COSA CONTESTA IL VATICANO AL DDL ZAN – E PERCHÈ È INGIUSTIFICATO E FUORVIANTE

Nella giornata del 17 giugno, la Chiesa Cattolica ha fatto pervenire al governo italiano una richiesta formale di modifica del disegno di legge Zan (DDL Zan), la proposta di legge contro l’omotransfobia approvata alla Camera nel 2020, al momento in discussione alla Commissione Giustizia del Senato.

La richiesta sarebbe giunta tramite i canali diplomatici ufficiali del Vaticano, in particolare attraverso una nota verbale del Segretario per i rapporti con gli Stati, monsignor Paul Richard Gallagher, consegnata dai consiglieri dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede al Gabinetto del ministero degli Esteri di Luigi Di Maio e all’Ufficio relazioni con il Parlamento della Farnesina.

La preoccupazione espressa sarebbe quella di una violazione delle libertà della Chiesa Cattolica secondo l’art. 2, co. 1 e 3 dell’Accordo di Villa Madama stipulato nel 1984; si tratta del Concordato che ha revisionato i cosiddetti Patti Lateranensi, cioè gli accordi sottoscritti fra il Regno d’Italia e la Santa Sede nel 1929, durante l’epoca fascista. In particolare, mentre il co. 1 assicura la libertà della Chiesa di organizzazione e di svolgere la sua missione pastorale, il co. 3 garantisce “ai cattolici e alle loro associazioni e organizzazioni la piena libertà di riunione e di manifestazione del pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione“. Il DDL Zan, stando a quanto sarebbe riportato nella nota, rischierebbe di ledere la libertà di espressione della comunità cattolica, temendo che le posizioni di fedeli e sacerdoti – quelle che siano esplicitamente omotransfobiche, quantomeno – possano essere perseguite.

Problematica sembra essere anche l’istituzione della Giornata mondiale contro l’omofobia, la lesbofobia e la transfobia, anche se la questione non è stata menzionata all’interno della nota formale consegnata.

Non è la prima volta che la Chiesa Cattolica si esprime contrariamente al DDL Zan: anche la conferenza dei vescovi cattolici italiani (CEI) è intervenuta due volte per criticarne parzialmente o totalmente il testo. È tuttavia senza precedenti quest’interferenza formale nel processo legislativo italiano, nonché internazionale, poiché in passato la Santa Sede ha sempre optato per la prassi della moral suasion.

Di fatto, oltre a risultare una manovra diplomatica zoppicante – in quanto, come ha sottolineato anche il vaticanista Marco Grieco, svolta in disapplicazione di prassi consolidate – ci sembra che la manovra della Santa Sede non sia che l’ultima di una serie di azioni, provenienti da soggetti disparati, atte ad alimentare disinformazione sul DDL. L’intervento del disegno di legge sul codice penale è molto semplice: mira ad ampliare lo spettro dei crimini di propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa, previsti all’art. 604-bis. In particolare, vengono già puniti coloro che propagandano idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o istigano a commettere o commettono atti di discriminazione, violenza e provocazione alla violenza, o ancora partecipano, dirigono e promuovono gruppi che incitino a discriminazione e violenza. Il DDL aggiunge, ai motivi già presenti, le discriminazioni per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere e disabilità.

Il disegno di legge inoltre specifica che “sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti“.

Queste non sono le uniche modifiche alla legge italiana che il DDL prevede, senza contare anche la serie di azioni positive per prevenire questo tipo di discriminazioni. Ma sembrano essere i passaggi in violazione del Concordato, secondo la nota formale del Vaticano.

Tuttavia, affermare che il disegno di legge leda la libertà di espressione è fuorviante, in generale e nello specifico caso sollevato dalla nota della Santa Sede. Riteniamo che questa ingerenza senza precedenti nel processo legislativo italiano da parte della Chiesa Cattolica non solo sia ingiustificata, ma anche dannosa. Non fa che contribuire alla disinformazione già alta attorno al DDL Zan, una legge di cui abbiamo bisogno in un momento in cui la luce è finalmente puntata non solo sui crimini d’odio e sulla necessità di punirli, ma anche su una società che sta cambiando in senso più pluralistico, più accogliente, più equo.

