LA COMPLESSA VICENDA DEL “REATO DI TORTURA” IN ITALIA

Quale tutela per le vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine?

La Giornata internazionale a sostegno delle vittime di tortura: un’occasione per riflettere

Il 26 giugno si celebra la Giornata internazionale delle Nazioni Unite a sostegno delle vittime di tortura, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU in occasione del 50° Anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani. Al suo art. 5, infatti, la Dichiarazione stabilisce che “nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura, a trattamenti o a punizioni crudeli, inumani o degradanti”. Istituita con la risoluzione 52/149, la giornata nasce come un’opportunità per chiedere alla comunità internazionale, e in particolare agli Stati membri dell’ONU, di rafforzare la propria azione a tutela delle vittime di tortura. Ciò, in particolare, alla luce di quanto previsto dalla Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti adottata dall’ONU nel 1984 e ratificata ad oggi da 173 Stati – tra i quali l’Italia.

Ed è proprio per il nostro Paese che questa giornata rappresenta un’opportuna occasione di riflessione, soprattutto alla luce dei recenti episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine avvenuti a Milano e a Verona. Infatti, nonostante l’adozione della convenzione da parte del Governo– così come del suo Protocollo Opzionale dedicato alla prevenzione della tortura – la vicenda dell’istituzione e condanna del reato di tortura in Italia costituisce una questione piuttosto complessa. Nonostante la ratifica del trattato sia avvenuta già nel 1989, in effetti, il reato di tortura viene istituito in Italia solo nel 2017. Ciò, a seguito di un complesso iter parlamentare dove fu messa in luce l’inadeguatezza del sistema italiano a fronte dell’ordinamento internazionale in materia di divieto di tortura (previsto, tra l’altro, dalle Convenzioni di Ginevra, dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, dal Patto sui diritti civili e politici e dallo Statuto della Corte Penale Internazionale, tutti ratificati dal Governo italiano), nonché della condanna dell’Italia emessa nel 2015 dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in merito al caso Cestaro, attivista italiano picchiato a Genova durante il blitz della polizia alla scuola Diaz nel 2001. Sotto questi auspici, si arrivò così all’adozione della legge n. 110 del 2017, che introduce nel codice penale i reati di tortura e di istigazione alla tortura rispettivamente agli artt. 613-bis c.p. e 613-ter c.p. In particolare, l’art 613-bis c.p. prevede che “Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona”.

Approvate dopo lunghe negoziazioni e numerose modifiche del testo di legge, le disposizioni sono state giudicate da molte persone come insufficienti, seppur un miglioramento rispetto alla situazione precedente la loro adozione. All’indomani dell’adozione, infatti, tali articoli sono stati definiti da parte della politica un “compromesso al ribasso”, e giudicati inadeguati al proprio scopo da molte associazioni attive nella tutela dei diritti umani. In particolare, fu evidenziato come l’art. 613-bis c.p. sarebbe stato difficilmente applicabile dai tribunali italiani, in quanto esso circoscrive il reato di tortura alla presenza di una serie di circostanze specifiche che non rappresentano, di per loro, un’esaustiva rappresentazione del fenomeno così come esso è inteso a livello mondiale.

I limiti dell’art. 613-bis c.p. e l’inadeguatezza del sistema penale italiano in materia di tortura alla luce del diritto internazionale

Ratificata dal Governo italiano con la legge n. 498 del 1988, la Convenzione ONU contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti nasce come strumento per contrastare gli atti di violenza e tortura commessi nei confronti di individui privati della libertà personale da parte di chi è titolare di una funzione pubblica. Così recita infatti l’art. 1 della Convenzione[1], che definisce la tortura come “qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali” al fine di ottenere da essa informazioni o confessioni, di punirla o intimorirla. In particolare, l’art. 1 prevede che tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Ai sensi della convenzione, quindi, la tortura consiste in un reato commesso da un pubblico ufficiale, che si manifesta nell’abuso di potere ossia, precisamente, in un esercizio arbitrario ed illegale di una forza legittima. Ed è proprio per contrastare questo fenomeno che, agli artt. 2 e seguenti, il trattato stabilisce una serie di obblighi in capo ai suoi Stati Parte, i quali si impegnano ad adottare adeguate misure per impedire che tali atti di tortura vengano commessi nel proprio territorio. In particolare, la Convenzione obbliga gli Stati a adottare provvedimenti legislativi, amministrativi e giudiziari per tutelare e vigilare sul rispetto della dignità umana degli individui privati della libertà personale, stabilendo come l’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non possa in nessun modo essere invocato a giustificazione della tortura (art. 2). Allo stesso modo, gli Stati sono tenuti a garantire un’adeguata formazione degli agenti della funzione pubblica in materia di divieto di tortura (art. 10), e a esercitare una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio nonché sulle disposizioni relative alla custodia della tutela delle persone arrestate, detenute o imprigionate (art. 11).

Quanto al risarcimento delle vittime di tali atti, l’art. 14 stabilisce che ogni Stato deve garantire, nel suo ordinamento giuridico, il diritto ad ottenere riparazione ed essere risarcito equamente ed in maniera adeguata, “inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile”.

