CORONAVIRUS, RIVOLTE NELLE CARCERI E PROBLEMI NASCOSTI SOTTO AL TAPPETO

Milano, La Spezia, Modena, Bologna, Napoli, Salerno, Foggia, Bari, Palermo, per citarne alcune. In più di 20 carceri italiane si è protestato e si protesta – in alcuni casi molto violentemente – a seguito delle restrizioni subite dai reclusi per contrastare la diffusione del maledettissimo Coronavirus.

E allora via al solito campionario di frasi che vanno dall’ingenuo al fortemente sgradevole: “come fanno a non capire che le restrizioni sono per il loro bene?”, “cos’hanno da protestare?”, oppure “si lamentano che le strutture carcerarie fanno schifo ma sono i primi a distruggerle!” o ancora il sempreverde “mi fanno pena le persone per bene che rischiano di perdere il lavoro o peggio la salute, non i delinquenti!”.

Davanti a simili accadimenti possiamo unirci al gregge rumoreggiante, oppure provare a riflettere sul perché si è arrivati a tanto.

La preoccupazione per il Coronavirus, come ben detto dal Prof. Tullio Padovani, è stata il detonatore di una bomba che era destinata ad esplodere, prima o dopo.

Andiamo con ordine. Abbiamo avuto il dispiacere, in queste settimane, di assistere a scene incredibili: giovani potenzialmente untori accalcati sui treni per timore di non poter più tornare al Paese loro, invasioni di intere famiglie al supermercato a litigarsi l’ultimo pacco di penne (rigate), mascherine vendute più care del tartufo.

E allora, se la reazione del “popolo libero” – espressione che fa molto game of thrones, ci rendiamo conto e ce ne compiacciamo – è stata così irrazionale, immaginatevi affrontare la stessa emergenza in un luogo chiuso, dove le informazioni arrivano ad intermittenza e dal quale non è possibile uscire.”

Un luogo che ti assicura una rigida quarantena rispetto al mondo, ma che ti costringe a vivere gomito gomito con i compagni di cella, gli agenti, i pochi – e per una volta suona come una buona notizia – assistenti sociali ed operatori tutti. Persone che transitano dentro e fuori dalle mura carcerarie, non si sa con che bagaglio di virus e malattie.

A ciò aggiungiamo: 1. La nota questione del sovraffollamento: a fronte di 51.000 posti disponibili, le nostre carceri ospitano più di 61.000 persone che spesso si ritrovano a dividere in tre, celle da 12 metri quadri. Volendo rispettare la distanza di un metro di sicurezza, dovrebbero dormire tutti e tre fuori. 2. La situazione igienico-sanitaria: “lavatevi frequentemente le mani!”, ci hanno detto. E giù di video-tutorial su come pulire gli spazi tra le dita. Ecco, l’accesso all’acqua e soprattutto ai prodotti di pulizia è un tasto dolente delle nostre patrie galere. Si consideri poi che circa 5.000 reclusi superano i 60 anni di età e che una consistente fetta di questi risulta affetta da patologie, anche respiratorie, che di questi tempi certo non contribuiscono a far dormire sonni tranquilli. 3. I contatti con l’esterno: l’OMS, tra le più efficaci misure per gestire l’ansia, l’angoscia e la depressione da quarantena, raccomanda di “parlare e confrontarsi (e confortarsi) con amici e parenti”.

Teletrasportiamoci allora in carcere, lontani da questi interlocutori privilegiati, nel momento in cui riceviamo la notizia della sospensione sine die dei colloqui e dei contatti con l’esterno. È chiaro a tutti che siano misure necessarie, però ahia, che male che deve fare.

Ed ecco qua, BUM! La bomba è esplosa dentro le mura del carcere. Possiamo limitarci a dire “e allora quelli che hanno rubato il metadone? E quelli che sono evasi? E tutti i danni arrecati alle strutture?”. È tutto inaccettabile e da condannare in tronco, ovviamente. Ma forse è più utile quelli che stanno facendo gli altri, coloro che si sono messi al lavoro per immaginare misure utili e di immediata applicazione per evitare che la pandemia varchi i cancelli degli istituti, con le conseguenze da film horror che non fatichiamo ad immaginare.

Ma forse è più utile quel che stanno facendo gli altri, coloro che si sono messi al lavoro per immaginare misure utili e di immediata applicazione per evitare che la pandemia varchi i cancelli degli istituti, con le conseguenze da film horror che non fatichiamo ad immaginare. La sempre ottima associazione Antigone, insieme all’Unione delle Camere Penali, ha articolato una proposta che, sinteticamente, prevede: la messa a disposizione dei detenuti di smartphone per comunicare in videochiamata con i numeri già autorizzati per 20 minuti al giorno; l’autorizzazione, per chi già goda della semilibertà, di dormire fuori dal penitenziario; l’estensione dell’affidamento in prova ai servizi sociali pensato per i soggetti tossicodipendenti e della detenzione domiciliare per gli ultra settantenni anche a quei soggetti affetti da patologie cardio-respiratorie di cui dicevamo.