Inoltre, questa interferenza non sembra davvero essere supportata sul piano giuridico, né dai contenuti del DDL, né da quelli del Concordato. Ci uniamo quindi al coro di voci che si sono levate e che si leveranno in difesa del disegno di legge, anche da questo ulteriore, indesiderato e pretestuoso attacco.

A cura di Greta Temporin

DIECI, CENTO, MILLE ARCOBALENI A DIFESA DELLA DIGNITÀ DI TUTTƎ

Martedì scorso, il Parlamento ungherese ha adottato una legge che vieta qualsiasi contenuto che ritrae o “promuove” l’omosessualità o la riassegnazione del sesso a chiunque abbia meno di 18 anni. La legge si basa di fatto sull’assunto per cui pedofilia e omosessualità o identità di genere diversa da quella cisgender sono equiparate e correlate.

Nello specifico, la legge impedirà alle associazioni legate alla comunità LGBTQ+ o a qualsiasi altro soggetto di promuovere i propri programmi educativi e informativi, siano questi sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere. Saranno vietate anche le pubblicità che possano essere ritenute solidali con la comunità LGBTQ+, come una pubblicità realizzata nel 2019 da Coca Cola che ritrae una coppia di ragazzi omosessuali. Anche la diffusione di libri, serie tv e altro materiale culturale simile –come la serie Friends, il film Billy Elliot, la collana di libri Harry Potter –potrebbe essere severamente limitata.

La legge non è che l’ultimo tassello di una politica di sistematica disintegrazione dei diritti della comunità LGBTQ+ in Ungheria. Nel dicembre 2020, il governo di Victor Orbàn ha introdotto un emendamento alla Costituzione, che afferma che il matrimonio è limitato all’unione tra un uomo e una donna, di fatto vietando l’adozione alle coppie omosessuali. In vista delle elezioni del prossimo anno, è probabile che la retorica di difesa dei valori tradizionali adottata da Orban e dal suo esecutivo per smantellare sistematicamente lo Stato di diritto e i diritti civili in Ungheria sia destinata ad aumentare.

Le misure che ne conseguono però, oltre a ledere platealmente la dignità e i diritti della comunità LGBTQ+, non fanno altro che aumentare l’ostilità sociale e alimentare attacchi ed episodi di violenza, in Ungheria e non solo. Le reazioni non si sono fatte attendere, sia a livello nazionale che a livello internazionale. Già prima del voto, migliaia di persone erano scese in piazza nella Capitale, Budapest, per denunciare la campagna sistematica del governo contro la comunità LGBTQ+. L’opposizione ha cercato di boicottare direttamente il voto, nonostante la larga maggioranza di cui gode il governo guidato da Fidesz e il supporto del partito di estrema destra Jobbik. Dopo l’approvazione della legge, oltre alla reazione di diverse ONG tra cui Amnesty International, anche il Consiglio d’Europa ha condannato l’azione dell’Ungheria, definendo la propaganda governativa come “fuorviante e falsa”.

Lunedì, si è espresso anche l’intergruppo del Parlamento Europeo a difesa della comunità LGBTQI, dichiarando che vietare la rappresentazione e la “promozione” della riassegnazione del sesso, nonché di diversi orientamenti sessuali, si pone in contrasto con il diritto dell’Unione Europea. Martedì, l’indignazione è stata portata dal Consiglio dell’Unione Europea, quando i ministri dei Paesi Benelux hanno unito le voci di altri Stati membri per presentare una dichiarazione fortemente critica contro la legge ungherese.

Il comunicato dell’intergruppo parlamentare si apre con un altro statement fondamentale: “dove l’inazione genera impunità, le persone LGBTI ne sopportano il peso maggiore”. Nonostante il coro di voci che si è sollevato contro i divieti in questi giorni, è ancora all’inazione che stiamo assistendo: da parte delle istituzioni, nel momento in cui la reazione della comunità europea tutta è ancora troppo debole e disorganizzata; da parte della società civile.