Proprio per vigilare sull’adempimento di tali obblighi (si ricordi, infatti, che il trattato costituisce una fonte vincolante per il nostro ordinamento), la convenzione istituisce, all’art. 17 e seguenti, un apposito Comitato contro la tortura (Committee against Torture, “CAT”), al quale gli Stati Parte sono tenuti a presentare periodicamente delle relazioni sulle misure da loro adottate per contrastare la tortura nel proprio territorio. Alla luce di tali relazioni, il Comitato valuta la corretta applicazione del trattato da parte degli Stati membri, prendendo eventuali provvedimenti specifici.

Ed è proprio nel Report CAT/C/ITA/CO/5-6 (“CAT Report”) elaborato nel 2017 dal Comitato per valutare le relazioni presentate dall’Italia che il CAT evidenzia come il sistema penale italiano sia, nonostante la formale adesione del nostro paese a tutti gli strumenti internazionali adottati dalle Nazioni Unite a tutela dei diritti umani, sostanzialmente inadeguato a garantire un’effettiva e adeguata protezione alle vittime di tortura presenti sul proprio territorio.

Come riportato al paragrafo 10 del CAT Report, tale inadeguatezza deriverebbe proprio dall’errata definizione e criminalizzazione del reato di tortura effettuata nel nostro paese. Secondo il Comitato, infatti, il dettato dell’art. 613-bis c.p. è incompleto. Oltre a circoscrivere la fattispecie alla presenza di circostanze specifiche non previste dalla Convenzione (il reato deve essere stata compiuta con crudeltà, mediante più condotte, e deve provocare un verificabile trauma psichico), esso configura il reato di tortura come un reato comune, ossia un reato imputabile a chiunque, e non solo al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio, come invece stabilito dalle Nazioni Unite. Per queste ragioni, il CAT critica aspramente la normativa italiana, definendola “significantly narrower than the definition contained in the Convention” (CAT Report, para. 10, enfasi aggiunta), e invitando l’Italia a modificare quanto prima il proprio codice penale così da garantire alle vittime di tortura adeguato riconoscimento – e conseguente tutela.

Oltre a ciò, il CAT Report mette in luce una serie di altri limiti riscontrati nell’ordinamento italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, derivanti anche dall’ambigua definizione della fattispecie ex artt. 613-bis e 613-ter c.p. In particolare, il Comitato evidenzia la poca trasparenza del Governo italiano sul rispetto dei provvedimenti emessi dall’Autorità italiana garante per i detenuti (para. 14), la continua violazione da parte dello Stato di alcune libertà fondamentali in materia di giusto processo (para. 18), l’inadeguatezza delle condizioni di detenzione nelle carceri italiane (para. 32), nonché l’uso eccessivo della forza da parte delle forze dell’ordine (para. 38). Su questo ultimo aspetto, poi, il Comitato si sofferma particolarmente. Il CAT richiede infatti al Governo italiano di garantire adeguati meccanismi di condanna per chi si rende responsabile di tali atti. Questo, precisamente, adottando misure che permettano di identificare le forze dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni pubbliche, così da garantire efficaci ed imparziali indagini sulla loro condotta.

Un approccio ancor più critico nei confronti del nostro ordinamento è stato adottato, più recentemente, dal Comitato per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti Inumani o Degradanti del Consiglio d’Europa (European Committee for the Prevention of Torture and Inhuman or Degrading Treatment or Punishment o “CPT”). In seguito alla sua visita periodica nel nostro Paese avvenuta nel marzo/aprile 2022, il CPT ha infatti pubblicato il Report CPT/Inf (2023) 5 dedicato alla valutazione del sistema italiano in materia di prevenzione e contrasto del reato di tortura, per valutarne l’impatto anche a seguito della pandemia da Covid 19. Anche in questo caso, l’Italia è stata severamente criticata dal Comitato, che si esprime con grande preoccupazione in merito agli abusi subiti dagli individui privati della libertà personale da parte delle nostre forze dell’ordine. Nella sezione A.2 del documento, infatti, si legge come il CPT abbia ricevuto, durante la sua visita, innumerevoli segnalazioni di violenze subite da arrestati e detenuti da parte di pubblici ufficiali, e in particolare di agenti della Polizia di Stato e dei Carabinieri. In particolare, il Report si concentra ai paragrafi 12.i/.ii e 16 sui casi di Milano e Torino, teatro nel biennio 2021/2022 di una lunga serie di violazioni (in particolare, abuso di autorità e lesioni ex artt. 608 e 582 c.p.) perpetrate a danno di persone arrestate e detenute da parte di Polizia e Carabinieri. Violazioni che, stando al Comitato, non avrebbero trovato giustizia nelle aule dei tribunali italiani. Per questo, il CPT insiste affinché l’Italia garantisca un’adeguata formazione dei suoi pubblici ufficiali, che dovrebbero essere istruiti ad utilizzare la forza solo e soltanto se strettamente necessario, e in ogni caso mai in maniera eccessiva. Oltre a ciò, il CPT ricorda al Governo italiano la necessità urgente di garantire adeguati ed efficaci meccanismi di identificazione delle forze dell’ordine, quali codici identificativi alfanumerici ben visibili sulle uniformi degli agenti e body cam – ciò, a tutela sia degli agenti che delle vittime. Infine, il CPT richiama l’Italia al rispetto di quanto previso dall’art. 6 CEDU, il quale sancisce una serie di libertà fondamentali riconducibili al “diritto umano al giusto processo”. Tutto questo insistendo su come, ad oggi, in Italia si verifichino troppe situazioni in cui individui privati della libertà personale sono sottoposti ad abusi e violenze da parte delle forze dell’ordine il cui comportamento, oltre che “unlawful” e “unprofessional” (para. 14), consisterebbe in una vera e propria violazione del divieto di tortura sancito dal diritto internazionale, da prevenire e condannare con gli adeguati mezzi.