Ringraziamo di cuore e supportiamo Antigone e l’Unione delle Camere Penali sperando che, rientrata l’emergenza, si riprendano in mano i lavori di riforma penitenziaria lasciati cadere nel 2019, consci del fatto che, così, non è davvero più possibile andare avanti.

IL DISEGNO DI RIFORMA DEL PROCESSO PENALE NON CI MANDA IN VISIBILIO

Il 14 febbraio 2020 il Consiglio dei Ministri ha approvato un Disegno di Legge con il quale ha dato delega al Governo per procedere al restyling del codice di procedura penale entro un anno. Un bel regalo per i giuristi innamorati del 2021.

Di seguito i punti che ci paiono salienti:

1.    Modifica dei termini per le indagini preliminari: 6 mesi per i reati puniti con pena detentiva massima non superiore a 3 anni, 18 mesi per i reati più gravi e complessi – mafia, terrorismo, rapina ed estorsione aggravate, omicidio, armi, violenze sessuali –, e 12 mesi per i restanti, con un’unica possibilità di proroga per un massimo di 6 mesi. Decorso il termine, e qualora entro 3 mesi il PM non abbia chiesto l’archiviazione o notificato l’avviso di fine indagini (il ben noto “415 bis”), scatta l’obbligo di procedere alla completa discovery degli atti di indagine. E se il PM si dimentica? Sono previste, accertato il dolo o la negligenza della condotta, sanzioni disciplinari. Innovativa la possibilità per la parte di chiedere al Giudice per l’udienza preliminare di valutare l’eventuale ritardo con cui il PM ha iscritto la notizia di reato – è una prassi non del tutto sconosciuta quella di ritardare l’iscrizione del nome dell’indagato, in modo da guadagnare tempo di indagine – con conseguente retrodatazione dell’iscrizione e dichiarazione di inutilizzabilità di tutte le fonti di prova raccolte, a questo punto, fuori termine.

2.  Tempi massimi prestabiliti per portare a termine l’intero processo (max 5 anni, eccezion fatta per i reati di mafia, terrorismo e i più gravi delitti contro la PA, che rimangono a tempo indeterminato): le parti potranno così avere una seppur vaga idea di quanto durerà il processo a loro carico (o nel quale sono ad altro titolo coinvolti, si pensi alla persona offesa). Si parla di 4 anni per i processi davanti al tribunale monocratico e 5 anni per tutti gli altri.

3.    Ampliamento del raggio d’azione del patteggiamento, con possibilità di patteggiare sino a 8 anni di reclusione come pena finale, ad eccezione di una (non breve) lista di reati – omicidio, infanticidio, stalking, aiuto al suicidio, omicidio del consenziente, lesioni personali aggravate, per citarne alcuni – che, all’atto pratico, riduce di molto la concreta applicazione di una modifica da tempo richiesta da molti.

4.    Nel caso in cui cambi la persona fisica del giudice durante il dibattimento, si prevede la lettura delle dichiarazioni rese da testimoni già sentiti, senza necessità di convocarli nuovamente. In altre parole il giudice, invece di assistere alla deposizione del teste potendone osservare direttamente il comportamento e la reazione alle domande poste dalle parti, deciderà basandosi esclusivamente sulle trascrizioni, ossia “sbobinature” di quanto detto da quella persona in aula.

5.    Per i reati a citazione diretta, celebrazione del giudizio di appello – che tendenzialmente rappresenta l’ultima possibilità per l’imputato di veder valutati i fatti per i quali è accusato – davanti ad un solo giudice, in luogo del collegio a tre.

6.    Apertura delle porte del magico mondo della tecnologia anche per i poveri penalisti che in futuro (forse) potranno, tra le altre cose, depositare atti e documenti in via telematica.

7.    Svariate, complesse e per il momento fumose le modifiche in tema di notificazioni. Tra le altre cose, è previsto che le notifiche successive alla prima saranno effettuate al difensore, con l’individuazione di generiche ‘deroghe’ qualora l’imputato sia difeso d’ufficio ovvero non abbia mai ricevuto in persona la prima notifica.

8.    Infine, la prescrizione: l’ormai celeberrimo Lodo Conte Bis – a differenza di quanto inserito nella “Spazzacorrotti” approvata nel gennaio 2019 e di cui vi avevamo lungamente parlato – prevede la sospensione dei termini di prescrizione solo in caso di condanna in primo grado, con stop definitivo in caso di conferma della condanna in appello; in caso di assoluzione in secondo grado, invece, il termine prescrizionale sospeso viene nuovamente “accreditato” all’imputato che, se del caso, potrà vedersi dichiarato estinto il reato.

