LA SCELTA DI NOA

È da qualche giorno che su quotidiani italiani e internazionali leggiamo del caso di Noa Pothoven, la diciassettenne olandese che si è tolta la vita a causa dell’insostenibile disagio psicologico conseguente agli abusi da lei subiti qualche anno prima.

Nonostante lo scalpore destato dalla notizia, pare che in Olanda siano davvero pochi i giornali interessati alla questione e che, tra l’altro, non menzionino mai la parola “eutanasia”. È davvero strano che un caso di una portata simile, che tra l’altro riguarda una ragazza più che conosciuta nei Paesi Bassi (nel 2018 Noa scrisse un libro in cui raccontava delle violenze subite e dei disturbi psicopatologici di cui soffriva), non riceva grandi attenzioni nel paese in cui il tutto è avvenuto.
Ad uno sguardo più attento, effettivamente, pare proprio che di eutanasia non si tratti.
In Olanda, infatti, l’iter per richiederla è estremamente complesso: il medico, prima di poter porre deliberatamente termine alla vita di un malato senza speranza di guarigione, deve verificare che la richiesta soddisfi sei criteri specifici, che diventano ancora più rigidi soprattutto quando si tratta di pazienti che non soffrono di patologie oncologiche o terminali. Inoltre, molti specialisti si rifiutano di procedere perché le sanzioni penali in caso di anche minime inosservanze del protocollo risultano particolarmente elevate.
In un articolo pubblicato nel 2018 sul quotidiano Gelderlander, Noa raccontava di aver fatto richiesta di eutanasia presso il centro Levenseindekliniek de L’Aja, ricevendo però un rifiuto da parte dei sanitari per via della sua giovane età e del mancato completamento della terapia psichiatrica a cui era sottoposta.
Pare proprio, quindi, che la morte di Noa non sia conseguente all’interruzione di un accanimento terapeutico o alla somministrazione di medicine letali ma alla decisione, da parte della ragazza stessa, di non venire più curata rifiutando, al contempo, di nutrirsi. La realtà è che di casi come questo, che vedono giovani ragazze lasciarsi morire, o comunque vivere in condizioni strazianti, a causa del dolore derivante da una violenza sessuale, ne è pieno il mondo. Le vicende di stupro sono spesso sottostimate perché poco denunciate: le vittime, infatti, tendono a provare vergogna nel raccontare ciò che hanno subito, hanno il timore di non essere credute o, ancora, non hanno un ricordo esatto di ciò che è successo.
L’impatto che gli eventi traumatici, come l’abuso sessuale, hanno sul benessere psicofisico delle persone dipende da un elevatissimo numero di variabili biologiche, psicologiche e sociali; quando ci riferiamo al binomio trauma-psicopatologia, quindi, non parliamo di causalità lineare ma di una correlazione davvero elevata. Le violenze sessuali hanno, soprattutto quando subite nel periodo sensibile dello sviluppo cerebrale, conseguenze devastanti sulle caratteristiche anatomiche e funzionali del cervello delle vittime.
A livello neuroendocrino, ad esempio, lo stress indotto dal trauma può innescare potenti meccanismi neurotossici che, tramite l’iper-produzione di determinati ormoni e neurotrasmettitori, sono in grado di modificare i normali processi di nascita, differenziazione e morte delle cellule nervose in diverse zone cerebrali. Le conseguenze derivanti da queste risposte allo stress si manifestano in una riduzione volumetrica e funzionale di aree del cervello che sono fondamentali perché si sviluppi correttamente la capacità di sintesi della nostra memoria autobiografica, le nostre abilità relazionali e di regolazione degli stati emotivi.