Una questione irrisolta: quale tutela per le vittime di abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia?

Alla luce di tutto ciò, si capisce perché la questione relativa alla tutela degli individui vittime di violenze e abusi da parte delle forze dell’ordine in Italia rappresenti, ad oggi, una questione quantomai delicata.

Spesso al centro del dibattito politico, infatti, la questione si è manifestata in tutta la sua problematicità nel 2001 a seguito dei drammatici fatti della Diaz, che hanno acceso i riflettori della comunità internazionale sul caso italiano, e costituisce ancora oggi uno degli aspetti più critici del nostro ordinamento. Oltre a porre in essere una serie di problemi di legittimità costituzionale, infatti, l’inadeguatezza della protezione garantita dallo Stato italiano alle vittime di soprusi da parte dei pubblici ufficiali rappresenta ad oggi un manifesto caso di violazione da parte dell’Italia del diritto internazionale, e in particolare del vasto arsenale di strumenti dedicati alla tutela dei diritti fondamentali e della dignità umana adottati dalle Nazioni Unite e dal Consiglio Europeo – tutti sottoscritti dal nostro Paese.

Per questo, è importante che esistano giornate come oggi che, pur di valore simbolico, rappresentano occasioni importanti per riflettere sul punto. Il 26 giugno ci ricorda come sia più che mai urgente tutelare il reato di tortura nel nostro Paese, anzi rafforzarlo. Ciò, a maggior ragione, alla luce dei recenti drammatici fatti di Milano e Verona, nonché a fronte della proposta dell’attuale Governo non di integrare, bensì di abrogare gli artt. 613-bis e 613-ter c.p.. Se questo provvedimento fosse approvato, infatti, il reato di tortura di cui al nostro codice penale, invece di adeguarsi al diritto internazionale, finirebbe addirittura per sparire dal nostro ordinamento, lasciando agli organi giudicanti la sola possibilità di applicare le aggravanti generiche di cui all’art. 61 c.p.[2], di fronte ad abusi commessi da pubblico ufficiale. Quanto alle ragioni invocate dagli esponenti di Fratelli d’Italia firmatari della proposta, infatti, tali disposizioni priverebbero le forze dell’ordine “dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati e uno scoraggiamento generalizzato dell’iniziativa delle Forze dell’ordine” (fonte: ANSA). Ed è con questa affermazione, che ci sembra piuttosto sconcertante alla luce del quadro internazionale delineato ai paragrafi precedenti, che vi lasciamo.

Costanza Rizzetto per StraLi

[1] “1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitti da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.” Art. 1, para. 1, Convenzione contro la tortura, i trattamenti e le punizioni crudeli, inumani e degradanti.

[2] “Aggravano il reato, quando non ne sono elementi costitutivi o circostanze aggravanti speciali, le circostanze seguenti: […] 9) l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, […]” Art. 61, codice penale

LA SALUTE MENTALE DI CHI STA DENTRO E’ UN PROBLEMA DI CHI STA FUORI

StraLi richiede al Governo italiano l’attuazione della decisione Sy v. Italia

1. INTRODUZIONE

Le liste di attesa per le Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza (“REMS”) sono una bruttissima faccenda (ve ne avevamo già parlato qui). L’Italia ne sa qualcosa: a gennaio 2022, infatti, è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“Corte”) nel caso Sy c. Italia (Application n. 11971/20-Judgement of 24 January 2022). La motivazione della condanna? Aver violato i diritti del sig. Sy, detenuto, nonostante la sua grave patologia psichiatrica, in attesa della disponibilità di un posto in una REMS. La Corte Europea ha riscontrato le seguenti violazioni della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”): divieto di trattamenti inumani o degradanti (articolo 3), diritto alla libertà e alla sicurezza (articolo 5, paragrafi 1 e 5, incluso il diritto alla riparazione in seguito ad ingiusta detenzione), diritto a un processo equo (articolo 6, paragrafo 1) e diritto ad un ricorso individuale (articolo 34).

StraLi, in questo contesto, ha presentato al “Department for the Execution of Judgments” della Corte una Comunicazione ai sensi dell’articolo 46 della CEDU e dell’articolo 9.2 del Regolamento del Comitato dei Ministri.

2. L’INTERVENTO EX ART. 9.2

In seguito ad una sentenza definitiva di condanna della Corte, infatti, gli Stati membri hanno un duplice obbligo:

  1. Livello individuale: ripristinare, per quanto possibile, la situazione esistente prima della violazione, ponendo rimedio al danno subito dalle parti lese (c.d. restitutio in integrum). Tendenzialmente il rimedio ordinato dalla Corte è un risarcimento pecuniario, anche se la Corte ha a disposizione altri strumenti (ad es. il rilascio di un persona detenuta);
  2. Livello generale: prevenire violazioni simili in futuro. Ciò può essere ottenuto tramite la modifica della disciplina legislativa attuabile, per esempio.