Emblematico è il caso delle organizzazioni calcistiche. Il portiere della nazionale di calcio tedesca, Manuel Neuer, ha già disputato due partite del Campionato Europeo con una fascia arcobaleno al braccio. Il gesto è stato sottoposto al giudizio della Uefa, l’organo di autogoverno del calcio europeo, che vieta ai giocatori di promuovere slogan politici. Nessun atto disciplinare è stato preso contro il giocatore –difeso anche dalla Federcalcio tedesca, che ha replicato che Neuer semplicemente promuove la diversità. Tuttavia, è giustificabile interrogarsi se il vaglio sulle azioni di una personalità di spicco, che altro non fanno se non promuovere i diritti umani e la dignità di tuttз, non siano già di per sé una risposta promotrice di inazione, se non di connivenza.

La partita su Europei e presa di posizione è tutt’altro che finita. La Uefa infatti ha respinto la richiesta d’illuminare coi colori della bandiera arcobaleno l’Allianz Arena di Monaco, dove ieri sera è stato disputato il match fra Germania e Ungheria. Il sindaco della città, il socialdemocratico Dieter Reiter, ha risposto che Monaco “è impegnata nella diversità, nella tolleranza e nella reale uguaglianza nello sport e nella società nel suo insieme”. Infatti, la città e i suoi attivisti hanno risposto, manifestando la propria solidarietà alla comunità LGBTQ+ e indossandone i simboli.

Nella giornata di mercoledì, la Uefa ha affermato di condividere i valori di giustizia ed eguaglianza espressi dalla bandiera, esponendo anche il proprio logo arcobaleno; ma di veder l’esposizione alla partita come una strumentalizzazione dello stesso simbolo contro la nazionale ungherese. Fra le risposte dal mondo del calcio al diniego della Uefa, c’è quello del club italiano Juventus, che ha sostenuto l’iniziativa tedesca sui social network attraverso l’immagine del logo del club arcobaleno e il messaggio “Everyone loves football”. Ironia della sorte, nella tanto attesa partita Germania Ungheria il gol decisivo per la Germania é stato segnato da Leon Goretzka, da sempre attivo sul fronte Lgbtq+, e proprio sotto la curva ospite, è corso verso i tifosi avversari formando un cuore con le mani. Anche a fine partita ha postato la foto della sua esultanza e ha scritto: “Distribuite amore”.

StraLi si unisce al coro di associazioni e organizzazioni non governative che in questo momento chiede una risposta trasversale e decisa alle politiche del governo ungherese. Siamo tuttз chiamatз a prendere una posizione a favore della dignità delle persone, indipendentemente dalla loro identità di genere e dal loro orientamento sessuale. Non riteniamo di essere di fronte alla strumentalizzazione di un simbolo per un gioco di forza fra più parti. Chiediamo con fermezza che le istituzioni europee e la società civile si tingano di arcobaleno, nel mese del Pride e nel resto dell’anno, in difesa dei diritti di tuttз.

A cura di Greta Temporin

LA “SUPERLEGA” E’ UN PROGETTO DI STRATEGIC LITIGATION?

La premessa è obbligatoria: questo articolo non prederà una posizione sul merito del progetto della superlega.

La vicenda è abbastanza nota: un gruppo di 12 top team dei campionati spagnolo italiano e inglese formalizzano la costituzione di una “lega” autonoma rispetto alle competizioni organizzate dalla UEFA. Appena data la notizia si riversano sui club fondatori critiche e minacce di sanzioni da tutte le istituzioni calcistiche (e non), tanto che 9 dei 12 club decidono di abbandonare il progetto dopo soli 2 giorni. Da “super” in due giorni la lega diventa “mini” rimangono dentro solo più Juventus, Barcellona e Real Madrid. Gli altri club fanno una sorta di “patteggiamento ” con la UEFA e accettano delle sanzioni ridotte per aver subito abbandonato il progetto ed avere formalizzato le scuse. La UEFA ha aperto un procedimento disciplinare contro i club che si ostinano a stare dentro alla super lega (ieri dichiarato sospeso).

Ora ci siamo chiesti: ma che senso ha tutto questo? Un progetto raffazzonato che alle prime critiche si è smontato. E che senso ha per le tre squadre rimanere nel progetto in tre (che al massimo possono fare un triangolare estivo)? Perché non hanno patteggiato anche loro?