Esse si rifletterebbero inoltre in un’alterazione delle capacità di integrazione tra strutture cerebrali superiori ed inferiori: per intenderci, è come se saltasse l’armonica connessione tra le zone cerebrali di “regolazione” e quelle implicate nella genesi di emozioni e di meccanismi fisiologici “di base”. Durante un atto di violenza, quando la sensazione di pericolo si fa soverchiante, capita spesso che abbia luogo una reazione chiamata “immobilità cataplettica”, mediata dalla parte dorsale di un nervo (il nervo vago) la quale implica, da un lato, una drastica riduzione del tono muscolare e, dall’altro, un’immediata disattivazione dei sistemi neurofisiologici che sostengono lo stato di coscienza. Questa risposta, simile a una simulazione di morte, viene detta escape when there’s no escape ed appare in realtà altamente adattativa per via del ruolo che svolge nell’estrema difesa dal dolore: in altre parole, è come se l’estremo disagio provocato dall’abuso venisse scartato dalla coscienza e dalla memoria esplicita (è per questo che, spesso, questi episodi non vengono ricordati in modo chiaro da chi li ha subiti).
La controparte negativa di questo meccanismo, come ha dimostrato lo psichiatra olandese Bessel Van Der Kolk, risiede nel fatto che però il trauma rimane come “impresso” nel corpo sottoforma di memorie implicite emotive e somatiche, comportando la riemersione di ricordi connessi all’episodio di violenza e, quindi, di stati di sofferenza.
Queste reazioni al trauma (e l’elenco riportato non è certo esaustivo) trovano espressione nello sviluppo di psicopatologie come la depressione, il disturbo da stress post-traumatico, il disturbo dissociativo. Studi recenti hanno inoltre confermato la presenza di un’alta correlazione tra l’aver subito abusi sessuali nell’infanzia e lo sviluppo di disturbi del comportamento alimentare: spesso, infatti, il cibo diviene un mezzo attraverso il quale cerchiamo di placare la rabbia o la tristezza, di chiedere aiuto, o di regolarci quando veniamo investiti da emozioni che non siamo in grado di controllare. Soffrire di anoressia nervosa, di bulimia o di binge eating (alimentazione incontrollata) significa andare incontro a severe alterazioni dell’umore, compromissioni nell’ambito delle abilità cognitive e, naturalmente, a gravi complicazioni fisiche.
La sofferenza causata da un disturbo del comportamento alimentare può essere talmente elevata da indurre un paziente a credere di aver perso ogni speranza di guarigione e, in generale, di non avere più voglia di condurre una vita che conosce solo dolore e fatica. Per liberarsi da questa sofferenza, Noa ha scelto di spegnersi a casa, rifiutando ogni forma di alimentazione e terapia che non fosse unicamente palliativa.
La scelta di alcuni giornalisti di raccontare con cotanta approssimazione la vicenda, con il solo scopo di generare clamore ed instillare nei lettori l’idea che l’Olanda sia un paese privo di valori, pare davvero irrispettosa nei confronti del tormento vissuto da Noa e dalla sua famiglia.
In momenti come questo non sarebbe forse più corretto mettere da parte la voglia di accendere dibattiti di opinione, peraltro senza essere adeguatamente informati, dimostrando invece comprensione per chi crede che sia davvero straziante vivere una simile tortura?