Cosa fa uno Stato per adempiere a questi obblighi?

Entro sei mesi dalla sentenza dovrà spiegare al Comitato dei Ministri – composto, formalmente, dai Ministri degli Affari Esteri dei 46 Stati membri – come intende fornire giustizia alle vittime della violazione e, allo stesso tempo, assicurarsi che lo stesso problema non si ripeta. Questo viene fatto, di norma, con la trasmissione del c.d. “Action Plan”.

3.1. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(1) L’INCREMENTO DEI POSTI IN REMS

Anche l’Italia, quindi, ha inviato il proprio Action Plan (anzi, due) in relazione al caso Sy (congiuntamente al caso Citraro e Molino v. Italy, di cui però oggi non ci occuperemo). E qui viene in gioco il ruolo di StraLi: siamo intervenuti per contestare gli Action Plan del Governo italiano in relazione al caso Sy. E lo abbiamo fatto non una, ma due volte (prima comunicazione, 9 marzo 2023; seconda comunicazione, 9 maggio 2023). NB: non è la prima volta che StraLi prende iniziative di questo tipo: avevamo preso posizione anche nella vicenda Di Sarno and others v. Italy e nel caso ILVA.

Nel primo Action Plan del 26 gennaio 2023 il Governo italiano riportava di prestare “grande attenzione” alla questione “al fine di prevenire eventi simili” e che erano stati compiuti “passi importanti in questa direzione” (Action Plan 1, p. 2). Tali “passi” hanno portato al finanziamento straordinario a favore della Regione Liguria per il triennio 2022-2024 (D.L. 17/2022) e all’apertura di una nuova struttura REMS a Grifalco (Calabria) con 20 posti letto disponibili.

Come evidenziato nella nostra prima comunicazione del 9 marzo 2023, la creazione di nuove strutture REMS in un solo luogo ed esclusivamente allo scopo di “tamponare” la mancanza di posti disponibili ha gravi conseguenze sull’efficacia dei trattamenti terapeutici e sulle prospettive di risocializzazione degli individui. L’assegnazione di fondi per un periodo fisso di tre anni esclusivamente a una Regione, in cui vengono creati posti letto aggiuntivi e vengono ammessi pazienti da altre regioni (solo per dare loro una sistemazione temporanea), è contraria al principio di territorialità delle cure. La finalità di cura, infatti, si basa necessariamente sull’idea di reintegrare l’individuo nel “tessuto sociale” che è stato “rotto” dal suo comportamento antisociale. Le persone in cura, sradicate dal loro contesto, sono impossibilitate a stabilire un contatto reale con i centri di salute mentale locali, che sono quelli che dovrebbero prenderle in carico ed elaborare un programma terapeutico. Non possono essere visitate dal personale psichiatrico che si è occupato del loro caso fino a quel momento, né dalle persone a loro care.

Per questo motivo abbiamo chiesto al Governo di creare nuovi posti nelle REMS rispettando il principio della territorialità e assegnare risorse per rispettare il principio di individualizzazione del trattamento, assicurando inoltre che siano assegnate risorse sufficienti ai dipartimenti regionali di salute mentale incaricati di elaborare i Piani Terapeutici Riabilitativi Individuali e per gli altri servizi psichiatrici del territorio. Ciò al fine di ridurre il numero di persone che necessitino, in futuro, di un posto in REMS e quindi il rischio che simili violazioni si ripetano.

3.2. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(2) IL DAP E LE ARTICOLAZIONI PER LA SALUTE MENTALE

All’interno dei suoi Action Plan, il Governo ha sottolineato più volte che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (“DAP”) “continua a prestare la massima attenzione per garantire che ricevano la migliore assistenza disponibile” (Action Plan 1, p. 7).

In realtà, la legge di bilancio approvata nel dicembre 2022 ha previsto una drastica riduzione del budget di spesa del DAP di circa 36 milioni di euro nel triennio 2023-2025 (Art. 1, para. 878, l. 29 dicembre 2022, n. 197). Tale elemento, di per sé, appare in palese conflitto con l’affermazione del governo.

Anche la situazione “sul campo” indica il contrario rispetto alle dichiarazioni di impegno del Governo. Le carceri rivelano tutta la loro inadeguatezza nel gestire il disagio psicologico e psichiatrico dei soggetti reclusi. Le continue lamentele degli agenti penitenziari denunciano una situazione intollerabile che non può più essere affrontata. Di recente il Presidente del Sindacato della Polizia Penitenziaria ha affermato

In questo caos gli agenti della polizia penitenziaria sono chiamati, oltre a vigilare, anche a fare da ‘infermieri’ ai malati (pur non avendone le competenze) e a salvare concretamente la vita delle persone che tentano gesti inconsulti verso se stessi o verso gli altri. Senza contare le innumerevoli volte che gli agenti vengono aggrediti fisicamente da soggetti problematici. E’ evidente che non è possibile andare avanti in questo modo.

Inoltre, nel secondo Action Plan del 3 aprile 2023, il Governo presenta i dipartimenti dedicati alla salute mentale presenti all’interno dei centri di detenzione (le cosiddette “Articolazioni per la tutela della salute mentale” – “ATSM”) quale esempio della “migliore assistenza disponibile” per le persone detenute in attesa di trasferimento in una REMS (Action Plan 2, p. 15).