Forse una piccola spiegazione sul metodo (a noi caro) può essere fornita.

Fare strategic litigation è cercare di cambiare lo status quo della legge per far valere un diritto fondamentale che si assume non essere rispettato, tutto attraverso il sistema giudiziario.

A tale fine, è necessario (quasi sempre) un atto di rottura (per contestare una sanzione è necessario in primo luogo violarla e poi agire in giudizio contestandola).

Ora senza entrare nel merito della vicenda (giusto o sbagliato che sia costituire una lega autonoma) ci pare che il metodo nel caso possa ben spiegare come si fa strategic litigation.

I fondatori della superlega hanno infatti compreso che l’unico modo per contestare la posizione dominante della UEFA era creare un campionato a parte e rischiare di incorrere nelle sanzioni e nel blocco sportivo per poi contestare in un Tribunale non solo le sanzioni in concreto ma la legittimità tutta del sistema, ritenuto contrario al libero mercato.

A tal fine l’art. 101 TFUE vieta tutti gli accordi che “abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato”. Questa norma ha però un’eccezione rispetto a quegli accordi tra imprese che “contribuiscono a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico o economico”. Nell’ambito di questa eccezione sin d’ora si è ritenuta legittima la costituzione della UEFA e la relativa egeminia nella organizzazione del calcio europeo (ed anche della FIFA), ma sino ad ora non era mai stata costituita un’alternativa a questa e quindi non si era mai posto un problema di violazione della concorrenza.

Da qui la necessità di creare un’interpretazione di quelle norme previste nel trattato UE su una situazione nuova e non a caso la superlega si è avvalsa di un super avvocato (Jean Louis Dupont, già noto per aver creato un precedente nel mondo del calcio nel celebre caso “Bosman”).

Così pare sia andata. Infatti il tribunale di Madrid, adito proprio al fine di tutelare il progetto superlega, ha sollevato una questione pregiudiziale alla Corte di giustizia UE sugli articoli 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE).

In particolare il Tribunale ha chiesto ai Giudici del Lussemburgo : “ se Fifa e Uefa, come entità che si attribuiscono la competenza esclusiva per organizzare e autorizzare competizioni di calcio internazionale per club in Europa, proibissero o si opponessero, basandosi sulle disposizioni citate dei suoi statuti, allo sviluppo della Superlega”, l’interpretazione dovrebbe essere tale “che queste restrizioni alla concorrenza possano beneficiare dell’eccezione stabilita in questa disposizione, considerando che si limita sostanzialmente la produzione, si impedisce la comparsa di prodotti alternativi a quelli offerti da Fifa/Uefa nel mercato e si restringe l’innovazione, impedendo altri formati e modalità, eliminando la potenziale concorrenza nel mercato e limitando la scelta del consumatore”.

Dovrà dunque pronunciarsi la Corte di Giustizia dell’Unione Europea e disciplinare attraverso la propria interpretazione del trattato (vincolante) una situazione nuova.

A prescindere dal risultato, e forse a prescindere dalle reali intenzioni dei club in discorso, ci pare che l’impostazione tutta spieghi bene la strategic litigation e la sua relativa importanza nei sistemi giuridici.

A cura di Emanuele Ficara

PROCESSO PENALE TELEMATICO E LA VIOLAZIONE DEL DIRITTO DI DIFESA: LA PRONUNCIA DELLA CASSAZIONE

Cancelliere: “Si colleghi a teams” ore. 10.30

Avvocato: “Grazie sono collegata” ore 10.31

(nel mentre viene celebrata l’udienza)

Cancelliere: “A me non risulta. Controlli” ore 10.38

Avvocato: “Sono dentro teams ma non riesco a vedere un canale dedicato per l’udienza (lo uso normalmente per lavoro, è sempre connesso).” ore 10.42

Avvocato: “Riesce a chiamarmi? Oppure l’udienza è già stata celebrata?” ore 11.09

Cancelliere: “Si l’udienza si è conclusa” ore 11.13

In poche righe di “conversazione telematica” tra avvocato e cancelliere è ben esemplificata una delle possibili applicazioni distorte della nuova modalità di celebrazione del processo penale: l’avvocato di fiducia si collega alla piattaforma ed è in attesa, il cancelliere verifica la connessione, un giudice nel mentre celebra in pochi minuti l’udienza avvalendosi dell’avvocato d’ufficio.