SWEET HOME ALABAMA

È davvero un peccato che dopo decenni di faticose battaglie per rendere la condizione della donna quanto meno vivibile, i diritti che ormai pensavamo di aver definitivamente acquisito vengano di continuo minacciati e messi in discussione.

Ancora oggi, la possibilità per una donna di vedersi riconosciuti valori e ruoli che vanno oltre quelli propri dell’ancella atwoodiana sembra essere un’utopia.
Da secoli, la subordinazione del genere femminile a quello maschile è stata legittimata dalle più disparate argomentazioni, prima fra tutte quella secondo la quale la donna sarebbe un’isterica, il cui comportamento viene guidato in modo totalmente istintivo dal suo utero, rendendola incapace di formulare giudizi razionali e, quindi, indegna di possedere dei diritti.
Ricorderete il tweet, poi rimosso e corretto, di Giulia Bongiorno che, poco tempo fa, condivideva: “#codicerosso è una norma che prevede che quando una donna fa denuncia per una violenza deve essere ascoltata entro 3 giorni dal pm o dalla pg. Così si può appurare immediatamente se si ha a che fare con un’isterica o con una donna in pericolo di vita, e in tal caso aiutarla”.
Questo pregiudizio così radicato è uno dei motivi per i quali, ancora oggi, qualsiasi disagio espresso da una donna non viene preso sul serio. La questione acquisisce una rilevanza ancor più critica alla luce dei recenti avvenimenti che riguardano la legislazione di alcuni stati americani.
Il mese scorso l’Alabama, seguito a ruota dalla Louisiana, ha approvato una legge che vieta, anche nei casi di stupro ed incesto, l’interruzione di gravidanza.
A detta del ministro Pillon, la decisione presa dai due stati sarebbe un buon esempio da seguire in un momento storico in cui “ormai abbiamo tutti gli strumenti contraccettivi che servono per prevenire una gravidanza indesiderata”. In effetti, chiedere ad una donna di assumere la pillola anticoncezionale per la sola paura di essere violentata, o di fare in modo che il proprio abusante indossi un preservativo durante l’atto di violenza sessuale, sembrano essere richieste ragionevoli.
Tutto questo perché, sempre secondo Pillon, è arrivato il momento di prendere coscienza del fatto che “(..)un feto non è un grumo di cellule”, e il suo diritto alla vita va preservato e difeso a costo, a quanto pare, di ledere i diritti della madre.
La questione è certamente molto ampia e complicata ma merita un’attenta riflessione soprattutto quando l’aborto venga negato alle donne che abbiano subito una violenza di tipo sessuale. Le vittime di abuso si trovano a dover fare i conti con un vero e proprio trauma che, inevitabilmente, avrà importanti ripercussioni sulla qualità di vita delle stesse e sul processo di crescita dei nascituri. Queste considerazioni nascono da una teoria psicologica conosciuta come teoria dell’attaccamento. La Teoria dell’attaccamento è legata agli studi condotti da John Bowlby, uno psicoanalista britannico del XX secolo che, prendendo spunti dagli esperimenti etologici di Konrad Lorenz e Harry Frederick Harlow, enfatizzò l’importanza, per lo sviluppo del bambino, di un legame intimo e duraturo con una persona specifica che si prenda cura di lui.
In tal senso, il legame di attaccamento è quella particolare relazione stabile che si instaura tra il bambino e il genitore, ed ha la funzione di garantire la protezione del piccolo individuo dai pericoli ambientali e dalle tensioni interne e, più in generale, di favorirne la sopravvivenza grazie alla sua vicinanza con una figura adulta (generalmente la madre biologica).