Questo approccio è molto problematico perché solo poche carceri hanno questi reparti psichiatrici, e, quando esistono, hanno una pessima reputazione.

Le ATSM vivono in assenza di un regolamento unitario che definisca come questi reparti debbano essere organizzati spazialmente (arredi, letti, bagni) o che stabilisca i livelli essenziali di assistenza a cui devono attenersi (si veda la ricerca della Società della Ragione qui, p. 18). In un caso particolare (il reparto “Sestante” del carcere di Torino) il reparto ATSM è stato addirittura chiuso a causa delle sue condizioni disumane ed è in corso un’indagine penale in merito (cfr. il rapporto di Antigone del 2022). In una dichiarazione del 6 febbraio 2023, un rappresentante dei sindacati della Polizia Penitenziaria ha definito l’ATSM del carcere di Marino del Tronto come “un reparto palesemente non a norma sia dal punto di vista strutturale che sanitario”. Da ultimo, il Comitato Anti-Tortura del Consiglio d’Europa nel rapporto del marzo 2023 sull’Italia ha rilevato la totale inadeguatezza delle celle delle ATSM nelle carceri di San Vittore, Torino Lorusso e Cutugno e Regina Coeli.

Ne consegue che le ATSM rappresentano di fatto la peggiore assistenza disponibile per un individuo che, in carcere, non dovrebbe nemmeno passarci un secondo.

3.3. IL PIANO DEL GOVERNO ITALIANO E LE RISPOSTE DI STRALI:

(3) L’ASSENZA DI UN RIMEDIO SPECIFICO

Tutto tace.

Il Governo non ha affrontato il rilievo della Corte in merito alla constatazione che l’azione civile per il risarcimento dei danni subito dalla violazione della libertà personale, prevista dall’ordinamento italiano (ex art. 2043 codice civile) non rappresenta un rimedio efficace per ottenere riparazione per le violazioni dei paragrafi 1 e 4 dell’articolo 5 della CEDU.

In sede di giudizio dinanzi alla Corte il Governo italiano, infatti, non ha fornito alcun esempio che dimostrasse che, in casi simili a quello di Sy, tale azione era stata intentata. Tantomeno ha affrontato il tema nei suoi Action Plan.

E noi abbiamo chiesto al Comitato dei Ministri di ordinare alle autorità italiane di adottare per legge uno specifico rimedio compensativo volto ad ottenere il risarcimento per i periodi di detenzione subiti in attesa del trasferimento in una REMS.

Come vedremo fra poco, il Comitato ci ha ascoltato.

4.1. LA DECISIONE DEL COMITATO DEI MINISTRI:

(1) MISURE INDIVIDUALI

Il Comitato dei Ministri si è riunito dal 5 al 7 giugno 2023. Innanzitutto, non ha dichiarato il caso chiuso: questo significa che vi è ancora necessità di supervisione da parte della Corte sull’Italia.

Il sig. Sy, nel frattempo, è tornato in carcere dal luglio 2022 (cfr. comunicazione del Governo italiano del 3 maggio 2023). Per quanto riguarda la situazione individuale di Sy, Il Comitato ha richiesto (para. 2):

  1. che venga effettuata una nuova valutazione sulla compatibilità del suo stato di salute con lo stato di detenzione;
  2. che questa valutazione venga poi ripetuta regolarmente e
  3. che il Comitato venga informato sull’esito di (1) e (2).

4.2. LA DECISIONE DEL COMITATO DEI MINISTRI:

(2) MISURE GENERALI

Come evidenziato sopra, nella nostra seconda comunicazione del 9 maggio 2023, abbiamo identificato come l’aumento del numero di posti letto nelle strutture REMS sembri essere l’unica misura concreta indicata dal Governo nel Piano d’Azione. In particolare, abbiamo richiesto al Comitato di far sì che lo Stato italiano garantisca, da un lato, che vengano assegnate risorse sufficienti ai dipartimenti regionali di salute mentale incaricati di sviluppare i Piani Terapeutici Riabilitativi Individuali e di altri servizi psichiatrici sul territorio italiano, al fine di diminuire il numero complessivo di persone che necessitano di posti in una REMS (riducendo così i rischi di ripetizione di simili violazioni); e, dall’altro, un aumento della capacità e della qualità del trattamento nelle REMS.

Le richieste di StraLi in tal senso sono state accolte dal Comitato dei Ministri.

Nelle note all’ordine del giorno questi hanno osservato che, nonostante il numero delle persone detenute in attesa di trasferimento in REMS sia calato da 90 ad aprile 2020 a 49 nel febbraio 2023,

  • la rete delle REMS non è stata ampliata in modo significativo dall’epoca dei fatti (29 nel 2020 e 30 nel 2023);
  • il tempo medio di attesa per il collocamento in queste strutture a seguito di una decisione giudiziaria è rimasto (nel luglio 2021) estremamente elevato, (intorno ai dieci mesi);
  • pur prendendo atto della creazione di una nuova REMS nella regione Calabria, non è chiaro se ciò sia bastato a garantire la rapida esecuzione delle relative decisioni giudiziarie in questa regione e se siano state adottate o previste misure analoghe per le altre quattro regioni che, insieme alla Calabria, rappresentano oltre i due terzi del totale delle persone detenute in attesa di ammissione nelle REMS (Lazio, Campania, Sicilia e Puglia).

