Greta Temporin

Qual è lo stato dei diritti di chi produce i vestiti che indossiamo?

È appena terminata la Fashion Revolution Week, una settimana di incontri, eventi e confronto per la comunità globale che si occupa di moda sostenibile, ambientalismo e diritti dei lavoratori nell’industria tessile.

L’evento, organizzato dall’associazione no profit Fashion Revolution, cade ogni anni nella settimana del 24 aprile, in commemorazione delle vittime del disastro di Rana Plaza. Il Rana Plaza è stato un edificio di otto piani, locato nella periferia di Dacca, Bangladesh, che ospitava alcune fabbriche d’abbigliamento e diverse migliaia di lavoratori e lavoratrici nell’industria tessile – impiegati per la produzione di grandi catene come Primark, Walmart, H&M e per il gruppo Inditex.

Il 24 aprile 2013, l’edificio subì un cedimento strutturale di entità considerevoli, che portò alla morte più di mille persone e né ferì il doppio, rendendolo il quarto più grande disastro industriale della storia. I problemi dell’edificio erano noti ai proprietari delle fabbriche tessili, che però disposero comunque il rientro dei lavoratori e delle lavoratrici al suo interno per rispettare le consegne e gli standard produttivi. Le vittime furono perlopiù giovani donne.

La settimana è stata ricca di momento di dialogo e confronto da parte delle più importanti personalità e community dedicate alla moda etiche e sostenibile. A otto anni di distanza dal disastro di Rana Plaza tuttavia, qual è il reale stato dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nel settore tessile in tutto il mondo?

La pandemia pare aver esacerbato lo sfruttamento e l’abbandono nelle catene di produzione e distribuzione nel settore dell’abbigliamento, in particolare di quello della cosiddetta fast fashion. Già prima della diffusione del Covid-19 avvenuta nel 2020, essa si presentava come uno dei settori più redditizi al mondo e, al contempo, come una delle industrie in cui suoi dipendenti soffrono di più a causa di condizioni di lavoro estremamente precarie.

Orari di lavoro estenuanti per un salario medio bassissimo, esposizione continua a prodotti nocivi per la salute e per l’ambiente, mancanza di sicurezza negli ambienti di lavoro sono solo alcune delle violazioni sistematiche dei diritti di chi lavora nell’industria tessile globale, come riporta anche la piattaforma dedicata di Human Rights Watch.

Considerata anche la posizione geografica della maggior parte degli stabilimenti (che troviamo perlopiù in Asia e in America Latina) e la composizione della loro forza lavoro, segnaliamo che queste condizioni colpiscono perlopiù categorie che si trovano già in una posizione di minoranza o di sistematica discriminazione. Si tratta perlopiù di donne – soggette anche ad abusi e molestie sessuali sul posto di lavoro, come riporta il Global Fund for Women – perlopiù di colore o comunque non bianche, in posizioni economiche e sociali estremamente svantaggiate.

La sicurezza e la stabilità degli edifici dove gli operai e le operaie lavorano sono spesso precarie. Dopo il disastro di Rana Plaza, tentativi di arginare la precaria situazione degli stabilimenti e garantire un ambiente di lavoro sicuro ci sono stati. Un esempio positivo è stato senza dubbio il cosiddetto “Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh” (detto anche the Accord), siglato nel 2013: si tratta di un patto vincolante fra brand, rivenditori e sindacati dei lavoratori e delle lavoratrici, volto ad assicurare in Bangladesh, un’industria RMG (Ready Made Garment) rispettosa della sicurezza e dei diritti umani.

L’accordo ha introdotto un sistema di monitoraggio e ispezione indipendente degli stabilimenti, nonché comitati interni alle singole fabbriche composti di rappresentanti democraticamente eletti fra i lavoratori ed è stato un notabile esempio di multistakeholder governance. Tuttavia, resta un accordo a termine, localizzato al solo Stato del Bangladesh. Altri Stati produttori, come India, Pakistan e Cina, dovrebbero seguire l’esempio, innanzitutto nell’incoraggiare la sigla di simili accordi tra sindacati indipendenti dei lavoratori e brand, nonché nel tutelare i primi e la loro posizione contrattuale.