Sono numerosissimi gli studi psicologici che hanno dimostrato come le madri vittime di abuso presentino, in molti casi, un comportamento genitoriale del tutto atipico, spesso violento ed ostile, caratterizzato da neglect ed emotional misattunement (trascuratezza e dissonanza emotive).
È come se si trovassero in uno stato di trance, completamente immerse nel ricordo irrisolto dell’esperienza traumatica che hanno vissuto, tanto da risultare spaventose per il figlio che devono accudire. Questi sono i motivi per i quali nel bambino si crea un conflitto fra i suoi sistemi comportamentali di attaccamento e di difesa: i due sistemi vengono attivati insieme, suggerendo soluzioni opposte ma non funzionanti, poiché la figura di attaccamento in cui cerca protezione è al contempo fonte di pericolo. In altre parole, in alcuni momenti, il comportamento di questi bambini sembra essere privo di una strategia coerente nella relazione con la figura d’attaccamento, ed è per questo che, in gergo clinico, viene chiamato “disorganizzato”.
Relazioni genitoriali di questo tipo sono vissute dal bambino come traumatiche: ad oggi, infatti, la trascuratezza emotiva viene considerata dai clinici alla stregua dell’abuso.
L’attaccamento disorganizzato si ripercuote negativamente non solo sulla natura della relazione madre-bambino ma anche sullo sviluppo psicofisico dello stesso. Ad esempio, diversi studi hanno dimostrato quanto questo pattern comportamentale sia correlato ad una riduzione globale delle dimensioni cerebrali, delle fibre GABAergiche inibitorie, del volume ippocampale, e della crescita del corpo calloso. Il tutto si accompagnerebbe, inoltre, a un’iper-attivazione cronica dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, il quale si occupa di regolare la produzione del cortisolo, l’ormone coinvolto nelle risposte allo stress.
Tali modificazioni si riflettono in ambito cognitivo ed emotivo, con deficit di teoria della mente e mentalizzazione (rispettivamente la capacità di attribuire agli altri stati mentali e comprendere che possono essere diversi dai propri, e l’abilità di rappresentarseli internamente), disconoscimento e disregolazione delle emozioni, costruzione distorta dell’immagine di sé, malfunzionamento delle funzioni integratrici della coscienza e della memoria.
In tutti i campioni clinici studiati, l’attaccamento disorganizzato è quello che più significativamente risulta correlato a qualunque tipo di disturbo psicopatologico esplorato, e tale correlazione statistica sembra essere particolarmente significativa per i disturbi dissociativi e borderline e, in genere, per i disturbi collegati ai traumi. La sintomatologia che caratterizza tali quadri patologici è seriamente invalidante e può comprendere, ad esempio, instabilità emotiva, impulsività in ambito personale e sociale, autolesionismo, difficoltà relazionali, episodi dissociativi. Inoltre, la presenza di un attaccamento disorganizzato è un fattore di rischio per la capacità di elaborare eventuali traumi futuri.
Posto che la decisione rispetto ad un’interruzione di gravidanza dovrebbe essere un legittimo diritto di qualsiasi donna, e che negarlo equivale a sottoporre quest’ultima ad una violenza, quanto è sensato che questo venga addirittura impedito a chi subisce un abuso sessuale? E quanto è rispettoso di quel bambino che nascerà e verrà cresciuto da qualcuno che influenzerà negativamente la qualità del suo sviluppo?