Di conseguenza, il Comitato ha richiesto allo Stato italiano:

1. di impegnarsi a garantire una adeguata capacità delle REMS, anche assicurando adeguate risorse umane e finanziarie, in particolare nelle regioni in cui la situazione appare più critica (para. 4).

Purtroppo, nulla viene detto in relazione alla realtà delle ATSM e della loro inadeguatezza ad accogliere i soggetti detenuti in attesa di essere trasferiti in una REMS.

Il Comitato, inoltre, ha indicato al Governo:

2. di fornire una valutazione sulla necessità di misure aggiuntive per far sì che, quando la Corte ordini che un soggetto debba essere trasferito in una REMS (ex art. 39 del regolamento della Corte), ciò avvenga senza indugio (para. 5)

3. di fornire informazioni sulle misure adottate per far sì che un soggetto abbia effettivamente diritto a una riparazione ex art. 5.5. della CEDU (para. 6).

5. CONCLUSIONI

Le autorità italiane devono adottare misure adeguate e sufficienti per garantire che la capacità ricettiva delle REMS soddisfi la domanda di accesso alle stesse, consentendo così la tempestiva attuazione delle decisioni giudiziarie che ordinano il trasferimento dei detenuti in tali strutture.

Tale decisione del Comitato dei Ministri non ci coglie di sorpresa.

L’anno scorso, la Corte Costituzionale italiana ha stabilito che l’applicazione concreta della normativa vigente sulle REMS alle persone autrici di reato con disturbi mentali è in contrasto con la Costituzione italiana. La Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità sollevate, dal momento che il loro accoglimento, cioè l’abbattimento di una parte sostanziale della disciplina giuridica delle REMS, avrebbe creato vuoti intollerabili. La Corte ha quindi formulato un forte monito alle autorità legislative italiane affinché provvedano a una riforma complessiva del sistema.

Purtroppo, è passato più di un anno senza alcun segno di attività legislativa in materia.

L’esecuzione del caso Sy rimane ancora sotto la supervisione della Corte, che rivedrà le misure adottate dal Governo italiano in una delle sue prossime sedute.

Noi, nel frattempo, rimaniamo vigili. Perché la salute mentale di chi sta dentro è un problema di chi sta fuori. E noi non mancheremo di ricordarlo.

A cura di Alice Giannini

IL CASO JJ4 E LA DIFFICILE CONVIVENZA TRA ESSERE UMANO E NATURA

Quale futuro per le specie a rischio di estinzione?

Il caso JJ4: la vicenda giudiziaria

Il 26 maggio il Tar di Trento, con ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, ha accolto la domanda cautelare proposta da diverse associazioni animaliste (tra le quali LAV, ENPA e OIPA) di sospensione provvisoria del provvedimento di abbattimento degli orsi JJ4 e MJ5 fino al 27 giugno.

Entro quella data, il Tar ha stabilito che le associazioni coinvolte e il Ministero dell’Ambiente devono presentare un progetto di trasferimento come alternativa all’abbattimento. Al momento, le ipotesi più probabili riguardano lo spostamento degli animali in un santuario in Germania, in Romania o in Giordania. I fatti sono ormai noti a chiunque: il 5 aprile scorso il runner 26enne Andrea Papi è stato ferito a morte dall’orsa JJ4 nei boschi sopra Caldes, comune della Val di Sole (provincia di Trento). Confermata l’aggressione dell’orso dall’autopsia, il Presidente della provincia autonoma di Trento ordina l’abbattimento dell’animale incriminato, insieme a quello di un altro orso, MJ5, definito anch’esso ‘problematico’. Alla base di tale decisione, l’applicazione delle misure previste dal PACOBACE (documento recepito da tutte le Amministrazioni territoriali delle Alpi centro Orientali, dal Ministero dell’Ambiente e da ISPRA e rappresentativo della formale politica dello stato italiano in materia di conservazione e gestione dell’Orso nelle Alpi), in materia di abbattimento di animali considerati ‘pericolosi’. Accogliendo il ricorso di LAV, ENPA, LEIDA e OIPA, il Tar di Trento sospende i provvedimenti di abbattimento degli animali, dando così inizio ad una vicenda giudiziaria che si concluderà, come stabilito dal Tar nell’ordinanza N. 00068/2023 REG RIC, con l’udienza di merito fissata per il 14 dicembre.

Tra le contestazioni del Tar al provvedimento d’uccisione figurano la mancata adozione da parte dell’amministrazione locale di una serie di provvedimenti funzionali alla conservazione gestione della fauna alpina minacciata dall’estinzione – previsti anch’essi dal piano PACOBACE – da applicare in via preventiva per garantire un’adeguata e sicura convivenza tra essere umano e animale, scongiurando il rischio di incidenti – nonché i conseguenti provvedimenti di abbattimento, misure eccezionali da adottare in ultima istanza.

In particolare, il Tar fa presente l’inadeguatezza delle attuali condizioni del centro faunistico del Casteller, così come il mancato funzionamento del monitoraggio telematico (‘radiocollare’), necessariamente da applicare per garantire un effettivo controllo delle zone interessate dalla conservazione della fauna a rischio. Questo è il caso, infatti, della Provincia di Trento, che dal 1996 ospita un progetto di ripopolamento dell’orso bruno nel Brenta denominato ‘Life Ursus’, finanziato nel 1999 dall’Unione Europea e finalizzato alla ricostituzione di un nucleo vitale di orsi nelle Alpi Centrali.