Questo è quanto è successo davvero in un’udienza “telematica” avanti ad un Tribunale di Sorveglianza ove, in concreto, è stata impedita la partecipazione del difensore di fiducia, avvocato Federica Genovesi, regolarmente collegato alla piattaforma messa a disposizione dal Tribunale per la celebrazione dell’udienza e abbiamo la certezza che non sia affatto un caso isolato.

StraLi ha sostenuto l’impugnazione del provvedimento di fronte alla Corte di Cassazione per quella che si appalesava come un’evidente violazione del diritto di difesa dell’imputato. StraLi si prefigge di fare Strategic Litigation in un sistema come quello italiano che ormai, più o meno esplicitamente, attribuisce al precedente giurisprudenziale (soprattutto con riferimento alle pronunce della Corte di legittimità) un ruolo decisivo nella risoluzione delle controversie. Il caso in esame appariva dunque assolutamente idoneo a contestare l’illegittimità di una delle possibili prassi distorte nell’uso di un nuovo mezzo di celebrazione del processo e quindi a formare un “principio di diritto” relativo alla nuova situazione dell’avvocato che tenta di “connettersi” all’udienza.

In alcuni però casi il singolo potrebbe non avere un interesse diretto a far valere quella violazione (ad esempio in quanto preferisce patteggiare o la sua pena o la sua misura cautelare termina in un momento precedente alla possibile pronuncia positiva del giudice dell’impugnazione) in tal modo rendendo inutile o svantaggiosa la proposizione dell’impugnazione.

Questi casi sono all’ordine del giorno nel nostro sistema giuridico: quante volte interessi contingenti o costi dell’impugnazione scoraggiano le persone a far valere diritti palesemente violati?

StraLi nasce anche per questo: nel caso supportato dall’associazione quest’ultima si è fatta carico di tutti i costi dell’impugnazione, nonostante la Corte di legittimità potesse pronunciarsi in un momento successivo alla scarcerazione del condannato. Così è andata (i tempi di fissazione delle udienze in Cassazione visto il carico di lavoro sono un ulteriore problema del nostro ordinamento) ma, consci di tale possibilità e dell’obiettivo, avevamo richiesto comunque che la Corte pronunciasse un principio di diritto (avevamo dedotto nel caso una nullità assoluta del provvedimento in quanto emesso senza l’assistenza del difensore di fiducia).

La Corte pur descrivendo l’udienza come celebrata “premettendo la presenza del difensore di fiducia nella cd. “stanza virtuale” e violando il diritto di difesa del condannato” ha dichiarato inammissibile il ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Ancor più interessante risulta però l’impostazione della Procura Generale della Corte di Cassazione data nel caso (e che potrà essere la stessa in casi analoghi) che aveva chiesto l’annullamento insieme alla difesa esplicitamente rilevando che “l’udienza si è svolta senza la partecipazione dell’incolpevole, pur presente a distanza, difensore di fiducia”.

Secondo la Procura Generale questa nuova situazione sarebbe paragonabile, a livello di nullità, al caso in cui venga omesso l’avviso al difensore della data di celebrazione dell’udienza così configurando, per i giuristi, un’ipotesi di “nullità assoluta ed insanabile” che può dunque essere fatta sempre valere nel processo. Tale principio parifica situazioni diverse naturalisticamente ma assimilabili a livello di violazione del diritto di difesa: impedire al difensore la partecipazione da remoto all’udienza è identico a non mandargli l’avviso della celebrazione dell’udienza in presenza.

Tale orientamento, unico che riteniamo di sicura tutela del diritto di difesa del condannato/imputato, potrà dunque essere confermato da successive pronunce.

Segnalateci quindi potenziali casi simili per contribuire a cristallizzare questo giusto principio di diritto.

A cura di Emanuele Ficara e Federica Genovesi

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