È notabile il caso che ha posto di nuovo la Cina sotto i riflettori per il trattamento riservato alla minoranza etnica degli Uiguri, turcofoni prevalentemente di religione islamica perlopiù insediati nel Nord-Est del Paese. La minoranza era già al centro della discussione e delle rivendicazioni internazionali, in quanto sistematicamente perseguitati dallo Stato cinese – tanto che si è parlato, a proposito, di genocidio culturale, oltre che di sistematiche violazioni di diritti umani.

Nel 2020 inoltre è emerso che numerosi brand e produttori nell’industria della moda hanno continuato a rifornirsi di cotone e filato proveniente dallo Xinjiang, regione autonoma cinese in cui hanno vissuto e vivono tutt’ora la maggior parte delle persone di etnia Uigura. È stato illustrato come la produzione avvenga perlopiù attraverso lo sfruttamento del lavoro forzato di queste persone, come riportato anche dalla campagna Abiti Puliti.

In generale poi, il Covid-19 ha inasprito le condizioni in cui gli operai e le operaie tessili si trovano a vivere e lavorare. In seguito all’improvviso calo della produzione avuta nel 2020 e alla nuova difficoltà di spostamento delle materie prime, dovuta alla riorganizzazione del lavoro e alla chiusura delle frontiere, molti brand hanno deciso di risparmiare andando a tagliare proprio sulle categorie più deboli della catena produttiva. Milioni di lavoratori e lavoratrici negli stabilimenti tessili, in particolare quelli locati nel subcontinente indiano e nel Sud-Est asiatico, hanno visto il proprio posto di lavoro a rischio o hanno affrontato un licenziamento senza preavviso.

Molti di loro sono stati costretti a recarsi comunque a lavoro in condizioni igienico-sanitarie non all’altezza per la prevenzione della diffusione del virus Covid-19. Infine, innumerevoli brand hanno sospeso i pagamenti dei salari, protraendo questa situazione per svariati mesi e ponendo la sopravvivenza dei propri dipendenti e delle loro famiglie a rischio, come riportato anche da Human Rights Watch.

Come può agire il singolo consumatore in difesa dei diritti di chi dall’industria tessile subisce tali ingiustizie ed è esposto a soprusi e abusi?

Scelte individuali etiche possono essere fatte ricercando brand sostenibili – caratteristica che può essere controllate generalmente sul sito web di ogni produttore. Se essi presentano in maniera chiara e trasparente ogni passaggio della propria catena di produzione, indicando gli stabilimenti in cui i materiali vengono trattati e i prodotti fabbricati, nonché i Paesi in cui sono collocati, offrono una garanzia a chi acquista.

Tuttavia, le scelte individuali, per quanto consapevoli, non sono sufficienti. È necessario dare voce alle vittime di questo modello produttivo incentrato sullo sfruttamento, condividerne le storie e contribuire a fare pressione sui brand. Questo si può fare aderendo alle campagne e alle iniziative sempre più numerose, che mettono al centro proprio i lavoratori e le lavoratrice e amplificano la loro voce.

Fra queste, segnaliamo il movimento Who Made My Clothes, noto proprio a questo scopo dopo il disastro di Rana Plaza, e la campagna #PayUpFashion, volta a domandare salari dignitosi e pagamenti eseguiti nelle tempistiche previste all’industria dell’abbigliamento. Donare e supportare le organizzazioni che difendono i sindacati dei lavoratori in ciascun Paese produttore e contribuiscono a metterli in network è un passo importante, che ogni consumatore può compiere, per unirsi e domandare insieme il rispetto dei diritti umani.

A cura di Greta Temporin

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