Il caso JJ4: una prospettiva internazionale

Da settimane al centro della cronaca e del dibattito politico, ci sembra che la vicenda si presti ad una serie di riflessioni di ben più ampio respiro relative, in particolare, ai risvolti della questione sotto il profilo del diritto internazionale.

Inclusa nell’agenda delle Nazioni Unite per la tutela dell’ambiente sin dagli anni Novanta, la necessità di stabilire una buona convivenza tra essere umano e natura, salvaguardando la biodiversità, è al centro della Convenzione sulla diversità biologica sottoscritta nel 1992 e ratificata ad oggi da 196 Stati (tra i quali l’Italia, con la Legge n. 124 del 1994.

Ribadendo la necessità di tutelare la diversità biologica in nome della sua importanza ai fini dell’evoluzione e del mantenimento della vita nella biosfera, il trattato richiama la responsabilità degli Stati Parte della conservazione degli ecosistemi e degli habitat naturali presenti sul proprio territorio. Questo, soprattutto, “ricostituendo le popolazioni di specie vitali nei loro ambienti naturali”, impedendone il depauperamento provocato dalle attività umane.

Per raggiungere tale obiettivo, la Convenzione sulla diversità biologica stabilisce una serie di misure necessariamente da implementare sul territorio degli Stati, che sono tenuti a sviluppare strategie, piani o programmi nazionali per la conservazione della biodiversità. In particolare, il trattato chiede che le parti contraenti istituiscano sistemi di zone protette o zone di misure speciali per conservare la diversità biologica (art. 8, lett. a), promuova la protezione degli ecosistemi, degli habitat naturali e delle specie che li abitano (art. 8 lett. d) facendo “ogni sforzo affinché si instaurino le condizioni necessarie per assicurare la compatibilità” tra la le attività umane e la biodiversità, che non deve essere in nessun modo sacrificata in nome della sua importanza per l’intera umanità.

Costituendo a tutti gli effetti degli obblighi di natura internazionale, le disposizioni del trattato acquistano ancor più rilievo se le si inserisce nel contesto del piano d’azione stabilito dalle Nazioni Unite per la tutela dello sviluppo sostenibile e dei diritti delle generazioni future, anch’esso a cuore all’organizzazione dalla fine degli anni Ottanta e ufficialmente “consacrato” nel 2015 con l’adozione, da parte dell’Assemblea Generale, dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (“Agenda 2030”).

Richiamando l’obiettivo comune di “un mondo in cui l’umanità vive in armonia con la natura e in cui la fauna selvatica e le altre specie viventi sono protette” (preambolo, para. 8) e riconoscendo la necessità di uno sviluppo economico e sociale che garantisca la conservazione di biodiversità, ecosistemi e fauna selvatica (preambolo, para. 33), l’Agenda 2030 si sofferma sull’importanza di proteggere le specie marine e terrestri in particolare agli Obiettivi 14 e 15, dedicati rispettivamente alla conservazione degli ecosistemi marini e terrestri. Allo stesso modo, l’importanza di garantire agli animali adeguate condizioni di vita è richiamata dall’Obiettivo 3 (dedicato alla tutela del benessere collettivo), dall’Obiettivo 11 (per città ed insediamenti umani sostenibili) e dall’Obiettivo 12 (per un consumo ed una produzione responsabile).

È anche alla luce di tali evidenze che, negli ultimi anni, la comunità internazionale ha riscontrato la progressiva formazione di una nuova ‘coscienza animalista’ che insiste sull’importanza di rafforzare, nei territori degli Stati, la tutela degli animali a rischio d’estinzione o di trattamenti degradanti. Ne sono la prova il recente rigetto, da parte dell’UNESCO, della candidatura della Spagna per l’iscrizione della corrida nella lista del patrimonio culturale immateriale stabilita dalla Convenzione UNESCO per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale, così come la petizione promossa da diverse organizzazioni internazionali per l’iscrizione nella lista del patrimonio culturale dell’umanità di cui alla Convenzione UNESCO per la protezione del patrimonio mondiale del 1972 delle specie di animali a rischio d’estinzione.

È proprio in merito a questa necessità di preservare la fauna che rischia di scomparire che l’ordinamento internazionale, e in particolare le Nazioni Unite, hanno richiamato l’attenzione degli Stati. Attraverso il Report del 2019 elaborato per l’organizzazione dall’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (IPBES), l’ONU ribadisce infatti come la biodiversità non sia mai stata messa in repentaglio come negli ultimi anni, e come vi siano circa un milione di animali e piante a rischio d’estinzione. Tale dato si è poi, ulteriormente aggravato negli ultimi anni: come si vede dalla Red List delle specie a rischio curata dall’International Union for the Conservation of Nature (IUCN), infatti, gli animali in pericolo sono notevolmente aumentati nel biennio 2021/2022, e i numeri non promettono di migliorare nel 2023.