I NODI VENGONO AL PETTINE, L’ITALIA DAVANTI AL CONSIGLIO ONU PER I DIRITTI UMANI

Il 24 febbraio a Ginevra si è aperta la 43esima adunanza del Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, organo ONU che vigila sul rispetto dei diritti umani da parte degli Stati Membri e fornisce alla comunità internazionale un quadro completo e aggiornato di come siano (o non siano) garantiti i diritti fondamentali nelle varie aree del globo.

La sessione, che durerà fino al 20 marzo, permetterà al Consiglio di fare il punto sul livello generale di protezione di diritti e libertà negli Stati dell’ONU e di adottare risoluzioni (non vincolanti, d’accordo) indirizzate ai paesi in condizioni più critiche che indichino quali provvedimenti essi dovranno (dovrebbero, d’accordo) adottare per garantire a tutti un livello accettabile di tutela dei diritti fondamentali. In questa occasione, anche l’Italia dovrà rendere conto di quale sia l’attuale stato dei diritti umani sul suo territorio e dovrà mostrare quali progressi sono stati fatti dopo la brutta figura del novembre 2019, data dell’ultima revisione.

Perché dei progressi sono stati fatti, vero?

Cominciamo col dire che, in occasione della scorsa revisione, l’Italia aveva ricevuto ben 306 raccomandazioni (giusto un paio in più rispetto alle 184 ricevute nel 2014 ma si sa, quelli appena trascorsi sono stati “anni bellissimi”): gli argomenti nel mirino i lavoratori migranti e le minoranze.

Per quanto riguarda migranti e lavoro, il Consiglio delle Nazioni Unite ci raccomandava fra le altre cose di:

  • ratificare la Convenzione sui diritti dei lavoratori migranti e delle loro famiglie, trattato transnazionale che ad oggi in Italia vale quanto il due di briscola;
  • rivedere i decreti sicurezza (si, proprio loro, i nostri bersagli preferiti);
  • rispettare il principio di non respingimento, questo sconosciuto a un certo caporione (capitano) lombardo per il quale al contrario ogni occasione è buona per partire con il ritornello “porti chiusi/no immigrati/stop barconi”.

Ci si chiedeva poi di lasciar lavorare le ONG, senza osteggiare i sistemi di salvataggio in mare, e di rendere il tutto più efficace istituendo un sistema di monitoraggio in grado di rilevare fenomeni di tratta e sfruttamento. A questa ramanzina aggiungevano le raccomandazioni del Consiglio d’Europa, che il 31 gennaio ci pregava di sospendere “ogni attività di cooperazione con la guardia costiera libica fino a che essa non rispetti i diritti umani dei migranti” e ci faceva capire che no, rinnovare il memorandum tra Italia e Libia in materia di respingimenti non è stata una grande idea.

Il Consiglio spostava poi l’attenzione sulla comunità LGBTQI, altro tema scottante per la politica nostrana. Tra le proposte, la creazione di un organismo indipendente a tutela dei diritti umani e di un piano d’azione nazionale sui diritti della comunità LGBTI, il passaggio di provvedimenti in grado di riconoscere la genitorialità delle coppie dello stesso sesso da un lato e la pericolosità dell’omotransfobia dall’altro e la realizzazione di campagne e progetti per la promozione delle pari opportunità.

Inoltre, si consideravano le difficili condizioni in cui si trovano costretti a vivere rom e sinti, l’inadeguatezza dei luoghi di accoglienza per le donne che fuggono da violenze e le disastrose condizioni delle sovraffollate carceri italiani (altro tema ben caro a StraLi).

Insomma, non s’era fatta una gran figura: Italia rimandata in due materie ed esortata a fare di più, e meglio, e in fretta.

Ora, per quanto riguarda la risposta del governo italiano quel che sappiamo, ad oggi, è che il 30 marzo approderà in aula alla Camera la proposta di legge contro l’omotransfobia, e che di recente è stato approntato il pacchetto di provvedimenti che dovrebbe intervenire sulla questione migranti, regolarizzando i numerosi lavoratori irregolari e modificando i decreti sicurezza quantomeno adeguandoli ai richiami che sono stati fatti dal presidente Mattarella.

Per il resto, si vedrà presto in quel di Ginevra se e in che misura le nostre autorità abbiano rispettato le raccomandazioni: nel corso delle prossime settimane l’Italia dovrà esporre al Consiglio in quale modo sta provvedendo a migliorare la vita dei propri cittadini e cittadine, di coloro che vorrebbero esserlo e di chi si trova in transito.

“Io speriamo che me la cavo”, diceva un tale.

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