Si può uscire dalla Libia con un visto per invito? Sì, l’Italia accoglie un minorenne nigeriano

Sicuramente i media non bastano per informarci sulle reali condizioni in cui si dibattono i migranti (ma anche i cittadini) in Libia, nel gorgo di una sanguinosa guerra civile. Può ad esempio accadere, ed accade, che alcuni funzionari dell’Oim (Organizzazione Internazionali per le Migrazioni), operativi appunto in Libia, finalmente localizzino un minorenne nigeriano. Lo chiamiamo B., fuggito dal suo paese in Libia, è solo, nonché privo di qualunque documento. Quei funzionari riescono a metterlo in contatto con due Avvocati soci dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici per l’Immigrazione) del Foro di Torino, che cercavano di localizzarlo, e scatta l’operazione.

Il giovane aveva raggiunto la Libia nel 2016, nella speranza di ricongiungersi con la madre, regolarmente soggiornante in Italia. Come la totalità dei migranti subsahariani in Libia, B. aveva più volte tentato, sui gommoni dei trafficanti, di raggiungere le nostre coste, ma la guardia costiera, equipaggiata anche dall’Italia, glielo aveva più volte impedito.
Così B. rimaneva intrappolato nei cosiddetti, ma purtroppo reali, “gironi dell’inferno libico”: in quanto migrante irregolare, veniva più volte rapito e trattenuto nei terribili centri di detenzione, a scopo di estorsione.
Siamo ad un passo dal faticoso lieto fine. Ferito e bisognoso di cure mediche, B. trovava finalmente protezione e sostegno nei salvifici Uffici dell’Oim, i cui funzionari si adoperavano per tentare di organizzare la sua partenza. Sebbene l’Oim avesse reperito e validato le dovute prove del legame familiare con la madre, l’Ambasciata nigeriana impediva il rilascio sia del passaporto, sia di un lasciapassare in favore di B., al quale veniva così preclusa la possibilità di chiedere il visto per l’ingresso regolare in Italia. A nulla bastavano nemmeno le valutazioni ad hoc (Best Interest Assessment report) redatte dall’OIM – in collaborazione con UNHCR e UNICEF – che certificavano la necessità di ricongiungimento con la madre in Italia.
È a questo punto che si inseriva l’intervento dei legali di Torino, per l’esattezza l’Avv. Maurizio Veglio e l’Avv. Carla Lucia Landri: su espresso incarico conferito dalla madre di B., gli avvocati proponevano ricorso urgente al Tribunale di Roma citando il nostro Ministero degli Affari Esteri per ottenere il rilascio immediato di un visto umanitario o un visto per cure mediche (previsto dall’art. 36 Testo Unico Immigrazione), onde proteggere il minore da ulteriori rapimenti e da un peggioramento delle sue condizioni di salute.
La portata rivoluzionaria dell’ordinanza del Tribunale, resa lo scorso 21 febbraio dal Giudice dott.ssa Colla, sta nell’aver applicato direttamente quella disposizione del regolamento europeo, cd. “Codice Visti”, che prevede che gli Stati possano rilasciare un visto per motivi umanitari. La norma che prevede questa possibilità (art. 25) non è mai stata trasposta in alcuna norma della legislazione italiana. Tuttavia, trattandosi di un regolamento, le norme contenute producono i loro effetti negli Stati membri, senza bisogno di misure di recepimento nell’ordinamento giuridico interno.
Infatti, grazie al provvedimento del Giudice capitolino, l’Ambasciata italiana a Tripoli ha finalmente rilasciato un lasciapassare e un visto di ingresso “per invito” a B., il quale ha lasciato la Libia a bordo di un aereo per ricongiungersi con la madre. Piccola curiosità: considerata appunto l’inesistenza nel nostro ordinamento di un visto per motivi umanitari, nell’emissione del visto l’Ambasciata italiana lo ha dovuto definire “visto per invito”, così come ordinato dal Giudice nell’ordinanza a fronte della particolare vulnerabilità del giovane e dell’estrema pericolosità delle sue condizioni di vita nel paese di origine ed in Libia.
Il caso di B. permette di fare luce su come vadano – o non vadano – le cose nella Libia della guerra civile e dei governi fantoccio. D’altronde, già una recentissima sentenza della Corte d’Assise di Milano, condannando all’ergastolo un cittadino somalo “gestore” di uno dei centri di detenzione in Libia, aveva cristallizzato questa disumana realtà. Nello stesso senso, la situazione di estrema emergenza in cui versano migliaia di uomini, donne e bambini in Libia, trova conferma grazie all’ordinanza emessa in favore dell’evacuazione di B.
Riteniamo singolare che un Giudice dello stesso Stato che ha interrotto le attività di salvataggio in mare, criminalizzato da anni l’operato delle ONG e sostenuto la Guardia Costiera Libica, ordini il rilascio di un visto, applicando l’art. 25 Reg. CE/810/09, proprio in virtù dell’emergenza libica.
La decisione del giudice romano àncora l’obbligo dell’Italia di accogliere B. a precise norme costituzionali (diritto alla salute e all’unità familiare) e internazionali, e, allo stesso tempo lo disancora da ogni valutazione di merito sul riconoscimento in capo a B. della protezione internazionale.
Tra l’altro, è importante tenere presente che ad oggi, per chi fugge da situazioni di pericolo e persecuzione, l’unica via percorribile per entrare legalmente in Italia è quella dei corridoi umanitari, che però sono esperienze del tutto limitate ai fondi e alle disponibilità del Ministero dell’Interno, e ad un giudizio prognostico sul riconoscimento della protezione internazionale. Ancora una volta la decisione che ha salvato la vita a B. è rivoluzionaria nella misura in cui prescinde dalla volontà dell’interessato di domandare asilo politico in Italia, ma si basa unicamente sulle sue esigenze di sicurezza, salute e ricongiungimento con la madre.
Questa causa strategica apre le danze per una miracolosa alternativa ai gommoni dei trafficanti per fare uscire le migliaia di persone torturate, schiavizzate ed isolate dagli stenti della Libia. Unico ma grosso ostacolo, è la necessità che il conferimento di espresso incarico degli interessati all’avvocato avvenga per iscritto e alla presenza del professionista: è stato possibile aiutare B. perché, in quanto minore, è stata la madre dall’Italia a rivolgersi ai legali, ma non sarà così facile per tutti i maggiorenni che dalla Libia non si possono muovere.
Ad ogni modo, si tratta di un nuovo strumento di contenzioso giudiziario per la tutela dei diritti umani e per la libertà di movimento, in attesa che ci sia, un giorno, la volontà politica di trovare una vera soluzione a tale immane problema della nostra generazione.
Clara Nieloud

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