È proprio alla luce di queste evidenze che, sostenuti anche dalle sempre più numerosi voci del diritto internazionale che promuovono un nuovo approccio ai diritti degli animali, da considerare al pari degli esseri umani e dell’ambiente nella ricerca di un welfare collettivo, diversi Stati che da secoli convivono con specie a rischio d’estinzione hanno messo in atto politiche attive volte alla conservazione di tali animali, nonché alla convivenza pacifica tra essere umano e natura – anche nel caso in cui si tratti di specie considerate ‘pericolose’. È il caso, ad esempio, dell’Environment Protection and Biodiversity Conservation Act adottato dal governo australiano nel 1999, che obbliga lo Stato ad adottare alcune specifiche misure per garantire un’adeguata conservazione di squali e altre specie pericolose, minimizzando i rischi di contatto con l’essere umano e prevedendo pene severe per coloro che violano tali disposizioni.

Allo stesso modo, una politica intransigente volta a tutelare la fauna selvatica è stata elaborata dal Canada, che vanta un’esperienza pluridecennale nella tutela delle specie che abitano i boschi del territorio, spesso a stretto contatto con comunità e aree urbane. In particolare, la legislazione canadese in materia, che fa capo al Canada Wildlife Act, si concentra proprio sulla necessità di conservare gli ecosistemi popolati da questi animali (tra i quali spiccano, ad esempio, lupi ed orsi), regolando precisamente l’accesso umano in tali aree geografiche, proprio per scongiurare il rischio di un eventuale attacco. Applicando questa politica, le autorità canadesi hanno ottenuto un buon risultato nello stabilire un equilibrio tra la conservazione delle specie a rischio e la necessità di tutelare la sicurezza pubblica: come riportato da associazioni coinvolte nella tutela del pianeta, in Canada ogni anno la probabilità di essere attaccato da un orso è tendente allo zero, essendo paradossalmente molto più probabile morire, anche in un contesto urbano, aggrediti da un cane. Questo, a prescindere dall’elevatissimo numero di orsi presenti sul territorio canadese: le stime del governo canadese contano circa 600.000 orsi diffusi sul territorio, distribuiti nei numerosi parchi faunistici del Paese.

Quale futuro per le specie a rischio in Italia?

Tornando a noi, questi dati fanno riflettere, se si pensa all’approccio adottato riguardo alla vicenda di JJ4 dalle autorità trentine. Oltre a firmare la condanna a morte per JJ4 e gli altri orsi ‘problematici’, infatti, il Presidente della provincia autonoma di Trento ha dichiarato ferma volontà di ridurre, addirittura dimezzando, il numero di orsi presenti sul territorio, che ammonta attualmente a circa 100 esemplari (circa la metà degli orsi totali stimati in Italia). Tutto ciò, senza mettere in discussione l’efficacia delle misure previste dal piano PACOBACE, nonché la loro effettiva applicazione sul territorio trentino (ricordiamo, infatti, come JJ4 e gli altri gli orsi ‘pericolosi’ sarebbero stati monitorati tramite un radiocollare scarico, e come il ‘centro di recupero per la fauna alpina’ del Casteller sia stato ritenuto inadeguato al suo scopo dalle autorità giudiziarie). È proprio alla luce di questi fatti che, il 29 maggio, la LAV ha annunciato di aver presentato due nuovi ricorsi al Tar di Trento per “contrastare le Linee guida provinciali per la gestione e l’uccisione degli orsi e il documento Ispra-MUSE sugli orsi etichettati come problematici”. Questi ricorsi si sommano a quello già presentato dall’organizzazione per chiedere l’annullamento delle Linee guida elaborate dalla provincia di Trento nell’ambito del piano PACOBACE per l’abbattimento degli animali pericolosi, poiché mancanti di qualsiasi riferimento alla programmazione delle misure di prevenzione. Secondo la LAV, infatti, è proprio nel quadro normativo adottato dalle autorità trentine bisogna che si ritrovano le cause della vicenda di JJ4. Trattandosi di una serie di misure piuttosto generiche, in effetti, esse non sembrerebbero in grado di scongiurare incidenti come questo, creando anzi la base per nuovi accadimenti simili, che porterebbe di fatto soltanto all’identificazione di nuovi orsi ‘problematici’ e alle conseguenti ordinanze d’uccisione. Del resto, è proprio in quest’ottica che la LAV promuove dal 2021 la messa in atto di un “Patto per la convivenza tra uomo e orso” in Italia, lavorando insieme ad altre organizzazioni animaliste e avvalendosi anche del supporto di alcuni esperti canadesi.

In attesa del 27 giugno, non ci resta che sperare che, anche alla luce della progressiva evoluzione mondiale verso un modello di società sostenibile che consideri, nelle politiche di welfare, anche il benessere animale, le autorità giudiziarie si dimostrino sensibili alla questione ambientale che sta alla base della vicenda di JJ4, ristabilendo il giusto equilibrio nella convivenza fra essere umano e natura.

Equilibrio che, purtroppo, sembra essere troppo spesso tralasciato dalle autorità italiane nel momento in cui ci si confronta con tematiche ambientali o relative alla conservazione delle specie – si pensi, ad esempio, al lassismo della disciplina prevista dal nostro Paese in materia di caccia, piuttosto che alle recenti dichiarazioni di alcuni esponenti politici che, all’indomani del disastro in Emilia Romagna, hanno avanzato l’ipotesi di una responsabilità nell’accaduto di porcospini e nutrie, colpevoli di aver danneggiato il territorio emiliano con le proprie tane. C’è ancora molta strada da fare.

A cura di Costanza Rizzetto

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